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La non prevedibilità nella poesia di Nicola Romano

Argomento: Letteratura

Saggio di Antonio Martorana 

Proposta di Nicola Romano »

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Pubblicato il 03/03/2016 12:18:58

La costante organizzativa che connota lo statuto dei testi poetici di Nicola Romano è ravvisabile nella trasgressività con la quale egli passa dalla de-costruzione alla ri-costruzione del reale, sul filo d’un perfetto rapporto dialettico con la de-costruzione e ri-costruzione del linguaggio. L’obiettivo di tale operazione eversiva è ben preciso: procedere alla rifondazione immaginaria del reale secondo una “logica della non prevedibilità” o “dell’alterità”, assolutamente alternativa alla logica del senso comune, obbediente alla legislazione del concreto e delle convenzioni. Si tratta di ripensare il mondo al di là delle fallaci apparenze fenomeniche e di rappresentarlo con nuove esperienze d’immaginazione, tali da realizzare la piena libertà del soggetto. L’intervento destrutturante ha come esito il “rovesciamento” del tradizionale impianto architettonico del discorso, con trasformazioni semantiche capaci di reinventare il linguaggio, in un gioco carambolante di parole tese all’inseguimento del loro contrario. Proprio nel “rovesciamento” va vista dunque la chiave di lettura di quella che, con un’espressione coniata da Joseph Margoles, possiamo definire la “specificità ontologica” dell’opera poetica di Nicola Romano.

Addivenire a tale conclusione significa collocarla sul versante di una “diversità” che è venuta attraendo, come un magnete, l’interesse di un agguerrito indirizzo ermeneutico, al punto da essere considerata fattore fondante del testo poetico. Ciò ha segnato uno spostamento del baricentro rispetto alla diffusa tendenza a privilegiare la dimensione affettivo-emozionale, sulla quale Ivor Armstrong Richards ha elaborato una delle più note teorie del testo poetico.

Il discorso poetico che Nicola Romano va conducendo, a partire dall’esordio con I FARAGLIONI DELLA MENTE (Ed. Vittorietti, Palermo, 1983) sino alla più recente raccolta VORAGINI ED APPIGLI (Ed. Pungitopo, 2016), è per certi aspetti una narrazione obliqua del disagio esistenziale dell’uomo del nostro tempo, che appare come sospeso in un limbo d’inappartenenza. Chiamata a rappresentare la precarietà del vivere, la sua penna incide nella carta fenditure profonde come certe crepe sulla rugosa superficie di un cretto.

Forse nulla può rendere meglio la sindrome di spossessamento di cui soffre l’individuo come la metafora dal sapore kafkiano adoperata da Aldo Gerbino a proposito della “narrazione figurativa” di Pippo Gambino: “la vita appare una grande area di attraversamento, dove c’è sempre un doganiere che richiede il prezzo del pedaggio”. E, volendo rimanere sul campo delle affinità elettive con il mondo dell’arte figurativa, ci piace azzardare un accostamento tra il discorso poetico “pluridimensionale” di Nicola Romano e quello pittorico della “pluridimensione” di Domingo Notaro, esperienza avviata nel 1974 e centrata sul parallelismo tra microcosmo e macrocosmo. Le tele di questo artista, esposte alla grande mostra del Vittoriano nel maggio del 2001, presentano al centro un vuoto rettangolare (microcosmo), speculare ad un vuoto esterno (macrocosmo). Nello spazio tra questi due vuoti è tutto un gravitare di grappoli umani e grappoli stellari.

Il fattore che, secondo noi, lega idealmente le due produzioni creative è la tensione dialettica della interrelazione tra gli elementi invarianti della struttura triadica anthropos-cosmos-logos. Attraverso il logos (linguaggio poetico-pittorico) è reso il malessere dell’ anthropos-grappolo umano nel rapportarsi con un cosmos che potrebbe essere inteso come lo intendono gli studiosi del cosiddetto Gruppo M. designante, cioè, «l’insieme di tutto ciò che esiste al di fuori dell’umano e in particolare della coscienza».

Abbiamo avuto modo di evidenziare come sia proprio lo scardinamento dell’assetto tradizionale del comunicare a rivelarsi funzionale al “dictum” del nostro poeta. Nell’urto dell’oggettività, questi passa immagini prodotte da attoniti rovelli sull’insanabile divaricazione tra essere ed esistere. La sua weltanschaung potrebbe far pensare al motivo husserliano che Lucio Piccolo esponeva ad Eugenio Montale nel corso di un incontro letterario a San Pellegrino nel 1954. Ma, procediamo adesso ad un tentativo di focalizzare la dinamica del rovesciamento nell’organizzazione strutturale del discorso poetico del nostro Autore. Accade che ognuna delle cose del suo universo immaginario, non appena sfiortata dalla parola, ch’egli estrae dal proprio “cesto di sillabe pensate”, conduce ad altro da sé, ad una realtà capovolta, si fa espressione segnica di qualcosa di non detto, forse di indicibile. Però, a ben vedere, questo indicibile evocato dal contatto della parola con l’oggetto, galleggia come una zattera sulle acque palustri, torbide e limacciose dell’inconscio, appartiene insomma a quell’Altro che la “rottura epistemologica” provocata da Sigmund Freud ha collocato al centro del nostro pensare e del nostro agire.

Volendo entrare nel merito della cifra stlilistica del nostro poeta, va precisato che la sua definizione semiotica è strettamente correlata alla capacità di spaziare lungo un arco amplissimo di rifrazioni polisemiche che vanno dalle asperità espressionistiche alle morbidezze musicali della rarefazione surreale di momenti affabulatori ed onirici. Questo offre la misura della sua capacità di pervenire, nella manipolazione del sistema differenziali deI segni,  ad esiti di significatività polifunzionale, con originali soluzioni stilematiche e, relativamente alla crudezza espressionistica, ci colpisce l’aspro impatto fonico del versi.

Anche spingendomi al limite della derazionalizzazione, Nicola Romano recupera il valore magico-sapienzale della parola inserendola, sempre con precisione, tra il prima e il dopo sull’asse del dire. Particolarmente felice è la combinazione tra l’intensità della cifra affettivo-emozionale con quel rigore geometrico del dettato che, secondo Paul Valery, deve costituire l’elemento fondante della “fabrication” poetica. Pur in relazione a quanto omette, la parola sa nutrire di linfa vitale – afferma Marcuse – ciò che resta «non detto, non visto, non udito». Dai topoi ricorrenti, o meglio, dai “sintomi logici” (Nelson Goodman) riscontrabili nei testi, emerge un risentito ethos esistenziale nei confronti di un mondo su cui si addensa il fall-aut radioattivo conseguente alla rottura dell’equilibrio fra uomo e natura.

Riteniamo che per acquisire un’adeguata chiave di lettura del mondo poetico di Nicola Romano, sia essenziale penetrare nella “logica” che presiede alla tessitura del discorso. Nel tentativo di definirla, l’espressione più appropriata ci sembra la “logica della non prevedibilità”, nella cui ottica Maurizio Della Casa precisa che «vanno intese le prospettive plurime, gli spostamenti nei confronti di quanto ci si attendeva, l’introduzione di legami ove parrebbe proporsi la disgiunzione, o di esiti diversi e provocanti laddove l’arco pareva destinato a rinchiudersi”. Una piena convergenza con queste considerazioni cogliamo nel passo della semiologa Susan Petrilli, davvero illuminante ai fini d’un corretto approccio metodologico alla poesia di Nicola Romano, che qui riportiamo:

“I linguaggi e le lingue si fondano sul linguaggio come misura modellizzante primaria. Realizzandone la capacità di costruzione di più mondi possibili. Da questo punto di vista essi si pongono come il risultato storico del gioco di fantasticare. La capacità di generare e di inventare nuovi mondi possibili significa che l’essere umano, diversamente dagli altri animali, non è fatto per essere contenuto entro i confini d’un unico mondo, di un unico linguaggio, ma, al contrario, è predisposto alla sperimentazione di più mondi e più linguaggi. Ciò rende l’animale umano particolarmente sensibile e rispondente alla “logica dell’alterità” che muove l’intero universo dei segni”. (S. Petrilli, INTRODUZIONE A LINGUAGGI, Bari, Laterza, 2003).

Una posizione strategica occupa, nell’organizzazione strutturale del discorso, la metafora, con la sua funzione di trasferimento semantico, spesso supportata dal paradosso. I testi di Romano sono disseminati di metafore che, nella loro fisionomia identitaria polisemica e ambigua, introducono una logica di ipoteticità che dovrebbe guidare a sciogliere i fili intricati dell’esperienza. Ed il paradosso interviene su di esse con un ruolo di rafforzamento speculare e di dinamizzazione, teso, come dimostra Cleanth Brooks in un suo studio ormai classico, a contrastare, sia sotto il profilo linguistico che sotto quello immaginativo, i punti di vista convenzionali. (C.Brooks, LA STRUTTURA DELLA POESIA, tr.it., Bologna, Il Mulino, 1973).

Davvero paradigmatici, per i loro esiti, possono essere considerati i testi di Romano nell’inverare le tesi sostenute dai due citati semiologi, soprattutto per quanto attiene all’immancabile intervento d’un fattore straniante, che mette in scacco la visione precostituita degli eventi. Si comprende così tutta l’incidenza che ha il mix di paradosso, infrazione e ambiguità nell’ambito di una fenomologia del “rovesciamento” del discorso, dove, per dirla con Greimas, “ogni operazione di descrizione del senso è un’operazione di transcodificazione” mediante il ricorso ad altre parole o frasi. Punto ortivo di enigmaticità è la mutua convertibilità tra parvenza illusoria della realtà (mondo dell’oggettività) e concretezza reale dell’illusione (mondo della soggettività). Proprio su questo terreno si apre, per utilizzare una suggestiva immagine di Deleuze, la “caccia” a un senso talora inafferrabile, data la sua natura di “semiosi illimitata”, secondo un concetto elaborato da Umberto Eco. È lo stesso Deleuze ad affermare: “Non dico mai il senso di ciò che dico. Ma in compenso posso sempre prevedere il senso di ciò che dico come l’oggetto di un’altra preposizione di cui, rispettivamente, non dico il senso”.

Il fatto che Nicola Romano sia “anarchicamente” portato a sfondare il reticolo del sistema linguistico codificato, lo pone tra quegli autori veramente creativi, capaci di riportare un linguaggio scrostato dagli “automatismi retorici” (cit. Eco) e dalle forme standardizzate, secondo quanto viene auspicato da Gadamer, entro il contesto di vita in cui è sorto.

Il nostro poeta esce vittorioso dalla sua “sfida semiologica” centrando l’obiettivo di far corrispondere il linguaggio al vissuto (Erlebnis), alla poliforme complessità dell’Essere. In quest’ottica vanno visti i vari “cortocircuiti semantici” che costellano la sua produzione. Sono figure che ne sconvolgono l’orizzonte semiotico-culturale con infrazioni produttive di nuovi ed originali equilibri. Abbiamo voluto utilizzare qui la definizione adottata da Giovanni Giudici per indicare un tratto essenziale della scrittura poetica di Amelia Rosselli, consistente nell’effetto dirompente degli scarti sui rapporti combinatori ed associativi interni al contesto, con conseguente ribaltamento di prevedibili direzioni di senso in traiettorie totalmente divergenti. Per la sua capacità di manipolare creativamente il linguaggio, Nicola Romano, a nostro avviso, riesce a mettere in atto il “principio di esprimibilità” teorizzato da John R. Searle, in base al quale “tutto ciò che si può dire può essere detto…perfino nei casi in cui è di fatto impossibile dire esattamente quel che voglio dire. È possibile, in linea di princìpio, se non in pratica, aumentare la mia conoscenza della lingua, o, più radicalmente, se la lingua o le lingue esistenti non sono adeguate al compito…posso…arricchire la lingua introducendovi nuove parole”.

Nel suo rapporto mediale con il mondo, Romano sente di dover travalicare i limiti d’un codice inadeguato a rendere la realtà totalizzante della persona, e perciò riconduce il fatto linguistico alle sue radici umane e antropologiche, liberando e reinventando quei termini incastrati negli interstizi degli automatismi convenzionali. L’obiettivo è la rifondazione verbale del mondo. Tra le soprese che ci riserva la “logica della non prevedibilità” c’è il dissolversi, come per incanto, della cortina di insicurezza ontologica che rende difficile ritrovare se stessi/ in questo mare certamente magnum/ che già promette buche e spaesamenti/ col primo notiziario delle sette (Ritrovarsi). Il miracolo accade nel momento in cui Romano coglie nella pregnanza simbolica della poesia la forza rivelatrice del ritmo profondo della vita dell’universo. Ho la conferma, per usare le parole di Mario Luzi, che essa rappresenta la “risposta primaria dell’uomo al mondo che lo stupisce e lo interroga in innumerevoli modi”. E già pregusta l’ebbrezza che lo assalirà riuscendo a salire su quel piccolo treno di parole che lo porterà lontano dal tempo ingrato e vuoto/ che tràina e disperde (Penitenza). Possiamo intuire che la meta finale cui è diretto il piccolo mezzo locomotivo, che proviame a immaginare sbuffante nella sua corsa tra prati in fiore, sia un Assoluto immerso in una luce aure di trascendenza. Poco importa, allora, se le labbra alcune volte possono sbagliare perfino il play back d’una preghiera.

Un poeta, Nicola Romano, sicuramente erede della grande tradizione antiretorica della lirica siciliana, da Salvatore Quasimodo a Lucio Piccolo e Bartolo Cattafi, e voce sicuramente tra le più alte dell’odierno panorama della poesia italiana.


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