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Lontano dagli occhi

Romanzo

Paolo Di Paolo
Feltrinelli

Recensione di Giuliano Brenna
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Pubblicato il 11/06/2021 12:00:00

 

Si parla spesso, in letteratura, di genitori, di padri e madri alle prese con figli in varie situazioni, abbandoni, morti, dimenticanze e così via. Molto più raramente si parla del momento cruciale in cui i figli vedono la luce, e il periodo in cui le madri sono in attesa del parto. Paolo Di Paolo getta uno sguardo acuto e dolcissimo proprio sul periodo della gravidanza di tre donne, fa da sfondo Roma nei primi anni Ottanta. Si tratta di tre storie non semplici, soprattutto perché le tre donne paiono abbandonate al loro destino, soprattutto dagli uomini artefici delle loro gravidanze. Profonda è la riflessione dell’autore su come un momento di spensieratezza, o un fugace amore siano per gli uomini privi di conseguenze e, se anche il frutto dei loro lombi, dopo nove mesi diventerà un nuovo essere umano essi non per questo diventeranno padri. Resteranno per lo più un ricordo persistente nella mente delle donne che hanno incontrato, le quali, senza ombra di dubbio diventeranno madri a pieno titolo. Il percorso della gravidanza è sovente carico di pensieri e di angoscia per le tre ragazze protagoniste, il sentirsi sole, con una vita nel grembo, dà loro motivo di preoccupazione ma anche di grande speranza. Gli uomini che hanno incontrato sembrano non curarsi di loro, uno forse si trova in Irlanda, un altro vaga nei lidi dell’immaturità, un altro forse se ne ricorda ma non è così fondamentale. Il percorso è tutto al femminile e si concluderà con le tre ragazze che diventano madri e donne. Il percorso di crescita e maturazione rappresenta l’ossatura del romanzo, da parte delle ragazze sarà un lungo e complicato percorso che le porterà al cambiamento focale di un’esistenza, passare dall’essere figlie all’essere madri, mentre per le loro mamme consisterà nel fare un passo avanti nella considerazione delle loro figlie. Dal punto di vista delle tre madri, tuttavia, sembra esserci una profonda solitudine, al netto di giudizi e abbandoni, quando ciascuna di esse prende coscienza del suo stato e del figlio che porta in grembo è come se le voci del mondo circostante si affievolissero sino a un brusio di fondo, l’unica voce che si distingue è quella del bellissimo rapporto che hanno col figlio nel loro grembo. Una scelta tutta personale, quella di diventare madre, capace di andare contro giudizi e pregiudizi, una scelta che rappresenta la maturità, a qualunque età essa venga fatta. Prendo in prestito da Besson una frase riguardo la scelta di essere madre: Allora, alla fine, non rimpiange niente. Non rimpiange di aver sacrificato per loro (i figli) la propria vita, le possibilità di una vita autonoma, libera (del resto, non lo ha mai vissuto come un sacrificio, né come un incatenamento, anche se, a pensarci bene, si tratta di questo). Non rimpiange di essere stata più una madre che una donna.

Anche dal punto di vista maschile il romanzo sottolinea il percorso di maturazione, il tentare di capire come mai dal passare il tempo a zonzo con gli amici si venga improvvisamente investiti da tanta responsabilità. Le scelte, come detto, sono molteplici, c’è chi decide di non sapere, caratterizzando così l’intera propria esistenza di fuggitivo, un’eterna ombra che non ha neppure un nome, solo un vago ricordo geografico: L’Irlandese. Oppure un figlio può fare un passo avanti nella crescita aprendo il proprio cuore a un genitore apparentemente distratto e portarlo a considerare che quello che si credeva un bimbo è ormai un uomo, che necessita di un confronto tra pari, non di una semplice consolazione. Il terzo dei padri invece coglie l’occasione per elaborare finalmente il lutto dei genitori per sostituirsi a essi diventando, in primis, il genitore interno cui non aveva mai dato posto, poi il genitore di una madre che non riesce a crescere per diventare, infine, il padre effettivo del frutto del proprio seme. L’ultima parte racconta una delle vite possibili con cui uno dei nascituri del romanzo prosegue la propria esistenza e i toni dolci e rasserenanti aprono una nuova visione su quello che potrebbe sembrare un dramma, ma che grazie all’amore e alla comprensione è semplicemente una vita come le altre. E su questa nota potrei forse aggiungere che uno degli aspetti che circola sotterraneo alla narrazione è proprio il concetto di famiglia, di figure genitoriali, di come non sempre le figure designate siano in grado di rappresentare i concetti di padre o madre in mancanza della spinta propulsiva dell’amore. L’amore è ciò che rende una persona un genitore, non il legame del sangue o del seme, ed è il solo a rappresentare il legame di parentela.

La bellissima narrazione, lo stile elegante e contemporaneo di Paolo Di Paolo dipingono con toni delicati ed efficaci la maternità come rito fondamentale di passaggio, dall’essere figli, all’essere genitori, e per i genitori ammettere che i figli sono cresciuti e che hanno bisogno di una maturazione anche da parte delle figure genitoriali. Un libro che getta uno sguardo inedito e appassionato su di un tema profondo e secolare, lungo quanto la storia dell’umanità.

 

Per quelle fortuite circostanze che il caso ci pone di fronte e che spesso prendono il nome di coincidenze, solo perché alcuni degli elementi coincidono, qualche giorno dopo aver letto “Lontano dagli occhi”, ho letto “Una buona ragione per uccidersi” di Philippe Besson. Da cui la frase presa in prestito qualche riga più su. Il senso di questo collegamento fra i due libri lo fornisce uno dei protagonisti, Samuel: Pensa che bisognerebbe imparare a prepararsi alle scomparse per proteggersene, ma la verità è che non si ha abbastanza immaginazione per farlo.

Il motivo del collegamento è per motivi paralleli e opposti. Di Paolo porta il lettore attraverso un lungo percorso, con i tre protagonisti del romanzo viviamo un periodo abbastanza lungo che si proietta verso un futuro non quantificabile, probabilmente per un cospicuo numero di anni. I personaggi girano per la città, si sovrappongono a fatti sociali e mostrano un enorme cambiamento, sia interno, sia verso chi li circonda, cambia il loro atteggiamento verso il mondo e la vita. Invece il romanzo di Besson è cristallizzato in un momento ben preciso, una giornata spezzettata i cui frammenti sono messi sotto la lente d’ingrandimento. Ogni singola, minima variazione registrata. Sembra di essere di fronte un quadro di Hopper (sensazione comune ad alcuni romanzi di Besson) in cui un momento di vita quotidiana, apparentemente poco significativo, viene immortalato. Ma a ben guardare non è proprio così, l’apparente stasi è in realtà un fortissimo tumulto, le esistenze dei due protagonisti sono giunte a un punto in cui tutto il passato si condensa, viene analizzato ed esaminato. Avviene una fusione tra il metodo narrativo e la narrazione stessa, ogni istante ha un suo peso, perché nella mente dei protagonisti avviene lo stesso processo; quindi, l’apparente stasi, o il ralenti, assumono il significato di riflessione profonda e grande dinamismo interiore. Il motivo per cui metto in correlazione questo romanzo col precedente è perché in modo diametralmente opposto il tema è il medesimo, l’essere genitori, e se con Di Paolo la concentrazione è sul diventarlo, con Besson è sul non esserlo più. Se in “Lontano dagli occhi” le protagoniste sono proiettate verso la maturità, una nuova vita, diversa, più completa, nel romanzo del francese i protagonisti si sono arresi, giunti a un confine invalicabile, un punto di non ritorno, in cui il non essere cresciuti coi propri figli, nel senso descritto da Di Paolo, rappresenta il vulnus e forse la causa della disfatta esistenziale. In questo secondo romanzo, l’amore necessario, affinché degli individui possano chiamarsi famiglia, si è come sbriciolato, potrebbe salvare tutti ma per inerzia, o pudore va sprecato.

 




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