Ci siamo già occupati della poesia di Jacopo Pellegrini grazie all’intensa lettura che ci fu offerta col precedente lavoro, In risposta al silenzio, uscito per Transeuropa nel 2019. Un’ opera che particolarmente apprezzammo per quel discorso di “autenticità e onestà” della scrittura come avemmo modo di rilevare, di più, per quella “accesa volontà di resistere” a fronte dell’inversione spirituale di un mondo senza più domande. E quest’intima disposizione alla sacralità di una richiesta che ha necessità dal basso della nostra quotidiana partecipazione la ritroviamo, splendidamente più matura, in quest’ultimo testo dedicato alla figlia Isabella, in una sorta di registrazione diaristica di una reciproca scoperta, di un amore dato perché perseguito, annunciato e poi espanso. Se nel volume del 2019 l’osservazione prendeva le mosse, anche, dallo sguardo da figlio verso la figura del proprio padre fino al coinvolgimento di un tacito accompagnamento alla figura cara di Giuseppe, il padre putativo di Cristo, qui la consegna nella trasmissione filiale e nuova della terra, nel suo reapprendimento, viene dalla piccola. Un’opera, bene sottolinearlo, nata dapprima come piccolo resoconto, piccolo processo da restituire poi più in là alla bambina, e dunque senza iniziali intenti di pubblicazione, nell’aderenza più consapevole del ricordo. E dunque ad uno sguardo superficiale, nel limite di una parola apparentemente, ma perché volutamente, più semplice, facile forse per una poesia chiusa nei propri modelli. Ebbene è proprio in questo la forza di un verso che al contrario sa raccogliersi partendo come dovrebbe, come sempre si dovrebbe, dalla natura dei propri riferimenti, senza aggiungersi ma moltiplicandosi dalla infinita risonanza delle sue voci. Voce che di qui si dilata, accerchia, respira dalle movenze veloci e sorprese, sorprendenti di una infanzia che nella scoperta di sé e del mondo strattona e riconverte dall’ombra nella figura della gioia, e dell’innocenza, e dunque smitizzando, reindirizzando a una prospettiva sempre nuova di crescita, di condivisa e creativa responsabilità degli accenti le congelate aspirazioni degli adulti. Così è come una danza di piccoli passi nel cerchio di infinite traiettorie cui Pellegrini ci coinvolge, padre da ogni lato racchiuso, aperto, nominato nella sua nuova identità di uomo, attento a farsi riscrivere da una poesia che è della figlia nella libertà dei suoi accessi. Ci scrive infatti nella prefazione: “gli istanti con lei sono istanti eterni, un tempo che si innalza e mi innalza, che scorre e si trattiene”, in un esercizio della parola fedele a quell’inciso della Bespaloff da lui riportato di riscatto della visione del mondo dato dalla storia non più come mera “successione di fatti” che allontana “l’uomo dal significato più vero dell’esistenza” aiutando allora a “scoprire, e forse capire, l’essenza della vita”. Il mondo, la terra di certo più semplice riportata alla relatività, e alla magnificenza dunque delle sue prospettive come nel bell’andamento alla Rodari sull’altezza del papà:” “Qual è il millimetro di passaggio/tra basso e alto?/È alta la pratolina/per la formica,/il pero per la rosa,/il divano per il bassotto,/condannato dal nome”. Il canto allora si fa lode in omaggio al tempo da lei fatto conoscere, a quell’istante quotidiano per cui ringrazia il Signore, nel suo rammentargli che “la vita è un continuo presente” nella manifestata aderenza dei suoi elementi. Così poi è il padre nell’assunzione della cura e della custodia, del suo sapersi transitorio a lasciarsi ora raccontare e ora condurre nei luoghi del suo superamento (appunto fermo nel “difetto di non capire che conoscere/è solo sempre un tendere/a Dio”). Un dettato anche per questo per cui andiamo a ringraziare nella stasi di una terra che stenta a riapprendersi ma la cui analisi andiamo a sospendere volentieri rimandando come giusto alla tenera coralità delle sue suggestioni affinché lei, Isabella, un domani possa capire “che la felicità/ha vissuto in questa casa/con il tuo nome”.