Mi pare intanto si possa evidenziare subito, nella scrittura, l’incantato nitore, il “calcinato” spessore degli elementi che costituiscono il libro: un diario in cui la trama sembra voler contestualizzare motivi umanissimi e civili prima o accanto al colloquio serrato che l’autore imbastisce prima con sé stesso, attraverso la raffigurazione di una realtà interna-esterna che sfocia nell’assunto: “Vi sono anime fatte per domandare…”. E la domanda è “perché”, perché la coscienza si ribella, perché la natura, perché il contesto sociale opera distinzioni, perché la religione cattolica, perché la storia, perché l’antropologia, perché “è toccato a me?” e la serie di domande potrebbe continuare.
Quella di Roberto è sicuramente una battaglia di principi, la disamina di un archetipo primordiale dove lo scontro tra l’essere “omo” e l’apparire “etero” trova il suo climax più rovente nella dualità io-la mia coscienza e il muro della diversità operata dal contesto sociale in ogni aspetto. Fino allo scarto di una dimensione che, intravista sulle prime (cioè nella fase degli anni tardo adolescenziali) potrebbe indurre a fingere la vita, per poi esplodere nella presa diretta: “perché vivermi accanto?” come fossi un altro, come fosse possibile, ogni giorno, ogni notte, nei sogni, sempre, darsi una lavata di faccia e resettare la propria psicologia, l’intensità del proprio essere e del proprio amare come se fosse possibile espellere la centralina del proprio io costitutivo e sostituirla con quella “omologante” della cosiddetta “normalità”, (ma poi cos’è la normalità?) Secondo natura, gay è normale; quando poi è vissuto consapevolmente, con annessi e connessi di educata civiltà e con amore, è soddisfacente per chi lo vive.
“Di che reggimento siete/fratelli? // Parola tremante nella notte// Foglia appena nata// Nell’aria spasimante / involontaria rivolta/dell’uomo presente alla sua/ fragilità// Fratelli”
I versi di “Fratelli” (Mariano, 15 luglio 1916) di Ungaretti esplosi a picco nella memoria sono diventati improvvisamente per chi scrive questa nota il paradigma metaforico pensando alla dichiarazione di omosessualità non come categoria appartata ma rientrante in un più comprensivo quadro di esperienze di cui fanno parte, e Maggiani lo esprime con disarmante lucidità, conoscenza morale, storica, culturale e tecnica, adoperate nel senso di una globale traduzione del dato di fatto in dato di essere e di esistere: questa traduzione vuole rimanere fedele al vitale processo di interrelazione fra le persone, in primis, e fra gli aspetti della realtà senza rinunciare a requisiti come la comunicazione e l’oggettività, pur rimanendo il contesto “un campo di battaglia”.
Carissimo Roberto, la trincea di Mariano del 1916 è ancora quella che individua nell’opposto schieramento dei “nemici”, e, fuor di metafora, ancora troppi, dappertutto, guardano gli omosessuali come “malati” se non appestati, untori. L’accettazione dell’omosessualità va definita, e mi trovi consenziente, nel suo aspetto “morale” e anche civile e religioso, con una programmatica illustrazione naturale del nostro tempo, come evento in sé sussistente, modo di essere e di esistere che non si interessa dei fatti come fossero compartimenti stagni ma da intendere come essenziale “dasein”, interpretato vitalmente quale altro affacciarsi allo sguardo nativo del mondo.
Prendo atto di questo abbandono appassionato alla propria sincerità (a pag. 100 sconfini in un grido di opposizione totale) e di assoluto nella seduzione dell’antico e nuovo “fantasma” della bellezza e dell’amore, scoperto e disarmante al limite di resistenza, nella sua straordinaria materia di essenza corporale, di flora accesa e delicato e perentorio altruismo. Non ultimo il messaggio finale alle tribù di giovani che si sentono e scoprono su quella sponda e dovranno vedersela con sé stessi, con la propria accettazione, con l’altrui comprensione, coi propri stati d’animo ecc., ecc.
La personale coscienza e l’aspetto religioso: qui mi trovi convinto sul punto: io vivo secondo natura e secondo coscienza. C’è solo il rapporto con Cristo Signore che resta personale nella misura in cui vivere alla sua sequela (e qui non parlo di uomini di chiesa, ma si uomini di Dio) i n d i p e n d e n t e m e n t e dalla natura sessuale, presuppone l’adesione al programma del Vangelo che recita: “CHI VUOLE SEGUIRMI, RINNEGHI SÉ STESSO, PRENDA LA SUA CROCE E MI SEGUA”.
Non pensi che ciò è detto a tutti i cattolici a prescindere dall’orientamento sessuale? È l’immagine che mi resta più concreta pensando al risvolto religioso del tuo lavoro. Ma a dare sostegno al tuo libro ancora un riferimento offerto dalla Lettera di s. Paolo ai Romani, nel passo Rm 2,1-11: “Chiunque tu sia, o uomo che giudichi, non hai alcun motivo di scusa perché, mentre giudichi l’altro, condanni te stesso: tu che giudichi, infatti, fai le stesse azioni…” e mi pare si possa essere in linea col commento : “Dato che Dio usa misericordia a tutti gli uomini, senza distinzione alcuna, (quindi neanche di natura sessuale (nota del firmatario) non abbiamo diritto di giudicare l’operato di nessuno. Noi per primi abbiamo ricevuto misericordia da Dio, per comportamenti che probabilmente sono anche peggiori di quelli che biasimiamo negli altri. Dunque perché spesso ci ergiamo a giudici inflessibili? (…) “…c’è un solo Padre che ci ama così come siamo” (da 14 ottobre 2015, “Sulla tua parola, Messalino – Letture della Messa commentate per vivere la Parola di Dio”. A me pare che queste indicazioni possano dare man forte alle tesi di Maggiani, soprattutto nel campo che più duole: omosessualità e rapporto con Dio, fatte salve le dovute questioni di un riconoscimento tutto da imbastire e rendere operativo secondo intenzione dettate dallo stesso credo e dalla comune appartenenza alla Chiesa cattolica.
Va anche sottolineato e, nella maniera in cui Maggiani racconta o “si racconta”, la centralità del tema è ineccepibile: amare un’altra persona dello stesso sesso non è un evento intellettuale, ma tocca la necessità della propria condizione umana: “è l’anima a volerlo”. Prendere atto di questo assume la consistenza fisiologica insita nel genere umano, senza divenire discorso da audience, come è accaduto al frastuono attorno alla questione del “gender”, sul cui aspetto soffiano venti più di natura politica o pseudo-antropologica che brezze razionali. Essere gay non è un fenomeno, non è una scoperta di questa generazione, piuttosto è uno dei perni attorno a cui ha ruotato e ruota, storia alla mano, molta parte della cosiddetta “civiltà degli uomini”.
Mons. Krzysztof Charasmsa, officiale della Congregazione per la dottrina della fede e secondo segretario della Commissione Teologica Internazionale ha fatto coming out alla vigilia, meglio, il giorno stesso in cui si è aperto a Roma, qualche giorno fa, il Sinodo sulla Famiglia: non è semplicemente una imprudenza sul tempismo, una “pressione” indebita sullo svolgimento dell’assise cattolica: verrebbe da dire piuttosto “se non adesso, quando” spalancare la porta al tema dell’omosessualità nella Chiesa?
Eduardo Savarese, giurista napoletano, pubblica in questi giorni “Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma” Ed. e/o, e compie un salto nel mezzo del problema, magari non esibendo lo stesso piglio con cui certe proposizioni cominciano e non finiscono, ma il problema vero rimane, e rimane aperto come una ferita: la Chiesa ufficiale non considera i gay persone “affidabili”.
Dunque il romanzo di Roberto Maggiani è stato solo il primo, in ordine temporale, a scaldare i ruggiti contro l’omofobia; ce n’è abbastanza, credo non ci fermeremo qui, per alzare una barricata, per stipare di specchi le strade e costringere “il comune senso del pudore” della gente per bene, ma soprattutto degli uomini di Chiesa (e non di Dio) e di politici di destra o i leghisti, a specchiare la propria coscienza senza nascondere la testa nella sabbia o trincerarsi dietro l’andante “si fa ma non si dice” ovvero “vizio di natura fino a morte dura”.
Spero che questi appunti diano la stura a dibattere il tema e a rimpolpare di senso il problema dell’omosessualità: nel normale corso della vita vivere la diversità conduce alle stesse conclusioni di chi non lo è (cioè alla morte) e la vita si vive una volta sola. Non è ammissibile che questioni di pseudo-cultura o perbenismo o intolleranza arroccata nei corridoi del Vaticano, costringano esseri umani a sentirsi “un errore genetico” ab intra e ad extra del consorzio umano.
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La recensione di Franca Alaimo
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