Esordio all’insegna di una ricercata luce, di una lotta tra le chiusure e le contraddizioni del proprio mondo interiore e di una contemporaneità comunque ossessa, impenetrabile, respingente questo di Antonio Ficili, giovane universitario palermitano. Nell’insieme di poesie, soprattutto, prose, aforismi e pagine di diario il tentativo nella registrazione delle proprie scosse, delle proprie paure è quello di un progressivo e più mite abbandono, nella dimenticanza quasi di sé dai cortocircuiti della coscienza, a una natura benigna, illuminata e illuminante tra le pieghe delle sue quotidiane e creaturali epifanie. Così appare evidente nel corso della lettura come una spaccatura, un solco nelle diverse sezioni che vanno a comporre il testo, tra il rovello di un passato non concluso, di opere ancora al buio cui la parola tenendo dietro si perde e l’apparire di un presente più libero, serenamente gioioso negli spazi sorgivi di un incantamento sempre di rivelazione a un’anima purissima come quella che pian piano si viene a disegnare, in una versificazione anche, per questo, nella armonia di una cadenza legata all’umiltà di un qualcosa che ragazzo, fanciullo, non può controllare ma solo, a tratti francescanamente, accogliere. Si diventa mare lasciando che l’onda plasmi per noi l’involucro, la barca nell’assenso a una navigazione che può la vita là dove la vita stessa è accompagnata, nei suoi scogli e nei suoi contrasti, negli orizzonti delle sue aperture e delle sue correnti, e non subita. Ficili questo, nel diario di bordo delle sue uscite, lo apprende bene seppure come è naturale con sofferenza, con tentazioni certo di regressioni e respingimenti a volte, ma sempre nell’imprinting di una passione inviolabile, quella di una vitalità votata all’incontro perché riconosciuta nel disceso e più alto amore di cui è parte, e di cui la poesia non ne è che nostalgia nel presente del suo ricordo. Molto ha della metapoesia tra l’altro questa scrittura che però in questo spesso va a peccare non supportata ancora da quel necessario distacco che il dire abbisogna riflettendo sulla propria natura. Anche in questo caso, disancorata dagli ormeggi delle suggestioni e dei modelli che più che dire ne negano l’autenticità, questa poesia sa risolversi nella spoliazione, nello sguardo a quella rappresentata scena di mondi che dalle piante, dagli animali, dal mare stesso va a esemplificare ai suoi occhi quel paesaggio di risolta espressione- ed espansione-che viene come nei bambini nel dialogo di meraviglia e stupore col divino (“Dio? A Dio vorrei somigliare./ Come gli somiglia l’ombra, il profumo,/ la morte, il pane. E ritornare/: sabbia, sangue, acqua. Mare? Diventare./ E diventare mare, trasparente/ sentiero nei suoi occhi; e sollevare/ Dio, con la forza di una parola;/ e ritornare, e diventare./ Infine, essere”). Espressione allora che va a trovare compimento nel dire a due con l’amata Miriam, l’amore allora nell’indovinata unità della sua compiutezza. Amore cui la parola stessa si va a piegare maturando in Ficili in un percorso cui in conclusione auguriamo tutta la cura che merita in quel coraggio tanto evocato, tanto carezzato che viene dal restare bassi nella pazienza allora di se stessi, e del mondo imparando “a respirare l’invisibile”.