Pubblicato il 08/09/2015 17:10:17
A Napoli, ad esempio nel ristorante giapponese “Da Zen 2”, si mangia un’ottima cucina giapponese con un buon rapporto qualità/prezzo. Partiamo però da un presupposto: Di “autentici” ristoranti giapponesi ce ne sono circa una cinquantina in tutta Italia. Se vogliamo è una ben strana combinazione che tanti NON giapponesi si siano “lanciati” in questo tipo di cucina, ma in particolare che la Cina abbia fatto proprie le tradizioni culinarie della sua grande rivale. Fanno parte della storia sia la prima guerra sino-giapponese (1º agosto 1894 - 17 aprile 1895), che la seconda guerra sino-giapponese (7 luglio 1937 - 2 settembre 1945), che rappresentò il più grande conflitto asiatico del XX secolo. Insomma: pare davvero strano che gli orientali, non giapponesi facciano propria una cultura che non gli appartiene. In realtà la diffusione è dovuta (verso la fine degli anni’70), principalmente a Roma, alla presenza delle ambasciate e dei consolati. L’iniziatore, Minoru Hirazawa, detto Shiro venne in Italia e fece entusiasmare gli italiani alla cultura gastronomica del suo Paese. Lavorò per il ristorante Tokyo e successivamente aprì il Poporoya a Milano. Ma torniamo a ricordare che la stragrande maggioranza dei ristoranti, attualmente, nella “migliore delle ipotesi” vi circonda di orientali. Piatti di origine cinese e apprezzati dai giapponesi ve ne sono, e se ne trovano da Zen 2, come gli Yakisoba, ossia spaghetti fatti di grano saraceno, saltati in padella insieme a carote, cipolle, foglie di cavolo. Conditi con alghe secche, zenzero, scagliette di tonnetto o carne di maiale e maionese, difatti è diventato un piatto tipico anche in Giappone. Degna di nota da Zen la formula All you can eat (che qualcuno mi suggerisce sarebbe stata ideata proprio in quel luogo), disponibile tutti i giorni. A pranzo dalle 12:30 fino alle 15:00 e a cena dalle 19:30 fino alle 00:00. La domenica a pranzo sono chiusi e aprono per cena alle 19:00. Da pareri di “buoni degustatori” apprendiamo che “l’uramachi fritto è superlativo” ed il cibo, specialmente con l’avvento del nuovo menù, porta a tavola: “Piccoli capolavori culinari, vere opere d’arte”. E tra le specialità gradite: ” salmone cotto, surimi avvolti da alga e tempura croccante”. Chiediamo all’esperto cliente abituale qualche altra delucidazione e attesta che “il sashimi è ottimo, Zen è forse l’unico all you can eat che consente ordini liberi di sashimi”. Consiglia inoltre: “zen uramaki, per chi gradisce il gusto piccante, oltre all’infinita varietà di uramaki, tenaki, maki, varie ricette a base di riso, spaghetti, salmone, tonno alla piastra, tempura…”- Assicura il cliente che anche i vini sono ottimi, ma occorre pagarli a parte. Per queste “passeggiate giapponesi”, quale cliente oltre i quaranta e quindi merce rara, mi sto informando: non mi piace il wasabi, che viene costantemente servito, ossia una radice giapponese piccante di colore verde. Forse il “nostro peperoncino”. In Giappone lo si grattugia direttamente davanti al cliente, per me no, grazie! In Italia giunge sui tavoli in pasta. Per il sushi andrebbe scelta la giusta varietà di riso, un po’ come capita da noi per il risotto o l’insalata di riso, e andrebbe cotto in modo particolare, ma anche condito con la mistura di aceto più adatta allo stile di sushi prescelto e opportunamente pressato, in quanto la consistenza deve essere realizzata in base al tipo di pesce a cui si accompagna. Questo “pressare il riso” non è da tutti e l’ho realizzato persino io che non mi dico un’esperta. Ovviamente conterebbe molto la scelta di specie ittiche, soprattutto pesce di stagione, messe a disposizione del cliente, ma il costo, in tal senso, sale. La “vera” cucina giapponese è inaspettatamente ricca di proteine vegetali, varia nelle ricette con pesce e carne cotte (le fritture, spesso di pollo, sono più tipiche dei cinesi e, in verità, molto buone), ma anche di carboidrati e dolci. Di solito nei ristoranti imperversano gli onigiri, piatto unico da consumare preferibilmente caldo, per la cui realizzazione si possono utilizzare differenti ripieni (umeboshi, salmone o verdure) o anche semplici in sostituzione del pane. Gli hosomaki, piatto semplice, ossia piccoli bocconcini preparati con un rivestimento esterno di alga nori, farcito con riso e con un solo altro ingrediente, quale pesce crudo, pesce cotto, verdura od altro. Personalmente li trovo ottimi. Inoltre uramaki, futomaki e tempura (verdure o pesce impanate con una pastella leggera e fritte). Personalmente amo il Tōfu (豆腐), una specie di formaggio fritto usato dai vegani. Tornando alle “differenze” tra il vero ristorante giapponese e quelli che hanno una gestione cinese, occorre dire che alcuni ingredienti delle due cucine sono simili, ma non uguali. La salsa di soia, che non può mancare a tavola, pur sembrando la stessa, come accade in Italia per il vino per noi, può non essere la migliore. Essendo differenti sia l’acquisto che la conservazione e la lavorazione del cibo, tra cinesi e giapponesi, le differenze ci sono. Forse noi italiani non le realizziamo, ma per un Giapponese mangiare “giapponese” in Italia è un po’ come per noi mangiare la pizza o gli spaghetti in America. Figuriamoci cosa possiamo aspettarci in ristoranti dove di orientale (male interpretato), c’è solo la coreografia! Negli “All you can eat”, di regola la scelta è ristretta, riguardo ai tipi di pesce e vi si accostano molti altri piatti ricchi di riso o di pasta, di basso costo e tali da saziare il cliente. Qui torniamo alla frase della “nostra esperta” che ribadisce su Zen 2: “è forse l’unico all you can eat che consente ordini liberi di sashimi”. Bene. Ci guardiamo intorno: tutto decisamente orientale e sulle pareti splendidi lavori di Hokusai, vissuto in altro luogo ed altro tempo, laddove le sue geishe saltellanti sui piccoli piedi dalle scomode calzature erano contemporanee delle dame dagli abiti eleganti quanto ingombranti, che ne impedivano il passo. Attualizzato, quale mitico esempio di “vero giapponese”, incanta gli astanti come fece a suo tempo con molti impressionisti europei, quali Claude Monet e post-impressionisti come Vincent Van Gogh e il pittore francese Paul Gauguin. Ci sta bene essere decontestualizzati nel tempo e nel luogo e sentirci per qualche ora “altrove”. Bianca Fasano
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