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La stanza del professore

di Patrizia Gaudiello
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Pubblicato il 09/04/2012 17:26:19

Arrivavadal sud, quello che di solito viene chiamato profondo.

Al paese, quando non c'era scuola, faceva la contadina e aiutava ilpadre, ma adesso che stava al nord, molto al nord, Cosimina siarrangiava aspettando il colpo di fortuna e faceva la colf a ore, lastiratrice occasionale, ogni tanto la donna delle pulizie in qualcheristorante o studio medico.

Era sbarcata dal treno che faceva già freddo, ai primi giornid'autunno, e non era stato facile abituarsi. Il freddo vero non loconosceva.

La città però era bella: piazze che le sembravano enormi, chiesemagnifiche, palazzi d'epoca, giardini con tante statue, puliti ecurati. A sua cugina Agnese scrisse: “...quanta arte c'è qua.Io non la capisco troppo bene, però mi tiene compagnia. Mi fasentire contenta e perfino meno lontana da casa. Come mai secondo te?Giro molto a piedi, così mi godo meglio la città e imparo anche lestrade, che sono lunghe, larghe, l'una nell'altra, e ti ci puoi pureperdere...”

Infatti montava sul tram solo nei giorni di pioggia e quelli in cuinevicava in abbondanza, ma spesso succedeva che le passeggiate ladistraevano e la facevano rallentare suo malgrado perché eracuriosa; così faceva tardi, allora la rimproveravano e ci restava unpo' male.

Di una certa signora Beneduci lo seppe da una compaesana chelavorava come cameriera in un bar. La signora cercava un donna cheandasse a stirare un paio di pomeriggi alla settimana. Si presentò.

Il palazzo si trovava in pieno centro storico. Era bello e imponentecome ne aveva già visti, lastroni di pietra che sporgevano dallefacciate austere e ampi balconi dalle ringhiere fitte fitte dicolonnine in marmo rosa. Nell'androne, superata la portineria, siaffacciò in un vasto cortile quadrato e nel mezzo del cortile, fattadi più vasche in cui galleggiavano piccole tartarughe, vide unamagnifica fontana. All'interno della scala B una passatoia colorporpora smorzò fino all'ascensore il rumore dei suoi passi incerti eun poco legati, perché per presentarsi meglio alla signora avevamesso i tacchi ma non c'era abituata.

Le aprì un uomo sulla quarantina, l'espressione pensierosa, senzauna parola le fece cenno di seguirlo e la scortò in una specie distudio. “Aspetti qui, mia moglie arriva subito”.

Era una stanzetta stretta e affollata di mobili scuri e pretenziosi,con una finestra in fondo da cui, per una tenda pesante tirata inparte, la luce faticava a entrare. Scaffali gremiti e polverosi.Sotto la finestra, una scrivania con un computer e una montagna dicarte e oggetti vari. C'era puzza di fumo e di stantìo. Pensò alsole e alla luce del paese, rincorse il profumo delle arancenell'aria, le immagini di autunni dolci e inverni generosi che anchecerte mattine di gennaio o febbraio, verso mezzogiorno, ti devitogliere il giubbino per non sudare.

Si avvicinò alla finestra e riconobbe il cortile, elegante e serio.La stanza le metteva tristezza, sperò che la signora non ci mettessetroppo.

La signora era magra e bionda, piuttosto bella, e aveva un accentostraniero e duro, forse tedesco. Saltò i preamboli e venne presto aldunque: “Sarebbe disponibile il lunedì e il mercoledìpomeriggio?”

“Sì”

“Venga con me, per favore, vorrei fare una piccola prova”.

Attraversarono un corridoio infinito e altrettanto cupo, pressochéspoglio, sul quale si aprivano frontalmente diverse porte. Non erauna casa che metteva a proprio agio, se ne sentì intimidita erespinta. Da una delle camere, mentre ci passavano davanti, esploseroe la investirono le note di un pianoforte, che la fecero trasalire. Rallentò il passo senza volere, ma le pupille piccole, mobili ealgide di Frau Beneduci la rimisero in riga. Entrarono inuna grande cucina con una specie di anticamera dove c'era un tavoloda stiro aperto in un angolo. La signora prelevò da un cesto unacamicia da uomo: “Le dispiace lavarsi le mani? Scusi, sa, ma tengoparticolarmente al bucato”.


Andarci non le piaceva. Ma Frau pagava bene.

Non era tanto la casa a essere brutta quanto, appunto, l'atmosferache si respirava. Era come se nell'austerità di quei muri il temponon scorresse, come se la vita non riuscisse a trovarvi posto opeggio non volesse, e ogni cosa attorno, nella sua indiscutibileperfezione, sembrava congelata.

La padrona di casa compariva poco. Passava molto tempo rintanatanello studiolo e Cosimina la intravedeva solo ogni tanto, alta erigida nella sua bella figura che sembrava lì lì per spezzarsi,mentre entrava o usciva dalle varie stanze reggendo riviste efascicoli, gli occhialini tondi sulla punta del naso e quasi sempreimpegnata in concitate conversazioni telefoniche in altre lingue chedenunciavano irritazione e impazienza.

Suo marito non era assai diverso. Un paio di volte se lo videcapitare in cucina per chiedere del caffè a Lucia, la donna che sioccupava dell'andamento generale della casa, e fatta eccezione peruno stentato e mal riuscito abbozzo di sorriso in segno di saluto glilesse sulla faccia la stessa maschera impenetrabile di lei.

Uno di quei pomeriggi, andando al bagno, intercettò la signora incorridoio, di spalle, concentrata su una cartellina che non si aprivao non si chiudeva. Partì una nuova successione di accordi. Frau,sobbalzando, sollevò verso la porta chiusa un pugno minacciosobofonchiando qualcosa di sicuramente sgradevole nella sua lingua.Forse, pensò, era più nervosa e stressata del solito. Poi, quellostesso pugno, ricadde secco due volte sulla porta: “Bitte,signor Aristide, ho clienti di là!” e scomparve nello studio.Il pianoforte tacque di colpo, sul corridoio scese il silenzio comepiaceva alla padrona, che evidentemente non amava troppo la musica.

Tornò a stirare. In fondo alla grande cucina, nella zona cottura,Lucia puliva e sminuzzava ortaggi e verdure su un grosso tagliere,ogni tanto scoperchiava una pentola che stava sul fuoco e ciaffondava un mestolo. Teneva sempre la televisione accesa, a volumebasso, sintonizzata su un talk show del pomeriggio che dovevapiacerle molto, e spesso la sentiva ridacchiare o commentare ad altavoce. Durante la pubblicità posò il coltello e si pulì le mani. “Lo beve un po' di caffè, signorina Cosima? Venga, facciamo dueminuti di pausa...”.

La cordialità di Lucia la incoraggiò a domandare, ma lo fecesottovoce come per paura di essere ascoltata, chi altro abitava incasa. Mentre riempiva la macchinetta Lucia raccontò che si trattavadel professore, il padre ultra ottantenne dell'avvocato Beneduci. “Lo hanno preso in casa tre anni fa, quando è rimasto vedovo.Insegnava al Conservatorio, è stato anche direttore d'orchestra, esentisse come suona ancora adesso! Quando loro non ci sono, elui se ne accorge e sa di non dare fastidio, suona delle cosebellissime, signorina, quelle mani praticamente gli volano sui tasti.Se ho da fare in giro per casa lascio tutte le porte aperte, così loposso ascoltare”

“Non l'ho mai visto, è malato?”

“Proprio malato no, ma gli acciacchi, certo...lo vuole anche unbiscotto?”. Bevvero caffè e sgranocchiarono biscottini in piedi,come temessero di rilassarsi troppo e di essere scoperte. Stavanonell'angolo disegnato dal piano cottura e una finestra, una finestrapiccola con una tendina bianca ricamata, forse l'unico spazioaccogliente dell'intero appartamento. Su di loro, da un lampioncinoin ferro battuto e legno applicato a parete, calava una luce morbidae calda. La minestra di Lucia profumava intensamente di rosmarino, lericordò gli aromi di cui, specie la domenica, s'impregnava casa sua. “Non lo ha visto” Lucia spiegò, “perché non esce quasi maidi camera. Solo ogni tanto di mattina, quando viene un giovanottostraniero, dell'est mi pare, per portarlo un po' fuori. Poi, dopo unpaio d'ore, lo riaccompagna a casa e lui si rinchiude di nuovo làdentro, nel suo rifugio. Ogni giorno gli passo il vassoio col pranzoe la cena, non gli va di venir fuori neppure soltanto per sedersi atavola con il figlio e la nuora”

“E perché?” Lo chiese anche se la risposta, in fondo, laindovinava già.

“Non gli posso proprio dare torto, pover'uomo, vedesse come lotrattano. La nuora poi, non ne parliamo...del resto la conosce, no?Mai che gli facessero un po' di compagnia, mai due chiacchiere, osemplicemente che picchiassero alla porta per domandargli se stabene. Li ha visti, anche quando stanno a casa sono sempre cosìindaffarati, presi dalle loro cose, nervosi...e dove lo trovano lospazio e il tempo per i sentimenti? Glielo dico io, per loro ilprofessore è solo un peso, un ostacolo che gli impedisce di usarequella stanza in un altro modo. E' il destino di tanti vecchi,signorina mia!”. Ingoiò un ultimo pezzetto di biscotto, poi posòla mano sulla spalla di Cosimina e cercò il suo sguardo: “Miraccomando, se le tenga per sé queste confidenze, scusi se mipermetto...”.

Cosimina sentì una specie di sapore dolce, che non aveva a che farecoi biscotti. Riprovò la gioia delle molte sere di Natale quando alnonno paterno, confinato sulla sedia per una trombosi, veniva dato amaggior ragione il posto d'onore a tavola e tutti, figli, nuore,generi e nipoti, gli stavano intorno. I più piccoli lo divertivanocon la loro allegria, con le smorfiette e il lessico zoppicante;prendeva dalle loro mani, così come gli riusciva, un pezzo difocaccia all'origano appena uscita dal forno, una mandorla sgusciata, poi una fetta di dolce, ma non troppo grande perché non dovevaesagerare, e forse, se la trombosi non gli avesse portato via anchela parola, avrebbe voluto dirlo a voce che era contento, che sisentiva meno malato. Invece non poteva dirlo che con gli occhi,sbiaditi e già altrove, lontani, offuscati dalla malinconia,assediati da una rete ingarbugliata e fitta di rughe scavate daltempo e dalla malattia ma anche dal sole patito nei campi tutta lavita.

Quando la domenica mattina rientrava dalla messa e dalla passeggiatacon le amiche del cuore o con i compagni di scuola, di solito sisedeva accanto al nonno e gli leggeva le notizie più importanti dalquotidiano che gli aveva comprato, perchè da solo non ce la faceva. Gli era sempre piaciuto tenersi informato, evolversi per quantopoteva, e l'immagine che infatti le tornava più spesso di primadella trombosi era quella di lui seduto accanto alla finestra delsoggiorno con in mano un giornale, mentre intorno si spandeva l'odoredifficile di quel sigaro che non l'abbandonava mai e che a sua mammadava un po' di fastidio ma, per rispetto, non glielo faceva neanchesospettare. A quel tempo lui diceva: “Leggi, Cosimì, leggi sempremolto. Ti aiuta a capire il mondo e la vita...”. Era propriosicura: il nonno era morto contento perchè gli avevano voluto bene.

Lucia tornò alle verdure, Cosimina alle camicie dell'avvocato, equando più tardi, nell'andarsene, passò davanti alla stanza delprofessore provò un po' di pena.


Pasqua capitava tardi, la terza settimana di aprile.

Dalle parti sue, per quell'epoca, l'estate solitamente è giàbell'e scoppiata; qua invece la prima cosa che vedevano svegliandosilei e Rosa, la compagna con cui abitava due minuscole stanze in unquartiere vuoto e triste fuori dal centro e fuori dal mondo, forsedalla vita, erano vetri appannati. Non nevicava più, ma spessoancora pioveva oppure c'era vento forte. Di notte lo sentivanoinfierire sui tetti e contro i muri delle poche case della strada, male teneva sveglie soprattutto quella specie di lamento sinistro cheveniva dalle grosse lampade sospese ai pali, sui due lati oppostidella via.

All'amarezza di non poter scendere al paese per le feste se neaggiunse un'altra. In fondo lei il professore non lo aveva maiincontrato, non era che un misterioso personaggio senza volto e senzavoce di cui le era stato raccontato un piccolo pezzo di esistenza eche viveva rinchiuso e solo in una stanza di quella brutta casa,eppure venire a sapere che se n'era andato la notte fra il martedì eil mercoledì della settimana santa l'addolorò molto.

Per Pasqua Frau aspettava ospiti importanti dalla Germania.

Quando aveva capito che Cosimina non sarebbe scesa a trovare lafamiglia le aveva domandato se invece del mercoledì le andasse ditornare il venerdì, non per stirare ma per dare eccezionalmente unamano a Lucia in cucina. La morte del professore aveva stravolto ipiani, non ci sarebbero stati né ospiti, nè pranzi o festeggiamenti( non foss'altro che per una questione di buon gusto, sarebbestato poi il commento al veleno di Lucia ), ma nella confusione diquelle ore avevano scordato di avvertirla.

Il venerdì santo Cosimina scese di casa presto dopo un pranzoveloce e fece il tragitto a piedi, la sciarpa a frange lunghe strettaal collo e il berrettino ben calato sulle orecchie per paura diammalarsi. Non erano ancora le due del pomeriggio, ma c'eragià da farsi largo tra la gente; i negozi erano affollatissimi,soprattutto le pasticcerie, quelle storiche ed eleganti dei quartierialti che si facevano guardare e che rassomigliavano più a gioiellerie.

Entrò un momento solo in una piccola chiesa lungo il corso, neammirò l'interno, recitò velocemente una preghiera.

Del professore lo seppe dal biglietto affisso al portone della scalaB: per la morte del padre dell'avvocato Beneduci, professorAristide. Si fermò, aspettò un paio di minuti rattristata eimmobile fissando il biglietto, senza sapere che fare. Poi salì. Vedendola, Lucia si meravigliò e sbarrò gli occhi: “Signorina,non l'hanno avvisata! Mi dispiace, s'è presa tutto questo freddo equesto vento inutilmente...entri, le faccio un caffè o un tè bellocaldo, che preferisce?”. Cosimina tentennava sulla soglia, adisagio data la situazione, Lucia la incoraggiò: “No no, venga,non si preoccupi, siamo sole in casa”. Fecero il corridoio insilenzio fino alla cucina. Cosimina si rese conto che fatta eccezioneper l'assenza fisica del povero professore, di diverso non c'eraniente. Il passaggio della morte in quella casa non aveva aggiuntonulla alla desolazione, al senso di vuoto assoluto e come diesistenza paralizzata che le pareti le avevano respirato addosso pertutto quel tempo.

Lucia mise a scaldare l'acqua per un tè, intanto raccontò che ilprofessore s'era sentito male due notti prima e aveva gridato, poiera caduto e lo avevano trovato sul pavimento a faccia in giù. “Ionon ci sono potuta andare, ma il portiere mi ha detto che ierimattina al funerale c'era una vera e propria folla. Sicuramentesaranno venuti anche tanti dei suoi ex allievi. Beh, almeno loro glihanno voluto bene...”. A Cosimina spuntò un sorriso mesto ebreve, non commentò. Lucia versò il tè nella tazza e ci tuffò unafettina di limone. “Stamattina, prima di uscire, stavano discutendosu come sistemare la stanza; mi è sembrato di capire, pensi, che nevogliono fare una specie di piccola palestra. Hanno già presoaccordi per farla svuotare subito dopo Pasqua, poi ho sentito lasignora che diceva: “A me interessa solo il tavolino antico,per il resto vedi tu, sono cose tue...”, e allora l'avvocato harisposto che ci avrebbe dato un'occhiata veloce in serata. Ha capito,signorina? Un'occhiata veloce, così ha detto. Ha visto che avevoragione io?”. Il pensiero di Cosimina andò dritto al cassetto delsuo comodino e a una custodia di velluto blu con il tranciasigaridel nonno, che all'epoca della sua morte aveva tenuto per sé e s'erapoi portata dietro partendo dal paese.

“Giacchè è qua, le posso chiedere un favore?”, e mentre lodomandava Lucia si liberò in fretta del grembiule. Cosimina sorriseancora: “Certo”

“Ho promesso alla signora che sarei andata a farle unacommissione, potrebbe restare ancora un po' e nel caso aprire lei laporta? Mezz'ora fa doveva arrivare qualcuno a consegnare deidocumenti riservati per l'avvocato ma ancora non s'è visto, ledispiace? Guardi che non ci metto molto...”

“Vada, aspetto io”. Allora, di corsa, Lucia attraversò di nuovoil corridoio intanto che s'infilava cappotto e cappello. “Stiatranquilla,” gridò imboccando la porta, “le daranno quello chele devono anche se poverina è venuta a vuoto...”.

Sapere di ritrovarsi sola nella casa le portò ansia. Bevve tutto iltè, lavò la tazza e poi, incapace di star ferma e per tenersioccupata, finì il lavoro cominciato da Lucia pelando le ultimepatate rimaste sul ripiano e immergendole nella ciotola con l'acquaassieme alle altre.

Non si sarebbe saputa spiegare il perché un minuto dopo si trovavadavanti alla porta chiusa del professore, imbambolata, con la manostretta attorno a una maniglia fredda come il ghiaccio. Spinsedelicatamente e la porta si aprì cigolando appena, entrò.

Una prima occhiata frettolosa e impaurita attraversò la camera, chenon era poi così piccola come forse l'aveva immaginata; la persianadel balcone era un po' accostata, i vetri chiusi, e sul letto, lungola parete di sinistra, un materasso nudo e arrotolato. Si voltòimmediatamente per uscire, delusa da se stessa e infastidita dallacosa scorretta e stupida che aveva fatto. Invece rimase, e ancoraguardò, spinta da un che d'inspiegabile che non era solo curiosità.Non si sarebbe mossa, decise, finché il campanello non avessesquillato o non avesse udito una chiave girare nella toppa.

A sinistra del balcone c'era un bel pianoforte verticale, nero elucido, la ribalta sollevata e uno spartito rimasto aperto sulleggìo; sui tasti, in un angolo, una matita messa di traverso e unpaio di occhiali. Si avvicinò per osservare le due foto posate sulripiano dentro cornici preziose: un'affascinante donna bruna coicapelli sciolti, bellissime labbra carnose e lunghi vistosiorecchini, sorrideva in bianco e nero da una delle due per poiricomparire nell'altra, con qualche anno in più, stretta a unbambino di pochi giorni alla cui guancia accostava con tenerezza lasua.

Lo sguardo si spostò sulle pareti, dove un'infinità di quadri cheraffiguravano per lo più sconosciuti e palpitanti paesaggi esoticima anche splendidi animali, come cavalli in corsa, leopardi, uccellivariopinti, si alternava disordinatamente ad altre fotografie, ediverse avevano in calce una dedica. Quello che in quasi tutte lefoto, su sfondi che richiamavano in prevalenza aule e palcoscenici,compariva in varie fasi della sua vita da solo o insieme ad altri,era un uomo magro dai lineamenti delicati e i capelli tagliati semprecortissimi, occhi smarriti che parevano cercare o chiederedisperatamente qualcosa.

Il cavalletto con sopra una tela sull'altro lato del balcone lefece pensare che forse molti di quei quadri li aveva dipinti proprioil professore. Inciampò in una scatola di colori e pennelli, allungòil collo e sbirciò la tela, ma non vide che un abbozzo appena diquella che sarebbe potuta diventare una magnifica rosa e che nonaveva fatto in tempo a sbocciare tutta intera.

Fece un passo indietro, anche l'anca urtò qualcosa: era un mobilebasso su cui stava poggiato un ingombrante e vecchissimo giradischiscoperto, la spina inserita nella presa. Sul piatto un trentatrégiri. Cosimina era abituata ai CD e un disco in vinile non siricordava di averlo mai toccato, così ci volle passare sopra un ditoe il dito si portò via, lasciandosi dietro una striscia sottile, unpoco della polvere che lo copriva. Immaginò che il Maestrodesiderasse molto farlo suonare, che avesse un gran bisogno diperdersi in quella musica e aspettasse di essere solo in casa per nondare disturbo, come aveva raccontato Lucia, ma poi gliene eracomunque mancato il coraggio e aspettando di trovarlo aveva lasciatoil disco sul piatto.

Con le mani allacciate dietro la schiena e il mento teso in avanti,fece per due volte una specie di lento girotondo su se stessa, cometornata bambina, e per due volte la stanza girò attorno a lei e lemostrò altre cose.

I minuti scorrevano, qualcuno forse stava per rientrare, ma questonon la preoccupava più tanto. Non aveva fretta, e neppure voglia diritrovarsi in strada lontano da quella casa, come spesso lesuccedeva, serenamente pigiata in mezzo alla folla.

Spuntarono in giro grossi e colorati cuscini dai tessuti lucidi elisci, alcuni con disegni e decori che facevano pensare all'Oriente,altri all'America latina. Fantasticò ancora. Forse in vita sua ilprofessore non aveva soltanto insegnato e diretto concerti in patriama aveva anche viaggiato, fatto lunghe tournées all'estero, e daogni singolo viaggio s'era poi portato appresso come singolarericordo uno di quei cuscini dopo averlo magari cercato pazientementee poi scelto, da solo o con la bellissima signora bruna, in giro perfiere e mercati all'aperto. Ne vide tre allineati su un divanetto divimini, ne vide due in terra, dove la prepotenza delle tinte stridevacon una moquette scura e consumata, e un altro ancora stava su unasedia a dondolo tra la porta e una piccola libreria.

Sul primo ripiano della libreria, l'una sopra l'altra, due grossescatole blu. Si accostò: incollato sul coperchio della prima c'eraun cartoncino rettangolare con su scritto a mano, in una grafia moltocurata, Lettere a Gigliola -1960/1990. Sulla seconda scatolaun cartoncino uguale ripeteva Lettere a Gigliola -1991/2011.Calcolò velocemente, gli anni in tutto erano cinquantuno.Cinquantun'anni di lettere a una sola donna. Da un aereo che loportava oltreoceano, da una città qualunque, dal camerino di unteatro dell'Opera, o forse semplicemente dalla stanza accanto perchégli faceva piacere. E che fosse morta tre anni prima, non avevaimpedito al professore di continuare a scrivergliele.

Un tuono forte, prolungato, la fece distrarre. Attraverso i vetrie le stecche frugò faticosamente nel cielo e lo vide affollarsi distrampalate sagome gonfie d'acqua, lo vide annerirsi, allora pensòdi schiudere un po' di più la persiana. La mano però si fermò amezz'aria, lasciò perdere, e capì che non era per rispetto né pertimore di toccare ancora cose non sue. Si voltò di nuovo verso lastanza: la bruma si fermava fuori, sul balcone, non osava scivolareall'interno.

Coppie di nacchere e miniature di strumenti musicali in fogge variee curiose, per alcuni dei quali neppure le veniva un nome, pendevanonumerosi da una parete in un trionfo di madreperla e corde filiformie lucenti. Si chiese divertita che razza di suono potesse mai venirfuori da quelli più strambi. Il tavolino scuro a tre piedidall'aspetto prezioso, decisamente molto antico, che notò accanto alletto, era forse quello che Frau aveva detto di volere per sé. Ma labellezza vera e folgorante veniva da qualcos'altro. Si avvicinò, sultavolino era posata una scacchiera in legno e marmo bianco su cuitutti i pezzi, che a Cosimina sembrarono in pietra scolpita ma chenon osò toccare, alcuni dipinti di rosso e di blu, stavano allineatie come in attesa. Ma con chi giocava, a scacchi, il professore?...

Il tuono si ripeté, cadde più vicino, nuove nuvole siammassarono soffocando i bagliori residui, ma per gli occhi diCosimina la luce nella stanza era più che sufficiente. Respirò afondo e con lentezza di un respiro leggero, si sentì come fossesazia, ma lì per lì forse non ne afferrò bene la ragione.

La stanza l'abbracciò, risuonò, fece passi di danza per lei. Pernulla al mondo si sarebbe più mossa, sarebbe rimasta volentiericosì, ferma al centro di quel piccolo mondo violato e sospeso chenon si lasciava toccare dal grigiore di un aprile piovoso nèdell'oscurità senza speranza che, al di là di quei pochi metriquadrati, opprimeva e spegneva ogni cosa. Ciò che le venne in menteebbe il gusto elettrizzante di una scoperta. Ecco allora, era lànella stanza del professore che s'era andata a rifugiare e s'eraraccolta tutta la vita che mancava a quella casa...

In gran fretta, e in punta di piedi come una ladruncola, scappòrichiudendosi la porta alle spalle quando le arrivò dal fondo delcorridoio un tintinnio di chiavi.

Arrivò in cucina che tremava un po', accese la tivù e finse diguardarla. Frau e Lucia, che forse si erano incontrate per caso, siritiravano insieme, entrarono, Cosimina salutò la signora e le fecele condoglianze. Poi riferì che non si era presentato nessuno aconsegnare i documenti per l'avvocato.

Frau ringraziò e si scusò tiepidamente per l'accaduto. Siallontanò un attimo, tornò con una busta bianca. “C'è unpiccolo extra per il disturbo.” disse, “Buona Pasqua, signorina”. E se la rimangiò il buio, come a lei piaceva.

Patrizia Gaudiello


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