Prusak usciva dall’appartamento, alla solita ora, in una grigia mattina di una Palermo tardo autunnale.
Guardava compiaciuto le sue scarpe lucidissime e, nell’abbassare lo sguardo, si accorgeva di un piccolo insetto fermo sul pavimento. Si spostava di un passo per poterlo schiacciare più comodamente e ruotava con forza la punta del piede sul pavimento, in modo da essere certo del risultato. Si puliva la suola sullo zerbino e, soddisfatto, si avviava verso il portone del palazzo. In effetti, Prusak provava un sottile piacere nello schiacciare ogni insetto che gli capitava a tiro se poi quest’atto era accompagnato dallo scricchiolio della corazza oppure lasciava una piccola macchia di liquidi organici sulla superficie, allora ricavava una soddisfazione ancora più grande.
Sin da bambino aveva questa passione. Ad esempio, gli piaceva strappare le ali alle mosche, cercando di non danneggiarle troppo durante l’operazione. Restava lì, fermo, a osservarle camminare; sovente le stuzzicava con una matita, facendole seguire un percorso che aveva in precedenza preparato. Oppure staccava alcune delle zampe di certi grossi ragni che scovava dopo faticose ricerche, divertendosi, poi, nel vedere la loro andatura sbilenca.
Con un distratto cenno del capo rispondeva al saluto del vecchio portinaio e si tuffava in mezzo al caos della città. Per Prusak quella era una giornata come tante altre e, lungo la strada che lo avrebbe condotto in ufficio, ripensava a tutto quello che avrebbe dovuto fare durante la giornata. Lui programmava tutto, doveva in qualche modo tenere tutto sotto controllo. Oltre a una serie di telefonate di lavoro, doveva ricordarsi di passare in lavanderia a ritirare degli abiti. Per sicurezza estraeva il portafoglio dalla tasca dei pantaloni e cercava lo scontrino che gli avevano rilasciato. Sorrideva compiaciuto della propria memoria nel leggere sul biglietto “data di consegna: venerdì 27 novembre”. Mentre lo riponeva con cura al suo posto, scendeva dal marciapiede e iniziava ad attraversare la strada. Era questione di un attimo: un’auto che svoltava a destra non poteva evitarlo, nonostante procedesse lentamente. Si sentiva un tonfo sordo e Prusak si ritrovava qualche metro più in là, a terra. Restava per un istante stordito, poi provava a muovere le gambe e le braccia, proprio come gli insetti che schiacciava. Si rendeva conto che non c’era nulla di rotto, ma preferiva rimanere immobile. Quando si accorgeva di avere un po’ di persone attorno, iniziava a gemere, tenendo gli occhi semichiusi. Gemiti che aumentavano d’intensità quando vedeva farsi largo tra la gente una donna pallidissima che mormorava: "Non l’ho visto… è sceso all’improvviso dal marciapiede... qualcuno chiami un'ambulanza". A quelle parole Prusak si sollevava un po', si appoggiava ai gomiti e borbottava che non voleva assolutamente che chiamassero l’ambulanza.
La gente che si era radunata, a quel punto, siccome non c’era più nulla da vedere, si disperdeva velocemente e, accanto all’uomo seduto ancora a terra, rimaneva solamente la donna che l’aveva investito. Questa continuava a fissarlo, quasi incredula di quanto era successo. "Non l’ho visto, Cristo, proprio non l’ho visto scendere dal marciapiede", ripeteva.
"Ci mancherebbe che m’avesse visto e investito apposta! Ma si rende conto della fesseria che ha detto?!", la rimproverava acidamente, "E, ora, la smetta di piagnucolare e mi dia una mano ad alzarmi...".
Una volta in piedi, la fissava severamente: "Grazie a lei sarei potuto morire, lo sa vero?!".
La donna, ancora stordita dallo spavento, rimaneva silenziosa sotto il peso di quelle parole e abbassava lo sguardo. "Ora come la mettiamo? Capirà che in queste condizioni per un po' di tempo non potrò fare nessun tipo di sforzo. Sarà già un miracolo se riuscirò andare a lavorare…".
In tutto quel tempo Prusak non aveva mai distolto gli occhi dalla donna. Al termine della sua analisi la classificava un essere insignificante, così come si poteva dedurre dal suo aspetto. Bassa, rotondetta, con capelli sottilissimi color castano che scendevano a incorniciare un volto che, a essere buoni, si poteva definire anonimo. Gli abiti che indossava erano informi, le scarpe, a tacco basso, neppure particolarmente lucide.
"Allora che è... sta zitta?!".
Prusak si stava intimamente divertendo davanti al silenzio imbarazzato con cui la donna lo ascoltava. Non aveva la minima intenzione di aiutarla, anzi, gli piaceva studiarne le reazioni, come il pallore innaturale del viso e il tremolio costante del labbro inferiore. Si augurava che non si mettesse a piangere, una manifestazione che lo irritava troppo.
"Se vuole la posso aiutare, mi dica solo in che modo e all'uscita del lavoro, provvederò per quanto mi sarà possibile...". Finalmente la donna si decideva a parlare. L'aveva fatto usando un tono abbastanza basso e tenendo lo sguardo rivolto verso terra.
Prusak era sorpreso, non aveva previsto una simile offerta. Aveva pensato che il suo divertimento sarebbe finito di lì a poco, invece quella donna gli dava la possibilità di prolungarlo ancora. Nella sua mente balenavano tutta una serie di faccende e di commissioni che avrebbe potuto affidarle. Con aria di sufficienza le dava il suo indirizzo e lo scontrino della lavanderia: "Sarei dovuto andare io, ma in queste condizioni, come può ben capire, sono impossibilitato". Aggiungeva che l'avrebbe aspettata verso le sei di quella sera e la congedava non senza aver preso nota delle sue generalità. Attendeva che la donna si fosse allontanata con l'auto per proseguire a passo spedito verso l'ufficio. Quello stupido incidente l'avrebbe fatto arrivare in ritardo, pensava, però, forse, ci avrebbe ricavato qualcosa.
Alla sera accoglieva la donna mostrando un'aria sofferente. Si lasciava cadere pesantemente sulla poltrona lasciandola in piedi, vicino alla porta d'ingresso.
"Come sta?" diceva la donna.
"Sto malissimo" aggiungeva Prusak laconico, "come se fossi stato investito da un’auto...".
La donna arrossiva violentemente. Consegnava il pacco con gli abiti ritirati in tintoria e diceva: "Mi dica cosa posso fare per lei. Vuole che telefoni al mio dottore?".
"Ho già telefonato al mio e mi ha detto di evitare di fare qualsiasi sforzo almeno per un mese".
"Sì, certo. Vedrà che con un po' di riposo starà meglio" diceva la donna, poggiando lo sguardo per terra.
"Il fatto è che io di sabato sono abituato a fare le pulizie generali dell’appartamento...".
La donna annuiva e si offriva di venire l'indomani. Prusak aveva fatto una scelta sin da quando era giovane: non si era mai pentito del fatto di non essersi mai sposato, sebbene gli pesassero i lavori domestici. Talvolta pagava una donna a ore, ma invariabilmente rimpiangeva i soldi spesi. Un po’ perché non amava spendere e un po’ perché non era mai soddisfatto dei lavori eseguiti. D’altronde, una volta che aveva provato a lamentarsi, come risposta ricevette: "Se non le vado bene ne cerchi un’altra". Cosa che aveva fatto, ma i risultati non erano cambiati.
Certo, rifletteva, che il vivere solo aveva i suoi vantaggi, però ora che si avvicinava ai cinquant’anni, iniziava a intravedere i lati buoni che un matrimonio fatto in modo accorto gli avrebbe potuto procurare. Pensieri fatti seduto sulla rossa poltrona preferita mentre quella donna - Tecla, le aveva detto di chiamarsi - stava sfaccendando in cucina. La sera precedente aveva cucinato senza preoccuparsi, come solitamente faceva, di sporcare il minor numero possibile di pentole. Ora Tecla le stava lavando e lui non doveva neppure pagarla.
Al terzo sabato, Prusak decideva che valeva la pena rischiare. Si chiedeva quanto Tecla avrebbe resistito con quell'aria timida e remissiva che tanto gli piaceva. Le proponeva di andare a vivere da lui e aggiungeva: "Mi farà piacere, non ho mai trovato nessuno che sapesse fare le faccende domestiche così bene come lei".
Di certo la donna non era affascinante, ma Prusak aveva ormai imparato che nella vita non si poteva avere tutto. Bisognava saper fare delle scelte e lui aveva deciso di farla in modo consapevole. Anche Tecla, dopo qualche esitazione, accettava, pensando che meglio di così non le sarebbe andata. Avrebbero iniziato a breve il loro percorso insieme, che si annunciava tranquillo e regolare, come Prusak desiderava.
Tecla si trasferiva la domenica successiva. Si era presa qualche giorno di tempo per sistemare tutto e, con l’aiuto del fratello, portava poche valigie e i suoi abiti. Prusak la accoglieva con un sorriso, poi osservava attentamente i pochi effetti personali di lei: le dava l’impressione che si fosse sistemata senza intoppi e le chiedeva di preparare una cena semplice. Non amava mangiare troppo la sera, gli piaceva stare leggero, specialmente da quando il medico gli aveva prescritto una dieta a causa del diabete.
Passavano i giorni, l’uomo notava con soddisfazione che Tecla non gli dava nessun tipo di problema. Anzi, aveva preso le redini della casa con estrema attenzione e lui, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva veramente libero da ogni impegno domestico.
Finché una mattina, mentre si stava preparando per andare in ufficio, notava che una delle sue scarpe, lasciate sempre nella stessa posizione la sera precedente, non era lucida come avrebbe dovuto essere. Chiamava Tecla e le chiedeva spiegazioni. Lei, con voce calma, gli diceva che non aveva avuto tempo di fare tutto. "Non sarà più così" aggiungeva, "prometto". Ma Prusak non si accontentava di quella risposta. Per lui, quella era una mancanza grave, perché una delle sue regole principali era che le scarpe dovevano essere sempre impeccabili. Il giorno seguente accadeva qualcosa di simile e Prusak, alla terza volta, perdeva la pazienza.
Le sue reazioni diventavano più dure e, con il passare del tempo, scopriva che Tecla aveva anche altre mancanze. Spesso lo interpellava per ogni minimo problema, cosa che lui trovava insopportabile. Si domandava, sempre più di frequente, se non avesse fatto un errore nel farla venire a vivere con lui. Ma ormai aveva preso la sua decisione e non voleva tornare indietro.
Tecla, dal canto suo, percepiva che Prusak stava cambiando. Si faceva più scontroso e meno paziente. Cercava di non contraddirlo, ma non sempre ci riusciva. I litigi diventavano frequenti e, ogni volta, Tecla si ritrovava a piangere in silenzio, chiusa in bagno. Non si aspettava di certo che tutto sarebbe stato facile, ma si era illusa che la convivenza sarebbe stata più serena.
Passava un anno e Prusak si rendeva conto che la situazione era insostenibile. Decidere di rompere con Tecla gli sembrava la scelta migliore, anche se si rendeva conto che sarebbe tornato a doversi occupare di tutto. Ma preferiva quello piuttosto che continuare a vivere con qualcuno che non riusciva più a sopportare. Le diceva chiaramente che doveva andarsene, e che si sarebbe occupato di cercare una sistemazione per lei.
Così un giorno qualsiasi, in un momento qualsiasi, la spinse fuori dalla finestra senza dire una parola. La guardò volare via, come un insetto impazzito. Poi scese giù per strada e le calpestò testa per assicurarsi che fosse proprio finita.
Nessuno ha visto nulla.
- 25.02.2012 -
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