Pubblicato il 12/01/2012 16:52:25
LA FAGGIA DI MARIA LUIGIA
Stava là, al limitare di un prato tutto valloncelle, cocuzzoli e bide di vacca, sopra a Gropsius. Stava proprio là, al limitare di quel prato tutto valloncelle e cocuzzoli che profumava l’aria di timo serpillo ed era una mostra a cielo aperto di tutti i fiori che sarebbero comparsi anni dopo sul tabellone della flora protetta in provincia di Parma. Era una gran femmina d’albero piantata su dei fianchi larghi e forti da ottima fattrice. Ed aveva intorno una gran gonna d’ombra e tanti figlioli, un piccolo bosco personale al limitare del bosco di tutti, un bosco tutto nato da lei, creato da lei, come se l’avesse plasmato con le sue enormi e lunghe mani grigie dalla pelle d’elefante. La stessa pelle le ricopriva il gran corpo e dentro, sotto – lo s’indovinava vedendo la polpa affettata del tronco di qualcuno dei suoi figli uccisi, fatti della sua stessa pasta – doveva avere una carne rosa e compatta, stagna e levigata come quella che gonfia la tetta di una madre che allatta. Ecco, da quella gran madre erano arrivati un giorno con carrozze e cavalli, e due servi le avevano sciorinato sotto un’immensa tovaglia di Fiandra punteggiata di fiori lilla ricamati a punto pieno, che gareggiavano in bellezza e verità con le genzianelle e le scille bifolia messe in mostra dal prato circostante. Poi, da alcuni grandi cesti, avevano cavato l’occorrente per un déjeuner sur l’herbe degno, né più né meno, di colei che quel giorno chiedeva ospitalità alla gran dea del bosco: la Duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla, precisamente Sua Grazia Maria Luigia d’Austria, insieme al suo uomo, il conte di Neipperg. In libera uscita. Finalmente soli e lontani da una corte pettegola e da una famiglia occhiuta, che li costringevano a fingere continuamente un doloroso, reciproco distacco. E del resto, la di lei provvidenziale vedovanza non era ancora giunta a liberarla da quel legame tanto ingombrante quanto, forse, indesiderato, di cui tutti sappiamo. Si erano arrampicati fin lassù il giorno prima, e avevano passato la notte a cà d’Reinardt, alto ufficiale di guarnigione della Duchessa, che, ormai a riposo, aveva preso pozione proprio in quella landa, innamorato come s’era di quei prati soffici su cui i cavalli potevano trottare e galoppare in lungo e in largo, durante passeggiate interminabili, senza sfiancarsi o spezzarsi i garretti. Poiché col vecchio, alto, possente, dall’occhio grigio e romantico, che teneva concentrato il suo pelo residuo e ormai bianco in due grandi scopettoni alla Cecco Beppe, intrattenevano un rapporto di completa confidenza, avevano potuto chiedergli di far preparare per loro la stanza del cavallaro, dove sgattaiolare indisturbati, dopo aver preso possesso, ufficialmente e coram populo, delle due solite camere separate. Era stata una notte dolcissima. Avevano scostato le tende e lasciato che la luce della luna rischiarasse appena le loro bianche nudità appassionate. Al mattino Reinardt - come se il desco della colazione fosse una di quelle tavolozze di pittore provetto che vengono acquisendo nel tempo, del tutto casualmente, una loro deliziosa armonia cromatica, se non addirittura, al pari delle opere vere e proprie, un loro senso e valore artistico ed estetico, che inevitabilmente cattura lo sguardo e l’attenzione di chi abbia l’avventura di visitare l’atelier del sapiente artigiano - aveva fatto trovare sulla grande tavola la sua conserva di lamponi d’un cupo amaranto, la composta di mele cotogne biondo scuro e trasparente come purissima ambra delle foreste del Nord, il pane di segale col suo vellutato marrone tabacco insieme al burro d’un giallo grasso, fatto col latte delle sue vacche, profumato di timo, muschio e violetta. E poi l’oro di tisane fumanti, l’arancio squillante della marmellata d’albicocche sulla crostata ancora calda di forno, il castano scuro e profumato della squisita cioccolata al cucchiaio… Sapeva bene che cosa piaceva alla signora, austriaca come lui, e più di tutto aveva a cuore di procurarle ogni possibile agio. Vista la fiducia che gli veniva accordata, poi, era anche in condizione di prendersi una qualche licenza, così, sentendo dell’intenzione della compagnia di sgroppare per i boschi tutta la giornata e di consumare perfino la colazione all’aperto, s’era permesso d’esprimere una sua preoccupazione: “ Voi lo sapete, signora, una passeggiata tanto prolungata può causarvi un’eccessiva stanchezza, e questo non giova ai vostri nervi del capo…”. Non solo, aveva anche osato ribattere, nonostante un gesto di evidente fastidio della Duchessa: ”Mi permetto d’insistere, Vostra Grazia…sarebbe più prudente tornare per il mezzodì, questa è zona ventosa, basta poco perché il cielo si copra di nembi…”. Due ragioni, anzi, no, due sentimenti che con la ragione avevano proprio poco da spartire, lo tormentavano con quelle preoccupazioni e lo spingevano ad osare tanto: uno era l’amore segreto, inossidabile, un amore da tedesco, cerebrale e costante per quella donna dal collo di cigno e gli occhi slavati ma così dolci da fargli sentire le ginocchia di pattona ogni volta che, per qualche raro gesto di regale degnazione, li lasciava vagare, con la quiete indifferente dell’acqua dei canali della bassa, sul suo volto e su tutta la sua persona; e l’altro una gelosia, invece, del tutto mediterranea, italica – il vecchio aveva nell’albero genealogico un paio d’ave venete, certo niente di esageratamente levantino, ma che era bastato a scaldarne il sangue crucco –, una gelosia tormentosa e matta, aritmica e dispettosa per l’uomo dall’occhio maffone, divenuto ormai l’ombra della “sua” duchessa. Non che non lo stimasse e non ne apprezzasse le doti d’uomo d’armi, per carità, o che non cercasse di soffocare il tutto sotto montagne di ragioni sacrosante… è che quell’uomo gli aveva rubato il suo sogno, ecco tutto, glielo aveva sfilato di soppiatto, alla traditora, come un volgare borseggiatore dalla mano passerina, proprio mentre lui era lì che lo contemplava, lo curava, lo covava giorno dopo giorno, aspettando che arrivasse, per quel suo sogno, il magico momento della schiusa. Allora, il poveretto stava relativamente bene, cioè controllava meglio gli uzzoli, i ghiribizzi e gli spricci che gli facevano pirlare il cuore di qua e di là, come fosse uno di quei galletti segnavento che certuni issano sul tetto delle case, solo se poteva avere sotto gli occhi i due fedigrafi. Nel momento in cui li vedeva, infatti, era certo che lui non la toccasse, e che non l’avrebbe toccata per tutto il tempo in cui sarebbe durata la loro prossimità. Quando invece essi si trovavano fuori dal suo campo visivo, la misera mente del povero Reinardt veniva assalita da fantasie terribili, vere e proprie scene di un erotismo, per lui, feroce e disperante, e la sua immaginazione s’incaponiva a lavorare ossessivamente attorno a quell’unico oggetto senza soluzione di continuità. “ Ma caro Reinardt, via… noi guardiamo con condiscendenza alla devozione e all’affetto verso la nostra persona che vi spingono all’insistenza, ma spero non vorrete gettare cattivi auspici su un giorno che si annuncia foriero dei più dolci piaceri…”. E così dicendo la Signora si era avviata, mal celando una certa impazienza e lasciando il vecchio in balia delle sue impietose fantasticherie. Intorno alla sontuosa tovaglia, che lei stessa aveva ricamato nelle lunghe e quiete giornate che ogni anno trascorreva nell’amatissima villa di Sala, sotto alla faggia, erano stati sistemati degli scialli colorati, a lunghe frange, anch’essi a fiori, a grandi corolle e ramages dal sapore vagamente orientale, su cui i componenti la piccola corte avevano preso posto. Con discreta disinvoltura i gentiluomini, con qualche impaccio, dovuto alle ampie, lunghe e pesanti vesti, le dame. Tutti, comunque, lo avevano fatto con grande piacere perché, se da un lato la passeggiata mattutina, assai lunga, li aveva deliziosamente corroborati, dall’altro, essendo stata causa di un notevole dispendio di energie, ne aveva stimolato l’appetito. Eppoi, soprattutto le signore, avevano la necessità di sistemare foglie e fiori, raccolti nel bosco, nei piccoli torchi per l'essicazione che le avevano seguite fin lassù, o di dare un ultimo tratto di lapis agli abbozzi di paesaggio ripresi durante l’escursione, o, ancora, di aggiungere il pensiero ultimo nato sul taccuino di viaggio. Ma tutti, proprio tutti, sentivano fortissimo il desiderio di adagiarsi su quel grande prato profumato, che, con tutte quelle valloncelle e quei dolci declivi, mostrava un profilo sinuoso, attraente e sensuale come un corpo di donna, di volta in volta amante dai seni e dai lombi prosperosi, madre dal grembo ampio e accogliente, o ancora fantasmatica ninfa di scultorea opulenza. C’era in tutti un languore dolce, un diffuso buon umore e, fin da subito, la conversazione aveva preso a fluire pacata e leggera come la brezza di certe notti di maggio che, oltre a un gradevole refrigerio, porta già con sé il primo, inebriante profumo dei tigli. La Signora, com’era suo costume, più che altro ascoltava, limitandosi a concedere, di tanto in tanto, cenni del capo, o abbozzi di sorriso, o ammiccamenti lievissimi, che avevano la funzione di una vera e propria regia di tutta la situazione e dell’atmosfera che doveva regnarvi. I suoi gesti erano come sempre estremamente controllati, improntati ad una pacatezza quasi ostentata, ma gli occhi tradivano, quel giorno, una certa irrequietezza, quasi un nervosismo che sciupava appena il clima davvero perfetto di quella giornata felice, così come la prima ruga scuote un poco la baldanzosa certezza del proprio fascino nella donna che la scopre sul suo volto, intatto fino al giorno prima. Si parlò di musica - e tutti furono attenti a lodare Bellini e Rossini, tralasciando di nominare “quel Verdi”che, insomma, la Duchessa proprio non voleva convincersi ad amare: “… sarà Bellini a restare, Verdi passerà…” aveva sentenziato nel suo solito modo, diremmo oggi, un po’ telegrafico -, di cucina – e i sapori, i profumi e perfino i colori di casa Reinardt furono descritti con tale dovizia di particolari ed esaltati a tal punto che il vecchio avrebbe potuto certo compiacersene -, dei nuovi alberi e delle nuove rose che la Signora aveva fatto mettere a dimora nel parco di Sala e, infine, le dame ragionarono tra loro di ricamo e i gentiluomini d’affari e politica. Non ci si soffermò su nessun argomento, ogni tema venne trattato in … toccata e fuga. E, del resto, così desiderava Sua Grazia: l’insistere, l’approfondire, lo scontro dialettico, la vis polemica, la vivacità di un appassionato contraddittorio avrebbero turbato quella quiete, quella pacatezza, quel giusto distacco dalle cose in cui lei desiderava rimanere immersa il più a lungo possibile, considerandoli valori supremi, le uniche strade lungo le quali l’uomo poteva incamminarsi per ricercare non certo la felicità – e pronunciando questa parola le sue labbra si piegavano appena in una lievissima smorfia di amaro disprezzo – ma, almeno, appena un lenimento alla pena di vivere. Solo un momento minacciò di segnare qualche picco nell’elettroencefalogramma pressoché piatto di quella conversazione, e si trattò del racconto, per così dire, di una vicenda vissuta, ma questo, la Signora, poteva tollerarlo, anzi, si può perfino azzardare che, durante simili narrazioni, provasse addirittura un qualche piacere. Sotto sotto era avida di conoscere le vite altrui, i sentimenti, le passioni, le volontà, e gli accadimenti che il caso orchestrava, riempiendo il mondo di dissonanze, di volta in volta, grottesche, ridicole o patetiche. Ascoltò dunque, con evidente interesse, ciò che uno dei gentiluomini, intimo del suo cavaliere d’onore e brillante conversatore, andava raccontando. Era costui uomo assai liberale, che amava avvicinarsi alla gente del popolo, ascoltarne gli umori, le vicende e i punti di vista: lo stupivano, per prima cosa, l’originalità e le differenze, talvolta davvero abissali, tra questi e quelli espressi e vissuti dagli uomini appartenenti al ceto privilegiato di cui lui stesso faceva parte. Non che quel signore coltivasse un profondo interesse e un’autentica adesione umana per le istanze populiste, questo no: ciò che lo muoveva, in realtà, era, per così dire, oltre alla necessità di combattere la noia, lo spirito del collezionista. Egli raccoglieva, ordinava, catalogava vicende vissute, momenti di vita umana, rapinandoli a chi era meno attrezzato per proteggere la propria storia, a chi, anche in questo, risultava più debole. Ora, si sa, ogni collezionista che si rispetti ha come obiettivo di accumulare il più possibile, di acquisire grandi quantità di ciò che colleziona, anzi, in cuor suo, spera sempre di arrivare a possedere tutti gli esemplari esistenti al mondo dell’oggetto che lui ha scelto di raccogliere. Un collezionista di pipe non abbandonerà mai la speranza di poter possedere un giorno tutti i tipi di pipe esistenti sull’orbe terracqueo, e così dicasi di un collezionista di selle o di prassinoscopi. Ma, se il raccoglitore di prassinoscopi può avere buone probabilità di riuscire a raggranellare, nel tempo della sua vita, tutti i tipi esistenti al mondo di questi rari, curiosi e davvero magici oggetti, non altrettanto si può dire di colui che colleziona racconti di vita, vicende vissute… eppure, l’idea è davvero affascinante, dà come una vertigine, non vi pare? Allora, il gentiluomo si mise a raccontare di un certo taglialegna di sua conoscenza, nativo proprio di quelle parti, che aveva una mano deturpata da un’orrenda cicatrice. Interrogandolo, era venuto a conoscenza di un nuovo, curioso teatrino che il caso si era divertito ad inscenare. Era accaduto che il poveretto, mentre era intento al suo lavoro di tagliaboschi, s’era segato completamente un bel pezzo di pollice e, mentre se lo guardava urlando come un pazzo più per l’orrore di quello slubio di sangue che per il dolore, un gatto si era avvicinato furtivo alla zocca, aveva preso in bocca quel tocco d’uomo come fosse coratella o rifilatura d'ossi di maiale e se l’era rapidamente ingollato proprio lì, sotto i suoi occhi. Il tapino sosteneva che, di tutta la storia, la cosa che più lo aveva avvilito, che aveva spento di botto tutto il dolore e l’orrore per il sangue e la ferita, era stato il pensiero d’esser mangiato da un gatto, il pensiero che un pezzo di lui stava adesso nella pancia di un gatto, e che lui, dunque, sarebbe diventato un po’ bestia, una bella bestia, agile, elegante, furba, sì, ma anche un po' escremento della medesima… Dio mio, diceva, un pezzo d' uomo che finisce così! Quanti commenti aveva suscitato nell’uditorio la stramba riflessione del taglialegna… e l’arditezza del linguaggio necessario a narrarla… Intanto, il tempo, notoriamente infingardo, aveva tentato, come sempre, di far perdere le proprie tracce, ma gli esseri umani e le cose, anch’essi come sempre, avevano invece messo grande impegno per rivelare i segni del suo passaggio. Ora, ormai alla fine del buon pasto, le gote delle signore s’erano fatte più rosse di quando ancora non una goccia di Sauvignon fresco dei colli di Sala aveva violato quelle candide gole, le ampie gonne di foggia adeguata alla cavalcatura femminile apparivano un poco più gualcite di quando erano uscite dalle confortevoli camere di casa Reinardt, qualche ricciolo più ribelle degli altri aveva trovato il modo di sfuggire alla costrizione delle graziose cuffie o degli eleganti cappelli, tutti rigorosamente alla sportiva, cioè alla francese, adeguati, insomma, all’avventura en plein air. In più, nonostante il sole brillasse convinto nel cielo terso e solo qualche nuvola leggera e bianca come piuma d’oca galleggiasse qua e là, l’aria si era raffreddata, e adesso pizzicava impertinente la pelle delle signore, che si erano concesse abiti già un poco leggeri, confidando in quella primavera ormai piena e decisa. Ma tutto, fino a quel momento, aveva proceduto nel migliore dei modi, e in più d’un frangente il piccolo corteggio era sembrato un coro che cantasse a più voci con perfetto tempismo, sotto la direzione di Sua Grazia: voci femminili limpide e fresche in controcanto a quelle cupe e calde degli uomini avevano lodato il luogo con osservazioni non prive di slancio poetico e in piena armonia, riservando il finale, in un raffinato pianissimo, alla Signora, che così si era espressa: “ Non c’è piacere più dolce che starsene qui, all’ombra di questa maestà boschiva, e lasciare lo sguardo libero di vagare su questo verde che riposa gli occhi e la mente”. Mentiva. Da ore pensava che proprio lì avrebbe potuto concedersi un piacere ben più dolce e più forte di quello. Il corteggio sciolse i ranghi e si avviò a perlustrare il bosco intorno alla faggia. Servi e cocchieri riordinarono e si disposero, ad un cenno della Duchessa, a vegliare sulla sua augusta sicurezza e tranquillità, in modo tale da aver ben sotto controllo il territorio intorno e tutto ciò che poteva accadervi, ma anche da non turbare con sguardi e controlli indiscreti la sua libertà d’azione. Una sorta di gioco del nascondino in cui doveva essere sempre lei a vincere. E proprio una specie di nascondino lei se lo giocò anche col suo conte, là, sotto la faggia, che, da buona femmina amorosa, comprese e si fece lietamente complice della coppia d’amanti. Giocò, gaia e scherzosa come una ragazza, finalmente libera come il vento, giocò e rigiocò, con le gote che via via si facevano stranamente più pallide, bianche al pari degli anemoni selvatici che a migliaia trapuntavano il verde d’intorno, giocò e rigiocò fino a quando un desiderio d’amore forte e sgarbato come un’onda che ti fa bere non l’abbatté su quel prato, vinta e ansante. Il conte sciolse con le dita tremanti i nastri che, annodati sotto il bel mento candido, trattenevano l’elegante copricapo azzurro della sua donna e tuffò le mani ansiose nei suoi ricci scuri. Poi, mentre un silenzio alto e quasi solenne, appena turbato soltanto dallo sbuffare dei cavalli, legati ad alberi lontani, regnava sui prati, sulla selva e sulla matrona dalla pelle d’elefante con la sua figliolanza, lui la prese e la strinse a sé con tutta la forza di una passione troppo a lungo compressa. E durante il lungo e tumultuoso duello d’amore, essi si appoggiarono più e più volte al possente tronco della grande diva del bosco, che sostenne benignamente i loro corpi, altrimenti destinati a crollare miseramente sotto gli assalti di un desiderio quasi ferino. E quando, esausti, si lasciavano cadere, a poca distanza da lei, sul prato, sontuosa alcova che li inebriava di profumi e di colori, parevano cervi o lupi, o una coppia di grandi rapaci in amore, a volo radente. Essi sembravano godere, oltre che dei loro stessi corpi, anche di quella vita vegetale che, robusta e dolce ad un tempo, permetteva loro di possedersi in un’esaltante verticalità o di provare il tenero abbandono orizzontale di un momentaneo riposo. “Quando ancora, mio bene… quando ancora così… dimmi…” sussurrò la Signora con gli occhi accesi e le guance che s’erano fatte di fuoco, anzi, no, che avevano assunto proprio lo stesso rosa intenso delle orchidee selvatiche, dai sensualissimi ricettacoli, la cui forma richiamava quella delle segrete labbra femminili, e che facevano corona al suo bel capo adagiato sull’erba, arreso ad un abbandono struggente. Mentre il conte le rispondeva posandole baci lievi come voli di farfalle qua e là, disordinatamente, sui capelli, sulla punta del naso, sulle palpebre, con una sorta di allegra frenesia, il cielo cominciò ad annuvolarsi. Le piccole nubi candide e leggere che, fino a quel momento, erano parse del tutto innocenti, in men che non si dica cambiarono faccia, ridipinte di grigio piombo, con diabolica velocità, da un vento che si andava facendo via via più rabbioso. Si scatenò un putiferio. Tuoni, fulmini e saette, una gran guerra voluta dal cielo che, insieme al vento forsennato, cominciò a sparare gocce che tambureggiavano come pallettoni da cinghiale. Ebbero appena il tempo di ricomporsi. Presto fu tutta un’agitazione, un richiamarsi l’un l’altro, un correre e un mescolarsi di respiri affannati e parole impaurite. Non c’era altro da fare che stringersi al gran tronco della faggia, rintanarsi sotto il suo enorme ombrello. La Duchessa diede ordine di ricondurre tutti, dame, gentiluomini e cavalli, al riparo tra le formidabili braccia aperte della grande madre. Se anche il cielo sdegnato avesse voluto colpirla con uno dei suoi terribili dardi di fuoco, lei certamente avrebbe saputo reggere il colpo. Possedeva una chioma tanto fitta e ampia, sorretta e innervata da così possenti tendini e muscoli e gangli da potersi permettere anche più d’una mossa di sacrificio. Poteva permettersi di non temere nulla, d’attendere a piè fermo l’attacco, addirittura di tirare a cimento i diavoli della volta celeste. Il potere distruttivo del fulmine non avrebbe resistito fino al punto d’arrivare vicino al gran corpo, là dove si stringevano i suoi protetti tremanti di paura e di freddo per gli abiti bagnati e sferzati dal vento. L’energia rabbiosa del cielo si sarebbe esaurita prima, catturata e consumata nel corpo a corpo con la polpa soda e forte delle spesse estremità delle altissime braccia. Fu poi la volta della grandine. Mai vista così. Proiettili grossi come uova di gallina. Ov cot a balot* già sgusciati, sodi e bianchi che erano una meraviglia. Ma ti spaccavano la testa e le orecchie. Ben presto i prati furono coperti da uno spesso strato di uova di ghiaccio spezzate, come se quel luogo della terra fosse stato scelto da una genia di giganti, in vena di preparazioni culinarie, come vassoio su cui offrire ai propri simili e sodali la più gran frittata che voi possiate immaginare. E veniva quasi da aspettarsi di vedere arrivare, da un momento all’altro, oltre che quei particolarissimi commensali, anche le migliaia e migliaia di bianche pollastre da cui avevano ottenuto la materia prima per l’incommensurabile frittata. C’era, infatti, da una parte del cielo, un gran bianco abbagliante, ma proprio da lì, anziché un volo di nivee pollastre, arrivò, in un gran fragore di enormi marmitte e coperchi sbattuti gli uni contro gli altri, come se, adesso, la cucina dei giganti fosse ubicata in cielo e non più in terra, un fulmineo, obliquo torrente di fuoco che, dopo aver spaccato il cielo in due, andò a scagliare tutti i massi puntuti che spezzavano il suo percorso addosso al primogenito della faggia, cresciuto, per il capriccio di uno scoiattolo, ben più lontano dalla madre di tutti i suoi innumerevoli fratelli. Il povero ragazzo ne uscì, per buona ventura, con il ramo maestro schiantato solo in parte e, quindi, non vinto. Così si esaurì la furia del cielo e, come rapidamente era arrivata la guerra, altrettanto rapidamente tornò la pace. Così si comporta la natura, diversamente dagli uomini. Reinardt che, cattivo di gelosia, stava facendo trottare i servi per la preparazione della cena e delle stanze per la notte, prese quella tempesta come una liberazione, sia perché era certo che avrebbe interrotto i languidi abbracci dei due amanti, sia perché gli dava il destro per buttarsi su un cavallo e correre pancia a terra dalla sua Signora. Così fece e, quando li incontrò, incamminati da poco sulla via del ritorno, subito comprese che, come sempre, la sua sciagurata immaginazione aveva compiuto un perfetto lavoro di costruzione della realtà: gli bastò notare la luce negli occhi di Sua Grazia… Per un po’, subito dopo il ritorno della pace, la piccola compagnia era rimasta in silenzio, le signore rassettandosi, gli uomini dandosi d’attorno coi cavalli e i bagagli. Poi era stato tutto un fiorire di commenti eccitati, e nelle voci c’erano il sollievo e la gioia per lo scampato pericolo. La Duchessa guardava intensamente Neipperg, le tremavano un poco le labbra e le mani. All’improvviso annunciò che era sua intenzione, appena ritornati in città, di emanare un’ordinanza in cui si sarebbe fatto assoluto divieto, a chiunque e per qualsiasi motivo, di toccare la grande faggia, la cui importanza, dunque, sarebbe stata da considerarsi alla stregua di quella delle vestigia più significative di tutto il territorio parmense. A tarda sera, una volta rientrati a cà d’Reinardt, nella solitudine della stanza del cavallaro – sarebbero ripartiti per Parma l’indomani mattina – in un’atmosfera di tenera confidenza, la Duchessa disse: “ Perdonami, mio bene, l’impulso di quell’annuncio, spero tu abbia compreso la ragione vera che mi ha spinto…” Il conte rimase in silenzio. “Non dici nulla… ti ho forse contrariato per non averti messo a parte di ciò che andavo meditando?” “No, credo… credo di aver capito… e comunque non avremmo avuto modo di appartarci per parlarne…” “Quel che dici mi toglie dall’angustia… ascoltami… e confidami se anche tu hai avuto il mio stesso pensiero. Quell’albero ci ha protetti, forse addirittura salvati, da una terribile fine… ma c’è di più, in quel bosco, appoggiata a quel tronco io… ah, non voglio dire oltre… tu mi conosci… sì, posso pronunciarla, adesso, la parola felicità… ma basta. Ecco, quell’ordinanza sarà una mia lettera d’amore per te, una lettera d’amore ufficiale e perenne, consegnata alla nostra gente e ai posteri…perché chissà quando, sai, chissà quando – io talvolta dispero – arriverà il momento in cui potrò dirti a voce e a testa alta ciò che tu meriti e che io desidero dirti con tutta me stessa… ecco, mio caro, che cosa mi ha spinto, che cosa mi ha fatto fretta…” Dunque, quel giorno, a diverso titolo, si sarebbe impresso indelebilmente nella memoria di tutti: una perigliosa avventura a lieto fine per dame e gentiluomini, una sconfitta definitiva per il vecchio ufficiale innamorato, buon pane per i denti del nostro collezionista di storie che – chissà, forse è anche grazie a lui che colori, suoni e sapori di quel giorno sono arrivati fino a noi – avrà certamente indagato per rendersi perfettamente edotto anche degli avvenimenti a latere, e una fatica in più per segretari e scrivani di Sua Grazia, chiamati al delicato compito di redigere un documento tanto importante. Eh sì, vedete, non erano ancora i tempi dei cuori trafitti incisi sulle cortecce o sbordacciati dappertutto, non foss’altro perché il turismo di massa era ancora di là da venire… Eppoi, forse, a quei nostri cari trisavoli difettava un poco la capacità d’astrazione, e, soprattutto, non avevano proprio nulla a che fare con la virtualità: pensate a Napoleone, che, nel testamento, aveva destinato a Maria Luigia il suo cuore – quello vero, di carne e di sangue - con la prescrizione che lei tenesse sempre vicino a se l’urna che lo conteneva, o a tutte quelle ciocche di capelli di figli e amanti intrecciate in braccialetti e ghirlande regolarmente indossati o gelosamente conservati a vista… Un’ordinanza, una bolla “a ricordo” era dunque quasi poca cosa, certamente “cosa” più sobria e più astratta di cuori e capelli! Ad ogni buon conto, se andrete all’Archivio di Stato di Parma, dovreste trovarla la grida della faggia… Quanto a lei, la grande alberessa, è ancora là, più grassa e con la pelle d’elefante più rugosa, al limitare del prato tutto valloncelle e cocuzzoli, sopra a Gropsius: la gente del posto consiglia di portarsi a casa una sua ghianda e metterla a germogliare, pare che porti bene.
* Uova sode
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