[Recensione di Mario Fresa]
Sul corpo della poesia di Emanuela Mannino (Palermo, 1976) spira un’aura di rigenerazione e di rivelazione, pronta a diventare nuova luce rafforzante, nuova rinascita riparatrice e temperante. Il suo libro più recente, Eppure (Edizioni Controluna, 2022, pp. 72, euro 11, 50), ci offre una scrittura aperta, fiduciosa, frontale che non teme di registrare con fermezza adamantina la memoria del salvato, del già avvenuto, trasformandola in energia rinnovellata, sospinta dal sogno acuto di una vicina e alta risurrezione, sia personale sia collettiva.
Qui lo sguardo del poeta, con un’assidua concentrazione, si muove in una direzione tutta molecolare ed effusiva e non indugia troppo su sé stesso: il soggetto non è in posa, nella scrittura di Mannino, perché esso guarda sempre l’altro e il fuori; e sempre si rispecchia nello sguardo del prossimo, chiedendo senza sosta un’amorosa rispondenza, un energico e vivace segnale di risposta. Ogni testo, così, non fa che attendere una viva risonanza, o un autentico risveglio che si dimostri mobile e operoso: «Sento tutto questo soffiare di fughe cieche / cieca di sonno / più non sono».
Poesia non monologante, dunque, il cui procedimento mira, senza tregua, a evocare l’instaurazione di un legame non corruttibile con tutto ciò che ancora è possibile e risanabile, avanzando, in ogni pagina, a un sentimento di umana e luminosa accettazione delle vicende dell’esistenza: «Chissà se il mondo / non cadrà nella fretta / che invecchia i fili d’erba. […] Attendere l’oro / che trabocca dai respiri pazienti del vento».
La scrittura poetica assume, allora, una potenza rituale in cui il soggetto del poeta vuole spezzare (o dimenticare, o rimuovere) il tempo dell’aspettazione e dell’illusione: sicché tutto può essere, infine, in questa prospettiva, ribaltato o ricostruito, ricondensato o consolidato; e la stessa parola forte della poesia si ritrasforma in una sorta di continua, alta ricongiunzione con tutto ciò che si è smarrito o che si è franto, perpetuando il desiderio di interdire, anche nel solo spazio di un respiro, i tetri ostacoli della finitudine e dell’irreparabile, o della finale, naufragante dissoluzione del nostro essere: «Mi hai detto ciclamino. / Eppure, l’ombra. […] Dov’è finita / la poesia del vero / oltre i chiaroscuri / del magro tempo?».
M.F.