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L’Ombrellaio

di Oreste Villari 

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Pubblicato il 30/12/2010 13:49:39

L’ombrellaio


Pioveva da non ricordarsi più quando aveva cominciato.
Da tempo Armando aveva come unica compagnia quel muro d’acqua dietro la finestra e una fila spettrale di ombrelli neri appesi in ogni angolo della stanza. Non ne poteva più di quelle nuvole gravide oscillanti come un pendolo sulla testa, di quella solitudine, di quei ricordi puntuali e affilati come rasoi. Lo svegliò dal torpore lo smettere di quel tempo infame, l’improvviso silenzio al quale non era più abituato.
Il vecchio lasciò cadere la sigaretta accesa nella pozza d’acqua davanti a casa e guardò il cielo soffiandogli contro una densa nuvola di fumo.
L’ultimo suo respiro.

Da tempo il paese era abbandonato.
La decisione l’avevano presa all’unanimità le poche famiglie rimaste.
Decisione difficile ma senza rimpianti.
Al diavolo il freddo, il fumo, i sentieri da ammazzarsi e quella vita da cani. Per loro e per i loro figli era tempo di migrare, di andare via da quella valle, di scendere in pianura alla ricerca di un’altra possibilità per campare.
Un pennacchio di fumo a cappello di un falò di povere masserizie a testimoniare che il peggio era passato. I vecchi intorno al fuoco, occhi lucidi e un bicchiere di rosso in mano, sapevano che quel fumo era quanto rimaneva della loro vita.
Il sudore di un’esistenza in quel filo dritto contro il cielo.

- “I-j lo dise peu ti all'Armando quand al torna d'la Bandia ?”
Glielo dirai tu all’Armando quando rientra dalla Bandia?
- “L'ai nen ël corage Tonio”
Non ho il coraggio Tonio
- “Veule dì che 'ndoma via e al fòl lassoma costa coa 'd fum da companìa?”
Vuoi dire che andiamo via e al matto lasciamo questa coda di fumo per compagnia?
- “Vnìrà via 'dcò chiel, a lo capìra da sol “
Verrà via anche lui, lo capirà da solo.

Cominciarono a scendere il sentiero in una fila silenziosa: giovanotti e ragazze davanti, donne con i bambini e a chiudere gli uomini insieme agli anziani.
Un centinaio di persone in compagnia di una mezza dozzina di muli carichi dell’indispensabile.
Le altre bestie erano state tutte vendute.
Per chi fosse passato da quelle parti era evidente la sensazione di un paese in fuga nell’estremo tentativo di sottrarsi al suo destino.

Armando alla Bandia pascolava pecore di altri e sarebbe rientrato con il gregge ai primi freddi. Restituiti gli animali ai proprietari, risaliva al paese dove avrebbe ingannato la noia in attesa di una nuova Primavera. Viveva da sempre nel paese dove era nato, dove la guerra o forse il suo destino, lo aveva risparmiato.
Non così aveva fatto con i genitori e con il fratello maggiore, fucilati dietro al fienile all’ingresso del villaggio. Partigiani senza neppure saperlo.
Da allora la testa non era più tornata a suo posto.
Una vita da orfano e il sopranome di matto, erano la compagnia di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

Rientrato al villaggio, li per li pensò ad uno scherzo.
Diede da mangiare al cane, si scaldò vicino alla brace del falò addormentandosi all’aperto come era abituato. Silenzio e un’alba che non ti aspetti a illuminare i resti di una vita.
Tetti lucidi di rugiada, non un camino fumare e come unico rumore la fontana dietro casa di Tonio.
Gli prese la voglia di urlare, di chiamare tutti quei bastardi e vendicarsi dello scherzo subito.
Prima o dopo sarebbero usciti tutti in fila a scusarsi.
Invece niente.
Passò la giornata a inseguire rumori accorgendosi solo alla sera che l’unico rimasto era il battere sordo del suo cuore.
Non gliela avrebbe data vinta, decise che la vendetta era a portata di mano e non se la fece scappare.
Prese quello che restava della brace e diede fuoco uno per uno, a tutti i fienili.
Brillavano nel cielo come stupendi fuochi artificiali, riflesse nei suoi occhi, scintille di paese.
Armando rimase nascosto per giorni nelle grange più in alto, in attesa che lo spettacolo finisse.
In attesa che lo venissero a prendere per regalargli, come unica possibilità, quella di entrare nel manicomio provinciale.

Uscì come tutti gli altri quando Basaglia e la sua legge, decisero che era giunta l’ora.
L’ora per Armando di tornare al suo paese.
Rimise in piedi quel che bastava della sua casa e alla sera si sdraiò sfinito su un prato di primule e anemoni. In cielo un mare di stelle e in quel mare ne riconobbe una più brillante sfrecciare in direzione del confine. Esprimere un desiderio fù un lampo: rivedere i genitori e il fratello, riconoscerli e nell’abbraccio ritrovare se stesso.
Chi andava a trovarlo, gli assistenti sociali e i pochi a ricordarsene, raccontano di lui e del suo barcollare con l’ombrello aperto anche nei giorni di sereno.
Rintanato nel suo buco di pietre affumicate, guardava dai vetri della finestra e aggiustava gli ombrelli che d’estate la gente, mossa a compassione, gli portava a riparare.
Silenzi e un sorriso senza denti era tutto quello che un destino arrogante gli aveva lasciato in custodia.

Ora che anche lui è andato via, non rimane che la sua casa annerita.
Entro dalla porta semichiusa.
Il focolare e nel disordine, resti di ombrelli , aghi, filo e colla indurita.
Sul pavimento giornali vecchi, mozziconi di sigaretta e scatolette di tonno arrugginite.
In un baule sfondato qualcuno ha frugato prima di me alla vana ricerca di tesori dimenticati.
Nella fodera di tela ingiallita, qualcosa è sfuggito: una fotografia.

Luglio 1939.
Sotto una fitta pioggia, un gregge al pascolo.
Armando, felice e sorridente insieme alla sua famiglia, teneva stretto tra le mani il manico del suo destino.

Oreste Villari


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