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La folle vita di Jean Rossignol il marinaio - 2

di Frank Gallo
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Pubblicato il 05/08/2012 12:14:22

KINDO, La folle vita di JEAN ROSSIGNOL

«AURELIA! Sul serio Aurelia, non posso restare con te stasera. Ho degli impegni inderogabili, te lo avevo detto al convento, ricordi?»

«Dài, vieni con me, ho un’idea». Speravo che non mi ubbidisse come al solito. Ero nelle sue mani, anche se mi ribellavo non potevo fare a meno di seguire il suo profumo di camomilla, mi stava infondendo una calma ritrovata e mi sentivo oltremodo fiero di aver fatto l’amore con lei sulla scrivania della madre superiora. Non avevo più paura di aver peccato perché era visibilmente svestita dell’abito da suora. Probabilmente, visti i trascorsi, non le si addiceva più di tanto.

«Dove mi stai portando Aurelia? Non correre, mi fanno male i piedi».

«Ma dove le hai prese quelle scarpe? Ne avevo un paio uguale quando andavo al liceo».

Percorremmo insieme una strada in salita che portava fuori città, San Juan non aveva più di centomila abitanti, tutto sommato era un paese dal mio punto vista. Ma c’era molta gente che la chiamava città, anzi Città della Luce . La salita era sempre più ripida, stavamo superando il castello passandoci sotto, di fronte a noi tutta la baia splendeva sotto il tramonto, alle nostre spalle il buffo cartello si stava spegnendo sotto i comandi di dio solo sa chi.

«Come hai avuto l’idea del cartello gigante?»

«Ho chiesto a qualcuno che conoscevo di fare tutto questo. Per trovarti, Jean».

«Sei davvero una matta…»

Rise prendendolo come un complimento. Forse lo era. Poi mi tirò più forte su per la salita. Un giardinetto con le palme, grasse e sporche, ci accompagnava lungo quella camminata faticosa. La sera era fresca, soprattutto per indossare un vestitino bianco e scollato come quello. Si vede che doveva essere il più bello che aveva, con un significato particolare per lei, e se lo era messo anche se stava calando il sole, per venire a cercarmi, oppure lo aveva semplicemente addosso da quella mattina. In ogni caso è incredibile quante cose si possano scoprire tutte insieme in un giorno solo.

«Non mi dire che mi stai riportando al convento! Ho chiuso con quel posto io…» Scherzavo, ma scherzare era il modo migliore per essere seri. Lei lo sapeva, sapeva un po’ troppe cose per essere un’ex suora francescana.

«Non ti preoccupare Jean. Anche io ho chiuso con il convento e con la Chiesa, forse per le tue stesse ragioni».

Mi tranquillizzava sentirmelo dire. L’idea di avere a che fare con una specie di ibrida, di giorno suora e di notte donna, mi avrebbe inibito e non poco, con il rischio di compromettere qualunque cosa mi stesse aspettando al di là della collina del castello. E qualunque cosa fosse, l’aspettavo con ansia.

«Sei molto bella con questo vestitino scollato». Mi piace sempre fare un complimento a una bella ragazza o a una donna attraente. È il mio modo per riconciliare il male che aleggia nell’aria con i sorrisi che tiro fuori quando lo faccio. Tutto questo Aurelia non lo poteva sapere, lei si limitò ad arrossire e a stringersi più forte al mio braccio. Adesso avevamo preso lo stesso ritmo e potevamo parlare senza che l’affanno smorzasse le parole.

«Perché sei scappata ieri? Avremmo potuto risolvere tutto, parlarne da persone civili. Faceva freddo là dentro».

Sorrise. Si era presa la sua piccola vendetta. «Come hai fatto a uscire? Stavo già pensando di chiamare madre Adelaide e chiederle di venire ad aprirvi».

«Grazie, gentile da parte tua. Dopo…» guardai l’orologio sulla Torre del drago, «dopo esattamente 24 ore. Pensa se dovevo andare al bagno!»

«Beh, c’era sempre il pozzo». Ci mettemmo a ridere come due bambini, complici in un gioco dispettoso. «Ti immagini quanto ci metteva la tua pipì a cadere per novantasei metri!»

Sapevo quanto ci metteva e anche il rumore sfrigolante che faceva una volta giù, una eco rimbombante su per le pareti dopo essere caduta nell’acqua antica e piena di mistero. Ma non glielo dissi, lasciai che rimanesse una battuta e non le diedi la soddisfazione di sapere che mi aveva costretto a infilare la parte più preziosa del mio corpo in una grata centenaria piena di ruggine. Risi più forte e stavolta da solo, senza condividerlo con lei, quando ripensai alla faccia di Jacqueline il giorno prima, incuriosita davanti a quella scena.

La via che percorrevamo si faceva sempre più intima, il parco ai piedi del castello era illuminato dai fari delle auto che ci sfrecciavano a fianco, a volte pareva davvero che ci investissero. Eppure c’era gente che scendeva a piedi regolarmente per quella strada per arrivare in centro, era la stessa strada che veniva dal convento, era lunga diversi chilometri.

«Aurelia, tu come sei scesa giù in paese stamattina?»

«A dire il vero sono venuta via ieri sera tardi, ho camminato per tutta la notte e ad un certo punto mi sono ritrovata sull’Explanada. Avevo i piedi che mi facevano male».

«Ci avrai messo una vita! Perché non hai chiesto al maggiordomo inglese di accompagnarti con il furgone?»

«Perché il furgone lo avevi rubato tu. Quando sono uscita dal mio nascondiglio era già buio e ho visto che i ragazzi stavano facendo i pettorali in palestra. Dopo averli guardati per un po’ mi sono resa conto che se loro erano lì e di fuori il furgone non c’era, poteva esserci soltanto una spiegazione».

«Hai ragione. Me ne ero dimenticato, siamo scesi tutti e tre con il furgone del convento. L’ho lasciato al supermercato, se lo riprenderanno lì. Dopotutto, visto quello che mi stavano facendo, se lo meritavano».

«Tutti e tre? C’è qualche altra moglie della quale non mi avevi parlato?» mi rispose la giovane e dolce Aurelia.

«No, sta’ tranquilla, nessun’altra ex moglie. C’è un medico, uno di Nizza, che è venuto al convento ieri sera e ci ha aperto la porta. Mi è stato di grande aiuto».

«Comunque, riguardo i ragazzi, non saltare subito a conclusioni affrettate. Secondo me ci dev’essere una spiegazione per quello che hai sentito ieri».

«Stavano copiando il mio ultimo capitolo per darlo a quel tale che hai visto ieri, Roberto, e fargli girare la scena finale di un film che stavamo preparando con la mia società prima che m’imbarcassi. La superiora era d’accordo. Non ci sono altre spiegazioni».

«Chissà, eppure i ragazzi sono troppo buoni per fare una cosa del genere, te lo assicuro. Eccoci!»

«Eccoci dove?» Davanti a noi c’era soltanto il Silver Star e una chiesa. Se aveva chiuso con le chiese voleva dire che aveva una stanza al Silver Star! Non ci potevo credere. «Aurelia, dimmi che siamo venuti in chiesa per confessare i nostri peccati!»

«Una specie…»

Il tono di Aurelia era saccente, era la prima volta che la sentivo parlare così, mi faceva paura. La guardavo sculettare davanti a me e mi chiedevo dove avesse imparato in soli due giorni a muoversi così. Si vede che lo aveva sempre fatto e con la tunica non me ne ero accorto. Entrammo, era la prima volta che vedevo anche la reception del Silver Star eppure a San Juan era famoso, ci erano stati tutti almeno per prendere un caffè nell’elegante giardino a picco sul mare. In effetti non avevamo fatto altro che girare attorno ai piedi del castello e ritrovarci dall’altra parte del paese. Il mare di fronte alle finestre era impetuoso, mi fece paura anche quello. Un tizio dietro un banco nero prese la chiave della 99 prima che Aurelia aprisse bocca e gliela diede. «Buonasera signorina, fatto buone compere?» le chiese sorridendole in maniera malata.

«Non farci caso,» mi sussurrò all’orecchio mentre ci avvicinavamo, «gli ho raccontato che sono qui in visita e che andavo a fare shopping».

La reception era stretta e lunga, a forma di elle, i vasi delle piante erano quadrati e di un materiale color legno. Davano un’aria moderna all’ambiente. Le pareti tappezzate da panno beige, il pavimento in parquet chiaro, il quadro delle chiavi pieno. O erano tutti in giro, o l’albergo era vuoto.

«Andiamo su, mi è rimasta una bottiglia di vino bianco». Quando la porta dell’ascensore si aprì, il profumo di Aurelia mi arrivò in faccia come uno schiaffo.

«Vino? Tu bevi vino bianco?» le chiesi.

«Hm hm. Ne avevo tre, ma adesso me n’è rimasta soltanto una».

«E gli alti due che hai portato su prima di me hanno gradito?»

Anche adesso scherzavo, ma anche adesso credevo in quello che dicevo. Inoltre il portiere le aveva rivolto un paio di domande di troppo e questo poteva voler dire un paio di cose: o c’era confidenza con Aurelia, nel senso che era stata lei a dargli modo di osare tanto, oppure quello lì non sapeva fare il suo lavoro. Sperai sinceramente nella seconda opzione. Non riuscivo a credere che in due giorni una suora fosse diventata una femme fatale, né che in due giorni si fosse portata in camera altri due increduli pagliacci come me.

L’ascensore era stretto, potevo vedere il colore della sua biancheria, ma la guardai negli occhi e le sorrisi imbarazzato, non mi sentivo così dai tempi dell’università a Nizza, alle mie prime esperienze con le ragazze. Lei se ne accorse, ma non mi guardò per non farmelo capire, chiuse gli occhi e si lasciò baciare a lungo, ad ogni movimento della mia bocca diede un sussulto leggero e si lasciò accarezzare dalle mie labbra sul collo e sulle spalle. Arrivammo al terzo. Non mi chiesi per quale ragione la camera 99 fosse finita al terzo piano, non me ne importava nulla. Per terra c’era una moquette blu con fantasie persiane, sudicia, le pareti mi ricordarono la desolazione di un parcheggio sotterraneo al quale puoi accedere da diversi piani e noi eravamo al terzo. Sotto il soffitto si susseguivano specchi stretti e sporchi, vi si riflesse la scollatura di Aurelia. Si sentivano suoni incerti e musica ad alto volume venire dalle camere alla destra e alla sinistra. In fondo al corridoio c’era la sua camera. Non le chiesi perché era finita lì, per quanto tempo aveva intenzione di restarci e soprattutto perché mi ci aveva portato. Nonostante le mie esperienze passate con le ragazze, ogni volta che era una di loro a prendere il controllo, io mi sentivo di nuovo un ragazzino ingenuo e non sapevo cosa chiedermi per capire me stesso e loro.

«Non ho un apribottiglie, devi andare giù e chiederne uno al portiere. Fatti dare anche due bicchieri».

La lasciai sulla soglia della porta, non sembrò neanche ascoltarmi. Sorrisi mentre ubbidivo e tornavo indietro, mi guardai allo specchio appena entrato in ascensore. Che cosa stavo per fare? Che cosa volevo io da quella ragazza? Non era come tutte le altre, ma allora com’ero io? Diverso da prima? Se ero in quell’albergo con Aurelia e avevo lasciato Jacqueline con un bambino di dieci anni per farlo, voleva dire che ero davvero cambiato? E Aurelia lo sapeva, lo aveva scoperto anche prima di me. Allo specchio non riuscivo a guardarmi negli occhi, era come vedere senza guardare, la discesa durò molto di più che la salita. Quando arrivai di nuovo nella hall, mi sentii osservato. Mi chiesi se Aurelia fosse arrivata, vestita da suora, e poi fosse scesa dalla 99 con quel bel vestitino bianco. Ed io cosa sarei stato agli occhi di quel portiere e degli altri clienti? Una specie di sacerdote peccaminoso che si chiudeva in camera con le sue pupille? Un depravato che approfittava di una ragazza di dieci anni più piccola di lui? Oppure un povero cretino caduto nella rete dell’ennesima pescatrice di uomini di San Juan?

Il portiere, per i movimenti e lo sguardo di sbieco, pareva il gobbo di Notre-Dame, ma senza la gobba. Rideva come il padrone di una casa stregata nella quale potevi entrare e non uscire più, rideva e annuiva forse perché voleva sapere i dettagli di quello che succedeva lassù.

«Non l’abbiamo ancora fatto, se è questo che mi vuole chiedere».

Mi fece gli auguri allora per una prospera nottata e mi diede il tire-bouchon. Lo teneva sotto il bancone, come se fosse una richiesta frequente. O come se il tire-bouchon fosse rimasto lì dopo che aveva aperto le altre due bottiglie di Aurelia. Gli chiesi anche dei bicchieri e lui uscì oscillando dalla sua postazione e mi fece cenno di seguirlo. La giacca gli arrivava quasi alle ginocchia, aperta, con il bordo dorato alle maniche. Era caduto da un’altra epoca, dal passato forse. Ma il passato di chi? Il mio?

«Da dove viene?» gli chiesi mentre salivamo le scale tappezzate di rosso. Al primo piano c’era sicuramente la sala colazioni dove prendere i bicchieri.

«Vengo da Parigi. Può parlare in francese, non si preoccupi».

«E perché da Parigi è venuto fino a San Juan?» gli chiesi senza rendermi conto che non ero la persona più adatta a fare quella domanda, io che ci avevo passato due o tre anni laggiù. Il tizio mi rispose che non era esattamente quello il suo lavoro.

«Faccio un po’ di tutto,» disse, «per adesso sono finito qua. Aspetti un attimo».

Ci fermammo in una specie di lavanderia, proprio accanto alla sala, c’erano i cesti con le lenzuola sporche, due frigoriferi, uno più grande e uno più piccolo, e una montagna di fili dappertutto.

«Ecco a lei! Che c’è?» mi chiese. «Oh, forse è meglio che gliene dia due?»

«Sì, è meglio».

Rientrò nella stanzetta senza luce e ne uscì con un altro bicchiere da cucina impolverato, ma meglio che niente. Un brindisi non voleva necessariamente significare che avremmo dovuto bere lì dentro.

«Posso riprendere l’ascensore da qui?» Non mi ero reso conto che eravamo proprio sopra la reception. La forma a spirale delle scalinate mi aveva disorientato. Il tizio aveva salito gli scalini di tre in tre e avevo fatto fatica a stargli dietro con quegli scarponi.

«Certo, schiacci il bottone verde. Schiacci sempre quello verde. E non si dimentichi che la 99 è una brava ragazza, non è una di quelle…»

Rimasi shoccato da quello che mi stava dicendo. Dapprima mi irrigidii, stavo per tirargli un pugno in bocca, come se l’avesse offesa. Poi capii che intendeva fare il contrario, ma non il perché lo stesse facendo. Lo fissai, ridacchiava alienato e saggio.

Ripresi l’ascensore mentre il vecchio guardiano notturno mi guardava dalle mie spalle, sentivo il suo sguardo e i suoi pensieri strani pesarmi addosso, volevo scrollarmeli come la polvere che c’era sui bicchieri e non ci riuscii. Mi salvò il din e la porticina che si aprì come un sipario. Attraverso il vetro stretto, prima che apparisse un muro ammuffito davanti alla porta dell’ascensore, vidi quell’uomo chinato a far finta di sistemare delle riviste che già avevo visto allineate alla perfezione. Mi restava un grosso dubbio sul perché si incontrasse certa gente in certi momenti della nostra esistenza, poi mi convinsi che stavo facendo troppe domande a quelle mura da quando ero entrato. Le mura erano bianche, molto sporche, come quelle che ci sono all’esterno dei palazzi. Il corridoio blu apparve davanti a me. Davanti ad ogni porta, sotto delle lucette fioche, pareva quasi viola. Superai una rampa di scale elegante quanto disastrata, dipinta di bianco, coi pomi blu oltremare, in basso si stagliava una finestra gialla, coi bordi rossi. I colori sul vetro mi misero di buon umore, forse per qualche ora non avrei pensato a tutta quella storia. Arrivato davanti alla 99, capii che non era affatto quella storia che mi stava preoccupando tanto.

Appena entrai nella camera di Aurelia, sentii quell’inconfondibile odore dell’insetticida che usavano laggiù, misto al vino bianco e a frutta fresca. Le scarpe fecero un rumore sordo affondando nella moquette rossa, un piccolo corridoio portava al letto, era molto grande il letto, con una spalliera di legno nero e un quadro dai colori caldi che dava l’idea di un posticino invitante. Lei aveva tolto le scarpe e giocava con le dita dei piedi nei folti peli del tappeto mentre scriveva qualcosa e fissava la cornetta del telefono che stava alzata ed emetteva un suono dolce e ovattato. Le porsi un bicchiere ed io mi presi il mio, il vino era secco e freddo, odorava di medicina. Mi guardavo in giro perché non mi ero ancora abituato a quella sua nuova immagine, potevo vedere la forma del suo corpicino esile sotto la stoffa del vestito leggero, era magra, più magra di quando stava al convento, eppure era passato soltanto un giorno da quando l’avevo vista l’ultima volta con quella goffa tunica marrone e bianca. Il quadro appeso sulla spalliera del letto raffigurava una donna nera abbracciata a se stessa, aveva un grande capello e un velo trasparente, una gamba ripiegata verso il volto e l’altra no, non si vedeva la faccia e ti faceva pensare che non l’avesse, era seduta su una sorta di passerella sulla sabbia, i listelli di legno venivano verso di me e mi si piantavano in petto. Per me era come vedere Aurelia vestita di bianco e con i capelli sciolti, un corpo nuovo e un viso sconosciuto. Chi era quella ragazza seduta davanti a me? Qual era il suo vero volto? E perché io non facevo altro che guardarmi in giro?

L’alta finestra era aperta, un venticello fastidioso muoveva le tende trasparenti che si riflettevano in uno specchio alla mia destra, accanto a una porta che doveva essere quella del bagno. Guardai dentro, c’era una parete blu con dei fiori di loto dipinti al centro. Poi riportai gli occhi su di lei e li spalancai perché, a meno che non mi stessero giocando un brutto scherzo, Aurelia stava parlando in russo! Ero sorpreso e affascinato da tanta imprevedibilità, non credevo che Aurelia fosse di origini russe. Ma allora che ci faceva in un convento sperduto tra le colline di San Juan?

Con un dito si scusò e mi fece capire che avrebbe finito subito e che era importante altrimenti non mi avrebbe lasciato lì, in mezzo alla stanza, con il mio bicchiere di medicina in mano. Tutto con un dito. Io ero talmente sconvolto per tutto quello che in un solo giorno avevo scoperto, che questa del russo poteva anche essere la sorpresa meno importante, invece fu quella che mi lasciò più di sasso. Continuai a fissarla e continuai a fissare quella scollatura perfetta dalla quale veniva fuori un reggiseno di pizzo rosso, e due seni bianchi e rotondi. La sua pelle era liscia, ricordavo il sapore e la consistenza, come un buon piatto che hai mangiato e ti riviene in bocca ogni volta che lo vedi in qualche ristorante, fino a quando non ce l’hai di nuovo sulla lingua. Erano le sei di sera, ma fuori era già buio, così accesi una lampada che trovai lì sulla grossa scrivania nera di legno economico. Sotto la luce apparvero una serie di bracciali e anelli, una boccetta di profumo francese e creme di bellezza, molte creme, di diverse marche e per mille usi differenti. Mi chiesi se avesse scelto quella stanza di proposito, per la scrivania, e poi mi ci avesse portato per farmi tornare in mente la nostra avventura su al convento. Accanto al profumo c’era anche una pietra che forse veniva dalla spiaggia.

Da un lato del letto c’erano le sue scarpe, dall’altro lato, quello di fronte alla finestra, ci misi le mie. I piedi erano gonfi, non erano certo il modello più comodo, ma non avevo trovato di meglio. Quando lei le vide fece una smorfia e rise senza farsi sentire dall’altro lato della cornetta. Vedevo un collo sottile inarcarsi per ridere, una chioma rossa che splendeva come un crepuscolo all’interno di una stanza d’albergo, più rossa della moquette e più rossa di quel timido sole là fuori che accennava a stento a ostentare la sua luce, a quell’ora vinceva Aurelia. Guardavo il suo corpo che dava forma alla sedia e non ne prendeva la forma, i suoi piedi inarcati, le sue gambe tese e affusolate, il cuore mi batteva forte come la prima volta che vedi una donna nuda e non sai da dove incominciare. Ero d’un tratto ritornato adolescente, ma non avevo il telecomando per riavvolgere il nastro e riguardare quella scena tutte le volte che volevo, mi limitai a registrarla negli occhi e nella testa, ogni dettaglio mi entrò dentro come una freccia e in pochi minuti capii che quella non sarebbe stata una notte normale, come tutte le altre.

Si sentivano delle voci salire e scendere lungo il grosso corridoio che avevamo percorso per arrivare alla sua camera, al terzo piano di quel vecchio palazzo restaurato grazie a quei progetti della Generalitat dei quali mi aveva parlato il dottor Fontaine alla stazione. All’ingresso non mi avevano chiesto chi fossi e perché salissi su con una cliente, la cosa mi aveva infastidito perché voleva dire che erano abituati e che forse non ero stato il primo. Ma poi pensai che se due giorni prima aveva di sicuro dormito al convento, in due giorni non aveva potuto portare in una camera d’albergo chissà quanti altri uomini. Soltanto che le bottiglie di vino erano tre e due erano già vuote, quindi, a meno che Aurelia non si fosse data all’alcol, era proprio vero che io ero il terzo in due giorni. No, era impossibile, l’avevo vista il giorno prima al convento. Preferii non pensarci e mandai giù l’ultimo sorso prima di lasciare il bicchiere sul pavimento e buttarmi giù sul letto. Fu in quel momento che mi accorsi di un grosso televisore appeso in alto, sulla parete di fronte al letto, era nero e mi mise paura. Mentre fissavo il soffitto cercai di non pensarci, ma un televisore così grosso non poteva che farmi venire in mente il mio film e quello che ne sarebbe stato l’indomani. Era quella la ragione del mio stato, era la paura di quello che sarebbe successo martedì 1 ottobre del 1996? O quello che la sera prima accadde in quella camera d’albergo, sotto l’edificio del P.R.O.P?

Aurelia mise giù sulla scrivania la cornetta ed attivò il viva-voce, prese una sigaretta sottile da un astuccio argentato, la strinse con i denti mentre cercava dei fiammiferi nella borsetta che si era portata dietro. Quando eravamo in convento non aveva una borsa, non ne aveva bisogno oppure non ne aveva ancora scoperto l’uso. L’aprì e vi rovistò dentro, quando accese il fiammifero lo strusciò verso il basso, pareva che fosse un’esperta con quella sigaretta in mezzo ai denti, poi si mise davanti alla finestra aperta con il telefono in una mano e la sigaretta nell’altra. Erano due oggetti che non avevo neanche immaginato nelle sue mani fino al giorno prima. Rideva con la testa all’indietro, le sue risate facevano eco nel cortile retrostante l’albergo. Vecchi palazzi distrutti dal tempo e dal vento rimandavano indietro la sua voce  ovattata come la moquette, il cielo grigio di San Juan non osava rispondere al suo richiamo, l’urlo di quella lupa selvaggia affacciata alla finestra saliva nell’aria e non trovava ostacoli, poteva essere ascoltato da tutti. Le labbra fecero un rumore leggerissimo, diedero un bacio all’aria bruciata della sera spagnola, le nuvolette di fumo trasparente si allontanarono indisturbate su per la finestra, era lì di fronte a me con una sigaretta sottile tra i denti e un telefono che le parlava in russo.

D’un tratto, mentre ero preso dai miei pensieri e dagli intrecci che il mio ultimo capitolo avrebbe preso, mi si avvicinò con la leggerezza di un gatto in piena notte e mi baciò la parte di pelle che era rimasta scoperta quando avevo tirato su le mani. Io ero lì disteso e sentii il calore della lingua di qualcuno sulla pelle infreddolita per il vento che entrava dalla finestra. Mi diede tre baci e tornò di corsa all’apparecchio, “Da, da, Ya zdes”.

Da, da, Ya zdes? Ma come è possibile che non ci avevo capito niente?

Era possibile per il semplice fatto che era una donna, anche se io l’avevo conosciuta sotto altre vesti, c’era da aspettarsi di tutto.

Le pareti parevano rosa, forse perché non c’era molta luce, soltanto la lampada sulla grossa tavola e due abat-jour ai lati del letto. Uno era acceso, l’altro no. Il soffitto era bianco, contai i quadrati che si intrecciavano con i triangoli e mi ipnotizzai perché cercavo i dettagli di quella giornata perfetta. Avevo passato mesi su una nave a lavorare come un matto e adesso che ero tornato a San Juan mi ritrovavo davanti alla persona più enigmatica che avessi mai conosciuto. Non la guardai mentre ci pensavo, continuai a fissare il soffitto. Mi sarebbe piaciuto chiudere gli occhi e recuperare la stanchezza e il sonno, ma se lo avessi fatto non avrei trovato quello che trovai in quella camera, alla vigilia della presentazione del mio film alla Città della Luce .

Il letto di Aurelia era enorme, sentivo il dolore ai piedi che lentamente scivolava via e la stanchezza che affondava gradualmente nel caldo copriletto blu, di lana.

«Quali altre sorprese hai in serbo per me?»

«Non ti ho mai raccontato che i miei genitori mi hanno adottata quando avevo dieci anni?» Pareva incredula, aveva un’aria da attrice che non le si addiceva.

«Non mi hai raccontato mai niente, Aurelia».

«Beh, adesso te l’ho raccontato. Allora, a cosa brindiamo?»

«Alla Perestrojka?»

«Brindiamo al nostro incontro, sono felice di averti ritrovato, sapevo che il cartello avrebbe funzionato…»

«Un’idea discreta, rischiava quasi di passare inosservato se non mi ci fossi ritrovato sotto».

Mi piaceva come rideva la giovane Aurelia, mi faceva sentire importante. Bevemmo un sorso, io pensavo a come mi aveva tenuto la mano mentre raggiungevamo l’albergo. E lei, beh non so a cosa pensava lei. Avevo guardato quell’albergo a lungo mentre parlavo con Jacqueline, poche ore prima, ma adesso mi appariva completamente diverso, strano, come il vecchio guardiano, saltato fuori da altri tempi o per altri tempi.

«Aurelia…».

«Dimmi Jean!»

«Perché eri lassù, vestita da suora? Mi sono fatto tanti scrupoli a fare l’amore con te…»

«Sei dolce, Jean. Nessuno usa più quell’espressione. Sei dolce come la tosse di un bambino piccolo». Adesso avevo l’impressione che fossi io ad essere venuto fuori da un’altra epoca. «Sei un gentiluomo, sei l’incarnazione di quello che mi stavano insegnando le suore al convento. Era questo il loro compito, mostrarmi la mia via, perché secondo mia madre stavo rischiando di perderla. Ecco cosa ci facevo al convento. Nessun mistero. Beh, a parte il fatto che non ho avuto il tempo di raccontarti delle mie origini… Neanche tu mi avevi raccontato di essere sposato!»

Era vero, tanti misteri erano soltanto nella mia testa, in quei tre giorni tutto rischiava di apparirmi un mistero. Invece tutto era estremamente semplice e logico. Anche il dottor Fontaine la pensava come Aurelia, anzi mi sembrava che fosse stato lui a spingermi tra le sue braccia, con quelle sue domande strane sulle donne.

Mi aveva stretto la mano per tutto il tragitto, non l’aveva lasciata fino alla porta girevole dell’ingresso. Fissavo le pareti rosa, erano grandi, vaste come un tramonto africano. Il quadro con la donna nera palpitava al centro, canne di bambù e vasi bianchi si spargevano a perdita d’occhio sulla spiaggia, il grosso cappello trasparente continuava a coprirle gli occhi. Aurelia mi si avvicinò, continuava a stringere il suo bicchiere da cucina impolverato, mi guardò negli occhi e si lasciò baciare. Il suo collo parlava, le sue guance calde parlavano e mi dicevano di continuare, sentivo i suoi brividi e i suoi tormenti mentre le accarezzavo la schiena. Anch’io la fissai a lungo negli occhi, erano azzurri e innocenti, pregavano di essere capiti ed io non so se li capii o se furono loro a capire me.

«Ti ricordi quando mi hai raccontato la storia del cigno rivelatore?»

«Certo,» le risposi, «eravamo sul mio terrazzino, su al convento. Tu giocavi con il rosario e te lo arrotolavi attorno alle dita mentre ascoltavi le mie storie. E io stavo provando a camminare con i lacci delle due scarpe attaccati fra loro».

«È stato allora che ho capito».

«Capito cosa?» Con una mano le stavo stringendo un fianco, sentivo che si lasciava maneggiare come una bambola. Con l’altra mano sentivo quanto erano morbidi i suoi lunghi riccioli rossi, li afferravo e li stringevo delicatamente sotto la nuca. Le piaceva.

«Tu eri la persona della quale mi parlavano le suore, lo spirito santo che mi avrebbe portato via. Loro lo sapevano che sarebbe successo prima o poi, era il loro dovere in un certo senso».

«Io uno spirito buono? No, no, no. Sei sulla cattiva strada suor Aurelia!»

«Non mi chiamare più così! Non sono mai stata una suora…»

Le mutandine rosse di raso che si arrotolarono sotto le mie dita me ne diedero più o meno la conferma. Con un po’ più di affanno, sospirando e socchiudendo gli occhi, continuò: «Tu parlavi con gli animali, Jean. Proprio come San Francesco d’Assisi».

«Già, un giorno faranno santo anche me».

La pelle di Aurelia era morbida e sottile, una vita stretta che potevo afferrare con una mano, la pelle d’oca sotto le mie carezze. Dietro di noi c’era quel letto enorme che presagiva ore di piacere e di scoperta, mi sentivo ancora come se io fossi uno scrittore sfortunato apparso al convento in circostanze inusuali e lei una giovane novizia alla ricerca della sua via. Probabilmente mi sarei sentito sempre così al suo cospetto.

Ci lasciammo cadere sul copriletto blu che ribolliva sotto i nostri respiri sempre più forti, sentivo quella passione incontrollabile, quella che non ti lascia organizzare i pensieri e le azioni nello stesso tempo e che ti domina dall’inizio alla fine, come una ipnosi involontaria.  Le baciavo il collo e la bocca mentre i ricci finivano sotto le mie mani e la testa si piegava per il piacere. Trovai per la prima volta un pregio in quei pantaloni bianchi dell’ex manicomio che portavo addosso dal giorno prima, erano sottili, talmente sottili che Aurelia riusciva a sentire su di sé gli effetti della mia eccitazione, ci stringevamo con avidità, ci baciavamo e ci muovevamo sempre più velocemente. Il suo sapore era cambiato, era più selvaggio, più vero, sapeva di libri antichi, con pagine bruciate dalla sabbia calda. L’odore della sua pelle era dolce, era come mangiare una torta senza le posate, a morsi sempre più grandi.

«Tu sei pericolosa Aurelia» le sospiravo all’orecchio. Ero talmente stravolto che non mi resi conto di averglielo detto in francese. A meno che non iniziasse anche a parlare in francese non poteva avermi capito, invece mi sussurrò: «J’ai compris… Ho capito…»

Come un profugo appena ripescato dalle acque ghiacciate dell’antartico, mi sfilai i vestiti e mi ritrovai con la faccia immersa nei peli blu del copriletto, Aurelia mi stava baciando di nuovo la pancia, sentivo i suoi seni leggeri sfiorarmi una coscia, la guardavo mentre tirava fuori la lingua con una maestria che non poteva aver imparato in un giorno. Non poteva essere che il giorno prima fosse una suora e adesso una maestra di piacere in carne ed ossa. Dopo un istante smisi di pensare a tante cose e mi godetti i suoi baci. Un brivido mi percorse le orecchie, la stanza mi sembrava ancora più grande vista da quella posizione.  Le presi i capelli con tutte e due le mani e le sollevai la testa, aveva le labbra rosse e bagnate, gonfie, mi guardava con una lussuria che avrebbe fatto invidia alla più abile commessa di Rue de France, la strinsi più forte, la presi con un braccio e la portai a fianco a me. Mentre sentiva la mia mano sotto la schiena, si inarcava come un gambero vivo sulla brace. Mugolava libera perché non era più una suora? O perché stava facendo l’amore con uno che parlava con gli animali?

«Jean, non ti fermare, non ti fermare mai! Io sono tua Jean, ti appartengo dal primo momento che mi hai toccata…» Le sue parole si insediavano sottili e silenziose nelle mie tempie, mi sussurrava tutto quello che pensava, sapeva che mi eccitava da morire, lo sentiva, ad ogni parola lo sentiva sempre di più.

Fare l’amore con Aurelia, quel pomeriggio, fu in assoluto la maniera più sconvolgente di dimenticare le ragioni per le quali ero ritornato a San Juan e mi fece capire ancora una volta che era inutile ripromettersi qualsiasi cosa. Mi sentii esattamente come quella sera sotto la Sagrada Familia. Mi ritornarono in mente i suoi passi, quando veniva nella mia camera lassù al convento, e abbracciai più forte la sua testa tirandola contro il mio petto. In una mano stringevo le sue mutandine rosse. Le avevo ancora in mano e non me ne ero neanche accorto.


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