Voglia di lavorare… saltami addosso
Un tempo si diceva: “Il lavoro nobilita l’uomo”, ancora oggi “
il lavoro è un diritto”, specifica la Costituzione italiana; sono
state scritte encicliche papali sull’argomento, tutte le indagini
socio-economiche non prescindono da questo diritto, che poi
improvvisamente si trasforma in dovere... Stesa sul mio caldo
letto ancora profumato di notte tiro le somme e mi dico, se
lavorare è un diritto quand’anche un dovere che competereb-
be a ogni onesto cittadino, perché tanti onesti giovani, persino
titolati, non possono in nessun modo sbarcare il lunario?
Ci sono troppi vecchi al potere?
Io, ormai varcata la soglia della mezz’età, a quale categoria
appartengo? Dei giovani no, un lavoro bene o male ce l’ho,
dei vecchi nemmeno, giacché non ho uno straccio di potere…
Allora non potrei entrare proprio nella discussione!
Piuttosto, mi dovrei alzare e andare al lavoro come la respon-
sabilità di ogni onesto cittadino vorrebbe… Ma le lenzuola
con una dolce carezza mi trattengono e mi dicono “ rimanda
il momento della levata”, la vita è breve, e soprattutto, la gio-
vinezza è fugace…Tra non molto l’artrite reumatoide incline-
rà il mio dorso, la presa delle mie mani si allenterà, il mio
sguardo profondo si inabisserà del tutto, nascosto da pendule
palpebre, che trasformeranno i miei occhi in capocchie di
spillo nell’inane tentativo di mettere a fuoco un’immagine…
Oltretutto la brevità dello sguardo limitato dalla galoppan-
te perdita della vista non verrà compendiata dalla forza
dell’immaginazione, che sarà ogni giorno meno brillante,
a causa del depauperamento delle cellule neuroniche del
mio encefalo…
Si dovrebbe dire cervello, ma il termine encefalo accresce
il senso di gravità della condizione patologica!
Diciamo che trattandosi di un cervello da cinquantenne,
più che di una condizione patologica si tratterà del natu-
rale decorso di degenerazione dei gangli responsabili del-
la vitalità di un individuo, ma, degenerazione naturale o
perdita di vitalità che sia, il pensiero che mi aspetti un do-
mani poco energico dal punto di vista fisico e mentale, o
psichico che si voglia dire, mi deprime, e non ho la forza
di alzarmi…Sarà l’istinto di conservazione delle energie
vitali a trattenermi? Oppure il pensiero che per quanti
sforzi compia ogni giorno che passa si dirada il numero
degli ascoltatori attenti alle mie lezioni?
Ricordo un brano di Isaac Asimov, ambientato in un lontano
futuro ora divenuto presente prossimo, letto in classe, in cui la
protagonista scopre un libro abbandonato e sommerso di
ragnatele in soffitta. La ragazzina leggendolo scopre l’esistenza
di un’insegnante in carne ed ossa che comunica con i suoi alunni,
guardandoli nelle palle degli occhi e muovendo la bocca per
esprimere pensieri veri attraverso gesti tangibili. Bè…
considerando che la povera ragazzina doveva consegnare
i suoi compiti di italiano al computer addetto a svolgere la
mansione di insegnante, che avrebbe fornito certe ma pur
sempre meccaniche ed asettiche risposte senza alcun umano
giudizio ai suoi scritti, è comprensibile che immaginare di
avere un docente in carne ed ossa le sembrasse la migliore
delle aspettative possibili…
Il libro le forniva la possibilità di fantasticare intorno a una
figura di insegnante non necessariamente perfetta, ma…
sicuramente incline a sentimenti per lo più umani:
una persona con dei vestiti classici, con delle normali
scarpe ai piedi, un’acconciatura sobria, di altezza e
corporatura medie, che cercava di mantenersi calma ma
che qualche volta tradiva un certo nervosismo (sembravo
proprio io…). A conclusione del brano affermai che
immaginavo un futuro in cui le aule scolastiche sarebbero
svanite insieme alla pletora di docenti e alunni che le
popolano e che la scena sarebbe stata più o meno la
stessa descritta da Asimov: un computer, ovviamente
più o meno aggiornato a seconda delle possibilità
economiche di ciascuno, nella loro stanza attraverso
video di varie specie avrebbe spiegato loro fenomeni
ascrivibili alla cosiddetta sfera della conoscenza e il loro
grado di apprendimento sarebbe stato calcolato con un
punteggio finale strettamente matematico, molto poco
fisico, anzi del tutto mediatico…
Non potevo dire virtuale, perché è una parola filosofica
che esprime perfettamente la condizione di un pensiero
non ancora espresso o di un’azione non ancora avvenuta,
ma in potenza presumibilmente possibili e comunque
frutto di congetture e concetti ragionati, ossia costruiti
con un cervello fisico, non telematico… Ricordo che alla
fine della lezione i ragazzi in coro dissero: “ No, questo
non avverrà mai!”. Spiegai la loro reazione come il frut-
to della paura del domani, delle incertezze legate a un
futuro quantificabile ma imprevedibile, e ritenevo fosse
una reazione poco ardita da parte di giovani che andava-
no incontro al futuro e che non potevano troppo gingil-
larsi nelle loro certezze presenti, fatte di uno scontato
quotidiano…Tuttavia oggi, nella mollezza delle lenzuo-
la che or ora mi avvolgono, sono più propensa a giustifi-
care le paure di quei ragazzi…
Immaginare un futuro senza certezze, sentire i raggi del
sole sempre più cocenti sulla pelle, bagnarsi in un mare
sempre più immenso e sempre più povero di vita, annu-
sare un’aria sempre più aulente di esalazioni da discarica,
un cibo sempre più ricco di diossina, di paesaggi sempre
meno verdi e sempre più dipinti da colori artificiali…Bè,
non si può dire proprio una bella prospettiva e a me manca
sempre di più il coraggio di andare a scuola per fare l’inse-
gnante fisica, ma sempre meno vera, perché costretta a reci-
tare la parte di chi dipinge il futuro come una bella dimen-
sione, in cui sarà possibile per tutti la felicità…O quanto
meno lo star bene…
Io che divento l’espressione del male di vivere…
No, non me lo posso permettere!
Tuttavia mi piace naufragare in questo mare di lenzuola…
Antonietta Ursitti
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