Antonio Spagnuolo porta avanti il suo “canzoniere dell’assenza” (per citare il titolo di un suo libro del 2018), dedicato alla scomparsa e alla memoria della moglie. Anche il titolo di questa recente raccolta, Ricami dalle frane (Oedipus, 2021), richiama la condizione emotiva ed esistenziale del poeta che, dalle macerie in cui si trova la sua vita dopo la perdita della persona cara, continua a scrivere. Così, leggiamo: “Questi quattro versi che rincorro ogni giorno / sono soltanto l’urlo del lupo mannaro / che alberga nelle mie circonvoluzioni cerebrali. / È lo strappo che lacera memorie: un incidente a quadri variopinti / stretto ai denti, che del sangue hanno parole” (p. 30). Qui i riferimenti sono tutti corporei, “circonvoluzioni cerebrali” e “sangue”, come spesso nella materica e carnale scrittura di Spagnuolo, che si gioca nell’immanente condizione terrena degli umani: nell’ultima pagina, una stanza del Nuovo registro finale, nel quale i versi si allungano a occupare quasi tutta la larghezza della pagina, proprio Carne s’intitola: “Ho lacerato la carne stringendo fra le labbra il non senso della mia illusione” (p. 84). E nell’ultimissimo verso della pagina, in un componimento il cui titolo, Onde, riprende un’immagine già comparsa prima, il poeta scrive: “Le stagioni hanno le disarmonie per le assenze e non saprai distinguere il fondale”. La materia, le onde, è allo stesso tempo in qualche modo materiale e spirituale tanto da dissolversi nell’assenza. Tuttavia prima avevamo potuto leggere che “le parole dell’anima […] hanno il crepitio / del fuoco incandescente” (p. 61). Alle circonvoluzioni cerebrali, di cui sì è detto prima, si accompagna allora il riferimento all’anima da cui provengono le parole, e dunque i “quattro versi” quotidiani. Ciò tuttavia non servirà a riavere la persona amata, Non ritorni s’intitolava una raccolta del 2016, e, nell’attuale precarietà, non si può che disperatamente riconfermare quell’irreversibile assunto: “Inutile aspettare il tuo ritorno! / Sfioro il marmo che ha chiuso il tuo sorriso / e i polpastrelli bruciano al contatto. / Sto come una tenda che il vento / da un momento all’altro porta via” (p. 63). Anche in questo caso è un riscontro materiale e corporeo a trasmettere il senso, e la sensazione, d’una impalpabile assenza: il contatto con il freddo bruciante del marmo.
Bruciante è anche il ricordo della sensualità, che è in realtà è ancora percezione viva e dolorosa, dolorosa perché negata nel presente. Il primo testo della silloge è, fin dal titolo, ripresa di Catullo: “E ancora baci! / ancora più di mille, / se l’apostrofo rosa ha le vertigini / tra le parole t’amo” (p. 5). Se questi sono i primi versi del componimento d’apertura, ecco come si chiude. “E ancora baci, delicatamente a sfiorare / il freddo della tua magia / che modella di nuovo le dita all’illusione”. Quest’ambivalenza, tra allora e sempre, e la consapevolezza di un hic et nunc invece diverso, ci vengono testimoniate ancora oltre: “Forse, / per le ombre serali ancora incerte, / il desiderio ha il segno che ci morse / d’eterna gioventù, ma ora è inganno” (p. 57). Il poeta però non resiste, pur nella consapevolezza dell’impossibilità del ritorno, a cercare di fermare per sempre ciò che è stato, tornando agli albori del sentimento e della storia d’amore: “È stato bello! / I tuoi quindici anni / avevano il riflesso di eliotropio, / il sussurro delicato di vaghezze / non ancora assaporate, ma sfrecciate / al verdeazzurro dei miei desideri” (p. 17). Quella che qui è delicata aspettativa diventa pieno erotismo, che, nell’amore, conserva una sua tenerezza pur nell’esplicitezza del lessico e delle situazioni: “Al delicato tocco del clitoride / la tua caverna dischiude impertinente, / nel gioco di vertigini e carezze / pur di aprire all’airone” (p. 49).
La raccolta però si apre anche ad altre tematiche, con componimenti che, nello scorrere delle pagine, si alternano a quelli dedicati alla donna amata e perduta. In un testo, Memoria e natura (p. 16) la memoria personale s’intreccia cosmicamente con il tema “di una natura contaminata e tradita”. O ricompare un tema religioso che s’affaccia dolentemente anche in altre raccolte di Spagnuolo, ma sempre problematicamente; e qui leggiamo, in una laica preghiera che pure s’intitola Ave Maria, un’invocazione alla vergine “fanciulla dei vangeli”: “Illumina l’alito innocente / che strappa con ardore il tuo mantello, / nell’illusione del celeste invito, / nella passione di un Cristo abbandonato / alla Croce, incenerita nell’ombra” (p. 45).: C’è spazio anche per la quotidianità più prosaica, come in Pazienza diurna (p. 66), dove si fa riferimento a una bestemmia scappata per un contrattempo in banca, ma anche in questo caso il rifugio è la poesia: “L’autodeterminazione alla fine serve a qualcosa: / è un motivo per citare abbinate e terzine / così come riecheggiano in poesia, / che in fine è destinata essenzialmente / al marginale: un’attività limite, per quanto solitaria, / etica quanto vuoi, su cui si fonda / lo sforzo!”. In realtà, qui il riferimento al fare poetico sembra avere un che di (auto)ironico. Sfumatura che scompare in Parola (p. 71), nella quale appare un verbo, “ricama”, che si fa sostantivo nel titolo stesso della raccolta, appunto Ricami dalle frane, e che dà l’idea del testo come tessitura, come ordito che, pur nel dolore, cerca la bellezza:
Come l’esplosione di un fiore la parola
ha un lungo laccio che ricama passati,
come un fossile rimane traccia di echi,
più non è canto nei riverberi del giorno,
nel rosso di ferite, ma stormire variegato.
Cerchiamo la parola che da sé non si presenta,
annodata al germoglio di un fecondo schermire.
Immergersi per un cambio mutilante
di un rendiconto che ammicca nel silenzio.