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La casa sulla collina

di Giampiero Di Marco
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Pubblicato il 09/03/2012 10:24:45

La casa sulla collina

Ad andarsene da quel paese Alvito ci pensava da solo tutte le mattine, quando si alzava che era ancora buio per recarsi in campagna.
Non c’era bisogno che Maria Lombardi glielo ripetesse tutte le volte che lo incontrava.
Ancora pieno di sonno e tutto intirizzito per il freddo si avviava al lavoro e, prima di volgergli le spalle, prendendo per la vecchia strada di monte Ofelio, ogni mattina non poteva fare a meno di lanciare uno sguardo al ponte ed alle sue poderose arcate ancora avvolte in una nebbia azzurrina laggiù nella valle.
Quel ponte divideva il paese dalla grande strada per Napoli e dal mondo!
Erano molti coloro che lo avevano attraversato in cerca di fortuna e si erano perduti per tutte le strade della terra.
Me ne vado, non ti preoccupare!
Rispondeva scontroso ogni volta alla donna, mentre spingeva ad affrettarsi il mulo rifilandogli un calcio appena sotto il basto.
Del resto anche suo fratello, più grande di qualche anno, non se n’era già fuggito in America per non partire soldato nella guerra di Libia?
Brigante sì, carabiniere no!
Era la regola di famiglia, fin dai tempi di suo nonno, che era stato soldato di Franceschiello ed era rimasto a Gaeta fino alla fine.
Non che il nonno fosse particolarmente attaccato alla divisa borbonica, che lui soldato c’era andato perché costretto, e, anzi, preti e galantuomini non gli erano mai piaciuti.
Ma quei galantuomini diventarono garibaldini e piemontesi in una sola notte e soltanto quando fu proprio chiaro che avrebbero vinto questi altri, e solo allora innalzarono il tricolore sul municipio.
Così li aveva visti fare mentre le truppe borboniche si ritiravano dalla piana del Garigliano per andare a rinchiudersi nella fortezza di Gaeta.
E fu proprio questo a non farlo disertare.
Da Gaeta era tornato con una palla in un piede, che lo fece zoppicare per tutta la vita, e col tifo esantematico che lo costrinse ad una lunga convalescenza nell’ospedale militare ricavato dai vincitori nel vecchio convento della Trinita.
I poveri fantaccini se ne tornarono a casa senza neanche riscuotere il soldo che il Borbone aveva versato nel debito pubblico, lanciato a Gaeta, per mantenere lo stato di assedio. Anche il nonno era tornato a fare il contadino.
I galantuomini del paese, che avevano fatta la rivoluzione di un giorno, avevano aperto, invece, un circolo di garibaldini. Lì si riunivano e ogni tanto organizzavano cortei e sfilate con tanto di fanfara e di camicia rossa, parlando sempre di nuove ardimentose imprese, che poi chissà quale poveraccio avrebbe combattuto, perché di partire, quelli, per qualsiasi fronte, non avevano la minima intenzione.
Ma quelli, si sa, sapevano scrivere, e la storia se l’erano riscritta a modo loro, inventandosi partecipazioni fantasiose a strepitosi fatti d’arme ed eroici comportamenti in faccia al nemico, che poi giustificavano i posti preminenti e remunerativi che occupavano nel nuovo ordine delle cose susseguente alla rivoluzione.
Il vecchio ci sformava ancora a vedere borbonici di fede provata sfilare impettiti per le vie del paese dietro il nuovo vessillo tricolore, dopo che l’oratore di turno aveva pronunziato uno dei tanto fiammeggianti discorsi.
Garibaldi aveva promesso di dare le terre ai contadini e questo era buono, ma quale condottiero aveva mai invaso il regno senza fare la stessa cosa?
Ma quando si trattò di vendere le terre espropriate alla Chiesa, furono loro, i galantuomini, che ne profittarono, comperandole per quattro soldi.
E non contenti di quanto avevano comperato, si appropriarono anche delle terre del demanio, dove i poveri e i senza terra avevano da secoli il diritto di legnatico e fienagione. Lo fecero, questo, semplicemente ridisegnando sulle carte comunali i nuovi confini, spostando i vecchi dei loro possedimenti.
E chi li avrebbe controllati?
Erano loro che governavano le cose del Comune!
Anche Franceschiello a Gaeta aveva promesso le terre. E chissà forse lo avrebbe fatto davvero. O forse l’avrebbe fatto la bella regina, che girava sugli spalti del forte, infondendo coraggio a quei giovani che morivano soltanto per un suo sorriso ormai.
E sarebbe stato meglio se avessero diviso le terre tra i contadini poveri che almeno le avrebbero coltivate.
Invece le navi a vapore cominciarono a trasportare grano dalle Americhe a poco prezzo e, in breve tempo, i latifondi divennero terreni incolti e ricoperti solo di sterpaglie.
Fu la disoccupazione che portò il brigantaggio.
Perché quando c’è la fame crollano gli ideali ed i sentimenti umani, si ritorna lupi e si azzanna il primo morso buono a portata di denti.
Quella era stata una terra di feroci briganti e ancora adesso, a distanza di tanti anni, i nomi dei briganti Pace, Guerra e Fuoco mettevano i brividi nelle ossa.
Le bande di briganti erano come piccoli eserciti, mobilissimi, padroni del territorio, pronti a disperdersi nei casolari di campagna dove i contadini li accoglievano e fornivano nascondigli.
I contadini poveri erano attratti dalla vita del brigante.
Questo non tanto, o non soltanto, per motivi politici perché la miseria presente facilmente fa idealizzare un tempo passato, che appare felice.
Piuttosto la maggior parte era spinta dalla disperazione di una vita di stenti, alla quale si aggiungevano i soprusi di ogni sorta perpetrati da una classe di proprietari ancora peggiore della vecchia del tempo antico, che, per lo più risiedeva in città.
Il brigante invece armato del suo schioppo viveva libero dalla schiavitù di una terra avara. Ben fornito di donne e di vino viveva felice tra i boschi di castagno del massiccio del Roccamonfina o del Matese.
Molto meglio quella vita rispetto a quella del contadino, tormentata dalle febbri malariche prese a lavorare nel Pantano.
Ma il brigante faceva una brutta fine!
La Guardia Nazionale gli dava la caccia, i suoi stessi compagni lo tradivano per guadagnare la taglia. E se veniva preso con le armi in pugno, era fucilato sul posto e trascinato cadavere nella piazza del paese.
Era fortunato quando, imprigionato, veniva condannato a una lunga pena da scontare nei bagni penali, nelle fosse di Favignana o del Marettimo.
Ma finchè durava era una bella vita.
Preti e galantuomini lo temevano e riverivano.
Dovevate vedere i notabili del paese blandire e vezzeggiare persino i figli piccini del capo brigante e disputarsi l’onore di offrire una presa d’assenzio a qualche suo lontano parente in odore d’intimità!
Le donne dei briganti poi erano ossequiate, quando passavano per la strada, cariche d’oro e cannacchi, come la statua della Madonna del Popolo, quando la portano in processione.
Un fratello del nonno era stato anche lui brigante, con la banda di Fuoco.
E per lui c’era sempre un riparo nella grotta scavata nella roccia, nascosta dalla folta vegetazione del rio della Travata che costeggiava la terra del nonno.
Alla fine era stato preso.
Lo avevano ammazzato in uno scontro a fuoco sulle pendici del Massico.
Alvito ricordava quante volte il nonno, accanto al focolare nelle sere d’inverno, aveva raccontato le gesta di questo suo fratello.
Quando il tempo da passare era lungo e la cena era scarsa, il vecchio cavava la pipa di terracotta dal panciotto e se l’accendeva con cura tirando lungamente nella canna.
Era il segno che attendevano i numerosi nipoti che si raccoglievano intorno a lui.
Seduto accanto al fuoco narrava ai nipoti la sua vita di soldato e le gesta dei briganti contro i piemontesi e i mille soprusi che aveva subito nella sua lunga vita.


* *
Maria Lombardi c’era nata in quella casa di pietra sulla collina di monte Ofelio.
Suo padre se l’era voluta costruire lontano dal paese, proprio sulla spianata che guardava verso il golfo di Gaeta.
Lontano dal paese e soprattutto lontano dalla gente del paese!
Per arrivarci bisognava inerpicarsi per una stradina appena disegnata nel bosco che iniziava proprio dietro la chiesa vecchia.
La strada appena tracciata che bisognava sempre difendere dall’attacco delle felci, attraversava un bosco di castagni e saliva su per la collina, fino alla grande casa di pietra nascosta dalla vegetazione.
Soltanto qualche cacciatore o un cercatore di funghi arrivava fin lassù.
La gente del paese girava alla larga.
Anzi storie terribili si raccontavano su quella casa e sulla gente che ci viveva.
Specialmente da quando il nonno di Maria era tornato dall’esilio, dove aveva trascorso lunghi anni per aver partecipato ai moti anarchici del Matese insieme a Cafiero e a Malatesta.
Il vecchio rivoluzionario era tornato al paese e trascorreva tutto il suo tempo girando per le campagne. Non parlava con nessuno.
Camminava lentamente, guardando davanti a se, con le mani unite dietro la schiena e qualche volta con un giornale spiegato che gli nascondeva la faccia.
I contadini al lavoro nei campi, alzando lo sguardo, si trovavano dinanzi la barbaccia incolta del vecchio ed il suo cipiglio corrucciato e si segnavano la fronte.
Venti anni era mancato!
Ma lui voleva solo dare le terre ai contadini e mandare via il Re.
Che pazzi ad aver creduto che bastasse bruciare le carte del Municipio di Letino sulle montagne del Matese e le cambiali e le fedi di credito ed i registri e gli atti notarili.
La proprietà non si cancella così.
Il giorno seguente quello della rivoluzione sedata nel sangue dai soldati, i proprietari stavano lì, punto e da capo.
Del resto anche lui conosceva i termini del suo fondo, non dalle carte, ma dal nocciolo piantato sul ciglione e dalla quercia sulla ripa.
Ma era giovane ancora ed il sangue gli scorreva veloce nelle vene e quei suoi amici gli parlavano con calore del russo, che aveva promesso un nuovo quarantotto a tutta l’Europa ed anche lui era stato sedotto dalle sue idee.
Lui in esilio era rimasta la moglie a tirare la carretta e a crescere l’unico figlio.
E per fortuna che la terra apparteneva ai suoi e non avevano potuto toccargliela!
Era morta la poveretta senza averlo rivisto.
Se l’era portata via una banale diarrea che un asino di medico aveva scambiato per colera e non s’era nemmeno voluto avvicinare.
Era tornato finalmente ed aveva ritrovato il figlio, ormai grande, sposato e con tre figlie, che lavorava come perito agrario.
Questa nipote poi, ormai grandicella, lo seguiva dappertutto.
A lei raccontava dei suoi sogni giovanili, di Garibaldi, di Bakunin, di Malatesta, del povero Cafiero, il rpmantico sognatore che aveva speso il suo patrimonio per la causa ed era finito in Manicomio e del sogno anarchico di una società di eguali.
Ma per essere eguali fino in fondo, occorreva per prima cosa essere eguali uomini e donne, ricorda.
C’era stato un uomo eletto in quel Collegio che aveva parlato per primo in Parlamento della questione della donna.
In aula e sui giornali gli ridevano appresso, ma Morelli aveva ragione.
La bambina ascoltava rapita i discorsi rivoluzionari del vecchio e se ne restava assorta ed attenta ad ascoltare la cronaca dei primi scioperi contadini della Bassa Padana.
Ma era il racconto della povertà e della fierezza di Salvatore Morelli che la commuoveva.
Voglio fare un mestiere da maschio, esclamava alle tirate del nonno, il medico, che so, o l’avvocato. Non sarò mai inferiore a nessun uomo.
Assalti ai comuni nel sud avvenivano ancora ed il vecchio commentava con qualche imprecazione quei moti più o meno spontanei.
Vedeva commettere ancora gli stessi errori e l’esercito, ogni tanto, si lasciava dietro qualche morto.
Ma cosa credevano di fare?
Ma lo sapevano che ci vuole un’organizzazione per fare certe cose?
La casa sulla collina, intanto, era diventata un punto di riferimento di strani personaggi.
Ogni tanto qualcuno veniva anche da molto lontano.
Di sera qualcuno restava a dormire nella casa, tra le lamentele sommesse della nuora.
Aveva paura la donna che il vecchio potesse ancora combinare qualcosa e che ci potessero andare di mezzo tutti.
Lentamente si tessevano le fila del nuovo partito socialista, nel quale erano confluiti anche i vecchi leoni anarchici.
Nei giorni di fiera, profittando del mercato del giovedì, si riunivano i pochi socialisti della zona. Venivano anche da Castelforte, da Spigno, Maranola, da Itri e persino da Sora e San Germano. Dal piccolo centro vicino erano soprattutto gli artigiani e dalle campagne i braccianti ed i contadini poveri ad aderire.
Il vecchio diffidava dei galantuomini ed erano rari anche gli studenti.
Diceva che il mondo nuovo doveva essere costruito con la classe operaia.
Anche Malatesta era tornato dall’esilio.
L’anno precedente ad Adua per inseguire un sogno coloniale erano morti seimila poveracci, quasi tutti contadini del sud. Con l’avventura coloniale il vecchio ce l’aveva davvero e con quell’imbecille di Pascoli che l’aveva persino benedetta.
Si può sapere che bisogno c’è di andare fin laggiù a caccia di terra?
Eccola la terra per cui combattere.
Al suo piccolo e attento uditorio indicava con la mano le terre demaniali del Comune, migliaia di moggia di terra acquitrinosa e malarica, da sempre regno incontrastato del bufalo. Quelle terre potevano essere bonificate e messe a coltura, divise in piccoli poderi avrebbero assicurato lavoro ed eliminato la piaga dell’emigrazione.
Già allora il vecchio aveva convinto molti, che erano stati sorteggiati per la leva militare, ad espatriare clandestinamente.
Meglio l’emigrazione forzata che una guerra ingiusta.
L’unica guerra che sarebbe stato giusto combattere era quella da fare contro i padroni.
Ma per vincere questa guerra, bisognava prepararla!
E una volta vinta, bisogna saper mantenere il potere.
Occorre saper governare, se non volevano rimettere di nuovo il potere conquistato nelle mani di preti e signori.
L’annata del 1897 fu peggiore delle altre ed il malcontento nelle campagne cresceva come un fuoco covato sotto le ceneri.
Il vecchio sembrava invece ringiovanito, correva galvanizzato ad organizzare riunioni e la polizia si era persino ricordata di lui e lo teneva d’occhio con discrezione.
Tumulti e sommosse sconvolgevano tutta la nazione e l’unica copia dell’Avanti che giungeva in paese veniva letta la sera attorno al grande camino lassù sulla collina.
Il vecchio spiegava parola per parola quello che accadeva a Roma in Parlamento.
Parlava di Cavallotti, di Andrea Costa, di Leonida Bissolati, delle Leghe operaie e contadine del nord.



**
L’appuntamento era per i primi giorni di Aprile a San Lupo in provincia di Benevento, cominciò a raccontare il vecchio, stendendo le gambe davanti al grande camino acceso nella cucina della casa sulla collina. Era una di quelle serate d’inverno nelle quali il tempo con la promessa di pioggia, se non di peggio, e col freddo di un vento di tramontana che si incanalava nei valloni di monte Cortinella e urlava contro i castagni selvatici e contro finestre e porte sconnesse ti costringeva in casa ad un ozio forzato. Non c’era altro da fare che accendere il fuoco nel camino, piazzarci sopra un bel ciocco di castagno e meglio ancora di ulivo o di quercia, perchè il castagno scoppietta e brucia male e sedersi attorno al fuoco. La sera c’era sempre qualcuno che saliva su per la collina. I pochi socialisti, per lo più artigiani, scalpellini, qualche raro studente, figlio di vecchi compagni, un fabbro. Salivano a uno a uno senza dare nell’occhio, per scambiare qualche opinione e anche per il piacere di stare insieme. Il vecchio spillava dalla botte in cantina un capace quartarone di vino, metteva le castagne sul fuoco, che qualcuno aveva provveduto ad incidere prima e qualche volta si lasciava andare ai ricordi. Pensavamo che la zona del Matese fosse un posto buono, in passato lì era stato forte il brigantaggio, ma anche perché la zona era abbastanza vicina a Napoli dove forse l’inizio della rivolta avrebbe potuto avere ripercussioni. Quante illusioni! Comunque San Lupo era stato scelto da Malatesta che era stato compagno di studi all’Università di Napoli del notaio De Giorgio che ora faceva il sindaco del paese. Alcuni di noi però già eravamo nella zona dal mese di marzo. Kravcinskij, un russo che noi però chiamavamo Stepnjak, ci faceva da istruttore militare e ci esercitavamo a sparare col fucile e soprattutto nella preparazione di bombe rudimentali. Di sicuro mi ricordo il 28 marzo eravamo lì, me lo ricordo bene, perchè ci riunimmo nella taverna Jacobelli per commemorare l’anniversario della Comune di Parigi e scrivemmo anche sulla parete della taverna una specie di targa in ricordo della grande insurrezione del popolo parigino il 28 marzo 1871. Noi anarchici ci consideravamo i continuatori, gli eredi della Comune e di quella rivolta, il nostro vessillo era rosso e nero come quello dei comunardi. Il giorno 2 aprile vennero a San Lupo Errico Malatesta, Cafiero e Maria Volkhowskaja la moglie di Stepnjak. Con un calesse spacciandosi per turisti inglesi e con l’aiuto del sindaco presero in fitto il locale della taverna. Questa faceva parte dei beni di Achille Jacobelli, ex maggiore della Guardia Nazionale nel 1848 e il sindaco notaio ne era amministratore. Nella taverna vennero scaricate le casse con le armi e dopo un breve giro di ricognizione dei luoghi i tre se ne tornarono a Napoli. Ritornarono il giorno dopo con altre casse e quel giorno giunsero i fratelli Ceccarelli. Dovevamo essere un centinaio ma le cose andarono male fin dall’inizio. Stepniak era stato arrestato e non venne, così anche altri vennero fermati a Roma mentre erano in procinto di partire. Quindi alla fine eravamo in pochi. Da Fabriano era venuto Napoleone Papini, che aveva allora venti anni e divenne il portabandiera del gruppo. Insieme a lui e dallo stesso paese venne Sisto Spari detto il Buscarino e uno studente di diciotto anni Francesco Ginnasi. Ancora Antonio Starnari che aveva lavorato a Fabriano come cameriere e faceva parte del gruppo di Papini. Il gruppo più numeroso era quello dei romagnoli con Giuseppe Bennati, Luigi Castellazzi un calzolaio, Ugo Conti che era un garzone di macelleria, Antonio Cornacchia detto il Bavarese, un muratore, Sante Celoni anche lui scalpellino e ancora Ariodante Facchini, un altro muratore Domenico Paggi e Domenico Bezzi suo collega, ancora Carlo Gualandi e Giovanni Bianchini. Toscani erano invece Alamiro Bianchi sarto, Guglielmo Sbigoli impiegato e Giovanni Volponi muratore. Altri due compagni erano il tipografo Antonio Lazzarri e Carlo Pullotta. In tutto eravamo poco al di sopra della venti unità. Malatesta aveva contattato un certo Farina, un ex garibaldino del luogo, almeno come tale era conosciuto. Gli affidò il compito della propaganda verso i contadini per cercare di averli in nostro favore per la rivolta. Ma Farina era moneta falsa e fece la spia ai carabinieri i quali, a nostra insaputa, ci tenevano d’occhio da giorni. Nella notte tra il 4 ed il 5 di aprile, mentre stavamo nella taverna e aspettavamo che venissero altri compagni, ci accorgemmo della presenza di una pattuglia di carabinieri che sembrava stare lì proprio per noi. Lanciato l’allarme, riuscimmo a fuggire, sparando qualche colpo di fucile che provocò anche la ferita di due militi. Usciti in tutta fretta dal paese, scendemmo verso il ponte delle Janare e poco più avanti, prendemmo il sentiero, il primo che trovammo che saliva ripido verso monte Santa Croce. Il tentativo di insurrezione a San Lupo era miseramente fallito e ci ritrovammo a fuggire per una strada di montagna di notte e senza nessuno che ci guidasse. Camminammo tutta la notte e faceva tra l’altro anche un freddo terribile. In alcune zone la neve non si era ancora sciolta.
Camminammo per due giorni, trovando appena rifugio in qualche stalla di pastori dai quali riuscimmo a comperare un po’ di pane e formaggio. Finalmente l’8 di domenica arrivammo al paese di Letino, qui ci schierammo come una formazione e preceduti dal portabandiera col drappo rosso e nero facemmo la nostra bella entrata nel paese. Ci dirigiamo verso il Municipio dove in quel momento è in corso una seduta del consiglio comunale. Figuratevi stavano decidendo cosa fare di quattro accette arrugginite e vecchi fucili sequestrati a bracconieri e a poveracci sorpresi a rubare legna. Risolviamo immediatamente la questione, sequestriamo le armi, ce ne teniamo una parte e il resto lo distribuiamo alla popolazione presente. Intanto la notizia del nostro ingresso in paese raduna una piccola folla. Noi disarmiamo la Guardia Nazionale e distribuiamo anche queste armi. Malatesta stacca dalla parete il ritratto del re e lo fa a pezzi, dichiarando che la monarchia è decaduta. Gettiamo dalla finestra, in questo aiutati da molti, le carte dell’archivio, con i titoli di proprietà e i documenti poi vengono bruciati in piazza. Con le scuri allora distruggiamo il contatore del macinato, che serviva per applicare la più odiosa delle imposte. Usciamo dal Comune e seguiti ormai dalla folla ci portiamo verso la chiesa. Qui sul sagrato della chiesa Malatesta, salito su un piccolo poggio dopo aver legato la bandiera ad una croce, improvvisa un discorso rivolgendosi alla folla. Spiega le ragioni che hanno determinato quella rivolta che stiamo facendo. Gli anarchici vogliono l’eliminazione della tassa sul macinato, l’abolizione della monarchia come di ogni altra istituzione, compresa la repubblica. Nel mondo non ci devono essere più padroni, né proprietà privata. Tutti gli uomini sono uguali e liberi, perciò concluse, andate nelle case dei proprietari e dividetevi le loro cose. Il bello fu che il vecchio sacerdote che aveva asssistito a tutto il discorso, intervenne dicendo che quanto aveva ascoltato da Malatesta non era molto diverso da quanto era scritto nei Vangeli. Quel povero parroco in seguito sarà arrestato e passerà la sua parte di guai. Si chiamava Tamburrini. Una donna esce dalla folla e rivolta a Malatesta gli chiede che le cose dette si facciano subito. Perché se ve ne andate, noi non avremo più niente. Malatesta risponde che loro devono proseguire per altri paesi e non hano il tempo di procedere alla spartizione. Insomma dice, i fucili e le scuri ve li avimmo dati, i cortelli li avite, si vulite facite e se no vi futtite! Il popolo doveva con le proprie mani, in prima persona, agire, fare, essere artefice del proprio destino. Questo è il credo anarchico, gli anarchici sono soltanto il lievito del sommovimento e dell’abbattimento della società sfruttatrice. Usciamo dal paese e ci dirigiamo verso Gallo, un piccolo centro vicino. Anche qui una volta arrivati, facciamo le stesse cose. Troviamo il Comune chiuso, sfondiamo la porta, distruggiamo anche qui il ritratto del re, incendiamo le carte, buttiamo alla folla una cinquantina di lire che troviamo nelle casse dell’esattore. Distribuiamo anche qui scuri e fucili, ci facciamo indicare i mulini e rompiamo il contatore. La folla entusiasta ci segue e applaude a questo spettacolo. Non so se l’applauso è una forma di partecipazione convinta al fatto rivoluzionario o è soltanto l’apprezzamento per uno spettacolo fuori dell’ordinario e che rompe comunque la monotonia della vita provinciale. A questo punto lasciamo Gallo, cercando di raggiungere un altro paese, ma ci aggorgiamo che un forte contingente di soldati sta cercando di accerchiarci. Cerchiamo di rompere l’accerchiamento. Per farlo bisogna passare a guado il Volturno ma le acque gelide e vorticose non ce lo permettono e quindi la strada che porterebbe in Ciociaria o in Abruzzo ci è preclusa. L’unica ritirata possibile è costituita dalla scalata del monte Matese il cui valico ci porterebbe nel Molise. Camminiamo tutto il giorno, inseguiti dai soldati, sotto una pioggia continua. Iniziamo l’ascesa del monte affondando fino al ginocchio nella neve. Qualcuno comincia a mostrare i segni della fatica, in breve ci accorgiamo della impossibilità dell’impresa. Torniamo indietro, troviamo un riparo in una masseria e qui sfiniti, bagnati, affamati ci sorprende l’esercito. Le armi bagnate non servono a nulla, ci arrendiamo. Ci portano al carcere San Francesco a Santa Maria di Capua. La rivolta era fallita. Era tutto sbagliato fin dall’inizio. Erano sbagliate le premesse, l’analisi che ci faceva individuare nel ribellismo del contadino meridionale un soggetto rivoluzionario. Il contadino si ribellava alla fame, all’imposta sul macinato, all’ingiustizia sociale, alla coscrizione obbligatoria, ma tutto finiva lì nell’ambito di una visione che non oltrepassava il confine del loro piccolo paese. Dove poteva portarci una rivolta di uno, anche di dieci paesi del Matese, anche ammesso che fossimo capaci, e non lo eravamo, di organizzare un esercito di lazzaroni, armati alla meno peggio, con fucili antiquati, asce, coltelli e forconi e poche munizioni. Per prendere una ventina di noi, il governo aveva mobilitato 12.000 soldati di un esercito vero, organizzato, armato e allenato. Sarebbe stata una strage, Sarebbe servita questa a far insorgere le città del nord e del sud, io credo di no. Al contrario avrebbe depresso ancora di più i tentativi di organizzazione di una possibile rivolta. Ci portarono in carcere dove restammo per parecchio tempo prima del processo. All’inizio Nicotera,. Ministro dell’Interno, l’ex garibaldino Nicotera, il compagno della sventurata impresa di Pisacane, scampato alla morte e richiuso in carcere, dal quale uscì solo dopo l’arrivo di Garibaldi, aveva intenzione di farci processare da un Tribunale Militare. Questo ci faceva rischiare la pena di morte per fucilazione. Silvia, la figlia di Pisacane che Nicotera aveva adottato, intervenne in nostro favore e forse il padre adottivo ebbe un barlume di coscienza ricordando i suoi vecchi trascorsi. Fummo così rinviati dinanzi a un Tribunale Civile. La vita in carcere era dura ma noi la affrontavamo con la sfrontatezza e la irresponsabilità della giovane età. Cafiero trovò il tempo di preparare una sintesi del Capitale di Marx che traduceva da una versione francese. Malatesta scriveva anche lui e passava il suo tempo cercando di fraternizzare con i detenuti comuni. In genere dei poveracci ai quali spiegava il suo progetto di società futura. Alla fine ci trasferirono nel carcere di Benevento, dove era avvenuto il reato, la resistenza a San Lupo e la sparatoria con conseguente morte differita di una delle due guardie ferite. Intanto nel gennaio del 1878 era morto Vittorio Emanuele II e il figlio Umberto al momento dell’assunzione al trono concede un’amnistia che copriva buona parte dei reati che ci venivano contestati. In sostanza venivano estinte le imputazioni di tipo politico, restava in piedi solo il ferimento dei due carabinieri dei quali uno era morto. La Corte d’Assise di Benevento era deputata allo svolgimento del processo che si tenne nel mese di agosto. Il processo iniziò in un’atmosfera generale poco rassicurante per noi. Nel mese di agosto era stato ucciso dai carabinieri Davide Lazzaretti il mistico della comunità di monte Amiata in Toscana. Nella nostra difesa si distinse l’allora giovanissimo avvocato Merlino e la sua appassionata arringa finale contribuì certamente alla sentenza favorevole. Alla giuria venne posto il quesito se fossimo colpevoli o innocenti della morte del carabiniere. Essi risolsero dicendo che la morte era conseguita per causa sopraggiunta, l’infezione. Questo fece derubricare il resto in reati coperti dalla amnistia e fummo assolti. All’uscita dal Tribunale fummo accolti da una folla di duemila persone che ci scortò fino al carcere dove c’erano da sbrigare le ultime formalità per l’uscita. Da qui prese le nostre cose, ci recammo alla trattoria del Sannio per fare un pasto decente dopo quindici mesi, sempre scortati dalla folla. Era finita, avevamo vinto, ma avevamo perso. Da quel momento in poi non ci furono più tentativi di sollevazione di paesi. Una strategia era fallita e occorreva battere altre strade. Qausi tutti riparammo all’estero e anche io rimasi in Svizzera per una decina di anni. In questi anni io come tanti altri abbiamo riconsiderato l’avventura anarchica, abbiamo nel frattempo compreso la necessità della costruzione di un sindacato, di una lega e di un partito e l’utilità di combattere per obiettivi intermedi, senza cercare scorciatoie. Così l’azione di Sante Caserio che aveva ucciso in Francia Sadi Carnot, il presidente della Repubblica, non aveva riscosso molto successo nel vecchio, che ammirava l’uomo e la sua tempra morale, il suo atteggiamento di fronte ai giudici, ma anche in questo caso non pensava che quel gesto facesse guadagnare qualcosa alla causa. Sante era un garzone di fornaio emigrato in Francia a Lione. Uccise Carnot in visita alla città con un coltello dal manico rosso e nero per vendicare la morte in carcere di un compagno. Venne ghigliottinato il 16 agosto del 1895, avrebbe avuto salva la vita, se avesse collaborato, indicando altri suoi compagni. La sua risposta fu celebrata nelle canzoni anarchiche. Caserio è un fornaio non una spia. Azione isolata, beau geste, ma fine a se stesso, come tutti quelli che l’avevano preceduto, da Felice Orsini, a Carannante, con le loro azioni la borghesia o i governi non avevano avuto affatto paura e tutto era continuato come prima. Non era quella la strada. Ma allora qual è la strada? Quella della rivoluzione, rivolta di popolo, non di singoli, ecco perché bisogna organizzarsi in un partito, con un sindacato che faccia richieste giuste e condivisibili dai lavoratori e li porti alla lotta, allo sciopero generale, alla conquista di nuove occasioni di lavoro, di migliori condizioni di vita, di livelli retributivi adeguati, di minor numero di ore di lavoro, non dodici ore, ma otto, di scuole e assistenza sanitaria, di pensione per chi è anziano e lascia il lavoro.
I suoi ascoltatori lo seguivano con attenzione, sforzandosi di tenere gli occhi aperti che la fatica del giorno rendeva le palpebre pesanti.
Ma quando a Milano massacrarono ottanta persone gli venne quasi un colpo.
Si ammalò da quel giorno e non si rialzò più dal letto.
Non ebbe neanche la soddisfazione di sapere di Gaetano Bresci.
Era morto già da qualche mese.
Bresci gli sarebbe piaciuto molto, Maria lo sapeva.
Ecco perché accanto alla fotografia del nonno, conservava anche il ritratto dell’anarchico fucilato.

* *
La mantenne la promessa fatta al nonno Maria!
Non solo a scuola ci andò, ma fu la prima donna del paese a prendere la licenza liceale.
A diciotto anni si iscrisse alla facoltà di Medicina di Napoli e anche lì non erano molte le donne. Era venuta su per bene, diritta e asciutta, un po’ legnosa, forse, nel camminare, ma nonostante ogni sforzo e nonostante lo sguardo sempre corrucciato e pensieroso, non riusciva a reprimere una prorompente femminilità che le veniva fuori da un petto prepotente e dai fianchi.
Riscuoteva successo anche per questo, quando si alzava a parlare nelle infuocate assemblee di rivoluzionari.
Ben presto la sua figura divenne familiare nell’ambiente socialista napoletano.
Ma fu con uno studente di Ingegneria che strinse veramente amicizia.
Amadeo Bordiga era un parlatore affascinante, una vera sirena, capace di unire la tempra del tribuno alla logica stringente dello scienziato.
La casa sulla collina conobbe una nuova stagione.
Spesso venivano da Napoli la donna e l’ingegnere e restavano per qualche giorno.
Organizzavano per i braccianti del posto dei brevi corsi di studio.
Era sempre la fame di terra che spingeva il movimento.
Amadeo, in verità, non era molto convinto che insegnare a scrivere e far di conto servisse molto alla causa della rivoluzione mondiale, ma la donna insisteva nel continuare l’opera del nonno.
Questi contadini, diceva, ancora primitivi sotto tanti aspetti sono capaci di lottare, ma bisogna dar loro una causa in cui credere.
Ripeteva le parole del nonno. E gliela dobbiamo dare noi una causa, altrimenti gliela darà la borghesia.Gli raccontava allora vecchie storie terribili su fra Diavolo, Mammone, sul brigantaggio postunitario. Amadeo sorrideva alle argomentazioni della donna, ma la vedeva convinta ed aveva imparato a sue spese, quale durezza nascondesse sotto l’apparente fragilità e come fosse determinata.
Va bene trasformiamo pure questi contadini in soldati della rivoluzione, affermava sospirando e si impegnava a fondo nelle lezioni serali attorno al vecchio camino.
Erano semplici operazioni di conto o la ripetizione di regole grammaticali quelle che faceva svolgere a quei giovani che, sul far della sera, abbandonati i casolari di campagna, o gli armenti nelle stalle, spesso saltando la cena, oppure portandosi appresso un tozzo di pane, a piedi o a cavallo di un mulo, risalivano la collina dirigendosi alla casa dove li attendevano Maria e le sue sorelle Ester e Minerva.
Ma il meglio di se Amadeo lo dava nelle lezioni di storia!
Allora s’infervorava davvero, parlando, e la piccola platea pendeva dalle sue labbra, ascoltando finalmente spiegata la ragione della loro miseria e del loro sfruttamento.
Come un giovane Messia annunciava a quei ragazzi il radioso avvenire, promesso da Marx, nel quale tutti finalmente avrebbero avuto il giusto compenso alle fatiche.
L’avessero visto in quei momenti Tasca e Salvemini, forse avrebbero mitigato il loro giudizio nei suoi confronti.
Proprio quell’anno aveva bollato col nome di “culturisti” il gruppo di socialisti torinesi.
Al Congresso della Gioventù Socialista aveva gridato dal palco che c’era bisogno di cuore e sentimento per costruire il futuro socialista e non di studio.
Quello era ancora un congresso di rivoluzionari e non di maestri.
Ma che fare?
Occorreva pure far crescere in qualche modo la coscienza rivoluzionaria al sud.
E poi come dire di no a Maria.
A quella scuola Alvito aveva imparato veramente, non a quella pubblica, dove il maestro aveva fatto di tutto per distoglierlo dallo studio, ricacciandolo nella terra.
Tanto a che gli serve di saper leggere e scrivere ad un contadino!
L’aveva raccontato ad Amadeo, ma ora gli era chiaro l’intento di quel figlio di possidenti, che, dopo aver tentato inutilmente di prendersi una laurea, era tornato al paese ed aveva ottenuto un posto da maestro.
Le preghiere, quelle sì, gliele aveva insegnate, facendole ripetere mille volte in quel latino incomprensibile, ma la storia era risolta in una serie di aneddoti oleografici.
Sulla collina Alvito ci veniva insieme al fratello più grande di qualche anno tutte le volte che riuscivano a sfuggire al controllo del padre.
Maria aveva quattro anni più di lui, ma la terra del padre di Alvito era a un tiro di schioppo e Maria il giovane la conosceva da sempre.
Da ragazzo quando la sera, ritornando verso casa dal podere, faceva fermare l’asino a bere alla fontanella presso la chiesa vecchia, la incontrava sempre mentre con le sorelle era intenta a prendere l’acqua con le cannate di creta.
Quante volte l’aveva aiutata a mettersi in equilibrio la cannata, aggiustandogliela sopra il fazzoletto ritorto a formare un cerchio, sopra la testa.
L’amicizia era nata così, ma già allora subiva il fascino della ragazza che, forte dei discorsi del nonno si atteggiava a maschiaccio impertinente.
Maria era molto popolare tra tutti i mocciosi dei casolari sparsi alla falde della collina e già attorno ai tredici anni era lei la capobanda di monte Ofelio.
Con quella fantasia accesa dalle storie del nonno, era sempre pronta ad organizzare gesta eroiche per la sua banda.
Crescendo il gioco era continuato ed i ragazzini di una volta la seguivano ancora con lo stesso entusiasmo.
Solo, la fantasia aveva lasciato il posto a programmi più concreti, parlavano ormai di contratti agrari, di salario, di cooperative per la coltivazione della terra, di nuovi sistemi di coltura, di macchine per mitigare il lavoro duro della terra.
L’attendevano con ansia quando tornava per il fine settimana da Napoli.
Erano orgogliosi che una di loro, perché tale la consideravano, potesse diventare un medico. Insomma le volevano bene e ne subivano il fascino, ma nessuno si era mai permesso confidenze con Maria, perché allora il rude e cameratesco modo di fare della ragazza lasciava il posto ad un’ira furibonda.
Maria voleva essere trattata come un compagno e a un compagno non si fanno carezze.
Quando Maria tornava ed il camino della casa fumava, perché ormai la famiglia si era ritirata in paese, era il segnale che potevano andare.
E andavano.
Raccoglievano per lei i primi funghi ed i corbezzoli e le fragoline di bosco.
Qualcuno se ne veniva con una lepre presa al lacciolo o con un cinghialino lattonzolo ed era festa grande nella casa sulla collina.
Dopo le riunioni di studio c’era sempre da stare allegri a cantare insieme Addio Lugano bella, seduti intorno al fuoco acceso sull’aia, dalla parte della spianata che guardava il mare di Gaeta, l’uno accanto all’altro, spalla a spalla, dimentichi di tutto, attendendo nel cielo che trascolorava il radioso sol dell’avvenire. O le parole dell’Inno dei pezzenti. Noi siamo i poveri, siamo i pezzenti/la sporca plebe di questa età/la schiera immemore dei sofferenti/per cui la vita gioie non ha. Nostra patria è il mondo intero/nostra legge è la libertà. Imparavano a memoria le parole scritte da Gori. Sembrava loro in quei momenti di possedere il vero senso della vita, l’avvenire gli sembrava così pieno di promesse, così vicino anche nella sua realizzazione.
Ed anche le storie sulla casa e sulla gente che ci abitava erano tornate.
Quelle ragazze erano considerate dalle donne del paese al pari delle janare, delle streghe, capaci di magie, pozioni e incantamenti a incatenare tutti quei giovani.
Storie di vita libera, di liberi amori, di costumi sfrenati, di accuse di furtarelli nelle campagne ai danni dei contadini, che forse quei ragazzi pur di portare qualcosa commettevano davvero.
Ma niente e nessuno riusciva a rompere il vincolo che univa tutti i frequentatori della casa sulla collina.


* *
Questi pensieri affollavano la mente di Alvito che, ormai giunto sul suo fondo aveva iniziato la sua giornata di lavoro senza neanche attendere gli altri braccianti ingaggiati da suo padre.
Disboscava la ripa sul rio della Travata ed i colpi dell’accetta affilata abbattevano i tronchi di giovani quercioli e di teneri castagni selvatici.
Nel silenzio della vallata solo l’eco lontana di questi colpi, accompagnata dall’anfanamento tipico dei legnaioli, contribuiva a spezzare il fiume dei ricordi.
Bisognava decidersi, aveva ragione Maria.
Era giunta anche per lui l’ora di andarsene, come nel ’12 giunse per suo fratello.
Altrimenti lo capiva anche lui, un bel giorno gli avrebbero messo addosso una bella divisa grigioverde e lo avrebbero spedito verso un fronte a combattere.
Non vedeva forse che in paese studenti e galantuomini erano in continua e frenetica agitazione?
Erano sempre là ad organizzare sfilate col tricolore fino al monumento ai caduti nella villa comunale, dove si fermavano a pronunciare altisonanti discorsi.
Fanfare e bandiere sempre pronte, muscoli in bella mostra e grida di guerra per Trieste e Trento. Allora gli tornavano in mente i racconti del nonno attorno al focolare.
Certo questi in guerra non ci sarebbero andati!
I galantuomini in cravatta non avevano più l’età ed i ragazzi delle scuole superiori avrebbero continuato gli studi.
E la gente del paese?
All’inizio assisteva indifferente, ma col tempo aveva cominciato a prenderci gusto.
Il sentimento nazionale lui lo vedeva crescere, giorno dopo giorno sulla bocca della gente, nelle parole sempre più altisonanti e retoriche, la quarta guerra d’Indipendenza, la conclusione del Risorgimento, Trento, Trieste, Pola, Fiume, la Dalmazia, l’imperatore fino all’altro ieri alleato era ridiventato Cecco Beppe, il crucco.
Perfino quelli che dicevano di essere Radicali, che pure avevano eletto un Deputato in quel collegio, dimenticando ogni proposito rivoluzionario, cianciavano di Nazione e stavano nel mucchio che inneggiava alla guerra.
E pensare che anche i socialisti avevano votato quel deputato!
A volte bastava una sola parola per scatenare una rissa.
Persino durante le processioni di Pasqua.
Un paio di vecchi socialisti che erano dei modelli di virtù nella loro Confraternita, erano stati esclusi dal portare a spalla i misteri, durante la processione più importante, quella del giovedì. Qualcuno li aveva accusati di comportamento antinazionale dal momento che parlavano contro la guerra ed era successo un parapiglia nella sacrestia della chiesa donde usciva la processione.
Ed ogni giorno era peggio.
Ma come, chiedevano a Maria nelle riunioni serali del partito socialista, che ora erano riprese con regolarità, specialmente da quando si erano accostati molti operai di origine sarda che avevano lavorato alla costruzione della nuova Direttissima Napoli-Roma, nessun partito vuole la guerra, nemmeno Giolitti.
Vedrai che alla fine la faranno nonostante tutto, rispondeva sconsolata la donna.
Io certamente non la farò la loro sporca guerra, aveva promesso Alvito, piuttosto me ne vado in Messico. La fuga per il Messico in fiamme per la rivolta di Pancho Villa era diventata un’idea fissa nella mente del giovane.
Alvito leggeva con avidità il resoconto delle gesta dei peones di Zapata e delle azioni coraggiose contro i militari traditori che avevano deposto il presidente Madero.
Andare a combattere sull’altopiano di Sonora insieme a quegli straccioni descamisados era diventato il sogno che lo accompagnava dalla mattina alla sera.
Appoggiare quella lotta gli sembrava la stessa che combattere per la conquista delle terre del Pantano, stessa faccia, stesso colore di pelle, stessa fame, stessa gente, perfino stessa bandiera.
Quando arrivò la cartolina militare Alvito non c’era più.
Già da un mese era fuggito.
Tutti i suoi compagni si erano tassati per pagargli il biglietto su una nave in partenza per l’America.
Una mattina si era alzato come tutte le altre mattine.
Si era vestito al buio, raccogliendo in una sacca alcune poche cose.
Aveva preso i documenti e indossato con cura a pelle sotto la camicia la cintura di cuoio nella quale aveva cucito i suoi denari ed era uscito di casa.
Quella mattina non andò a prendere il mulo nella stalla.
Non passò neanche a salutarlo quel suo compagno di fatica, che pure lo aveva udito scendere le scale ed era già pronto ad uscire.
E non salutò neppure i suoi genitori e la sorellina che dormiva ancora, avviluppata nella sua coperta.
Uscì nel primo chiarore dell’alba e stavolta, giunto all’incrocio, prese deciso per la strada del ponte.
Solo un attimo gli venne da chiedersi se Minerva avesse già acceso il fuoco nel camino, lassù sulla collina.
Ma fu solo un attimo.

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