Si tratta di una lunga lettera scritta dal campo di transito di Westerbrock, dove gli ebrei venivano ammassati in attesa di essere inviati in altri campi di sterminio, in particolare ad Auschwitz. Il racconto indugia soprattutto sulle donne presenti, alcune con figli piccoli, che vengono in qualche modo accudite dall’autrice. Nell’orrore del momento e della situazione la Hillesum riesce a infondere una ventata di dolcezza nei ritratti delle persone presenti nel campo. Si denota una forte volontà di dire tutto l’orrore, l’abiezione e la mostruosità ma restando umani, conservando la dignità e l’identità che era facile perdere in certi frangenti. Ogni persona viene raccontata, descritta con una storia, con una vita, aspetti che, per il gran numero di deportati, nell’enorme abominio, rischiano di andare persi. Il rischio di essere uno dei tanti, un numero, un’altra vittima, è spesso un passo in più dentro l’orrore. Accanto alle persone presenti nel campo vengono descritti gli ufficiali e gli ebrei arruolati per sorvegliare i prigionieri, delineati a partire dal colore delle divise indossate per rendere più semplice l’identificazione della gerarchia. Gli ebrei che si prestano al servizio dei nazisti, per qualche tipo di tornaconto sono biasimati e giudicati molto male, peggio del capo del campo che viene invece descritto quasi come un soldato da operetta. E soprattutto questi “ufficiali ebrei” servono alla Hilesum per rafforzare la sua volontà di conservare per ciascuno la propria individualità: Forse il mondo esterno pensa a noi come una massa grigia, uniforme e dolorante di ebrei, e non si rende conto dei fossati, degli abissi e delle sfumature che separano i singoli e i gruppi, e forse non potrebbe nemmeno comprenderli. Questa lunga lettera è del 24 agosto 1943, il trenta novembre dello stesso anno Etty Hillesum muore ad Aushwitz.