Un’architettura complessa, iconica e verbale, poesia e prosa commiste, sorregge l’ultima silloge di Tommaso di Dio: Verso le stelle glaciali, un viaggio dalla terra al cielo come già annuncia il titolo, enigmatico quanto suggestivo, se è vero che non esiste alcuna costellazione che compaia con questo nome sulle mappe celesti.
Bisogna, infatti, fare subito i conti con il carattere simbolico-visionario degli affreschi che l’autore dispone sulle pagine, a cominciare dal primo testo iconico, e dunque a-verbale, in cui, nonostante la slabbratura dei contorni visibili, e la stessa smarginatura dell’immagine verso un fuori solo intuibile, si riconosce un albero, potente e stratificato archetipo che ha attraversato tutte le civiltà e le religioni, caricandosi di innumerevoli sensi.
L’albero radicato nella terra ma volto con i rami al cielo: immagine dell’uomo e del suo duplice anelito desiderante; l’albero asse del mondo attorno a cui si dispone l’universo; legno della Croce salvifica; o, ancora, quello su cui si issano le vele per la navigazione. Infatti, se il viaggio suggerito da Di Dio si svolge attraverso i quattro elementi primordiali della terra, dell’aria, del fuoco e dell’acqua, è quest’ultima a prevalere sugli altri, ché non solo la maggioranza dei testi iconici ha a che fare con la liquidità del mare, ma, come scrive lo stesso poeta nella “Nota ai testi”, “all’interno della sezione 1492 sono variamenti citati scritti dal diario di bordo di Cristoforo Colombo. In particolare quelli relativi al primo viaggio verso l’America”, con la precisa intenzione, deducibile da diversi testi, di universalizzare storicamente l’avventura di ogni individuo.
Del resto la liquidità marina allude anche allo sfrangiamento, alla frammentarietà della conoscenza: se si torna all’immagine di apertura del libro, quell’albero tremolante (fotografato, come sembra, nello specchio di una superficie acquorea), altro non appare che una cosa concreta scossa da se stessa, come dire che non solo è impossibile raggiungerne l’essenza, ma, per di più, null’altro di essa è conoscibile se non la sua caducità (“mare aperto e solare/ cerca se qualcuno ha la chiave/ chiamalo e portalo qui. Perché anch’io infine veda/ e senta/ interamente questa che sento e vedo / canzone della terra”), E, dunque, il viaggio fisico e mentale di ogni uomo sulla terra è un po’ come andare a tentoni, nonostante le molte mappe consultabili.
Perfino la bambola (ci avvertono la seconda e la terza mappa), che pure è un essere inanimato, aveva qualche centinaio di anni fa, una sua maschera leggera e morbida, e la bimba, nel celarne il volto, doveva imparare ad immaginarlo, abituandosi così a cercare anche il proprio ogni volta che lo specchio glielo rimandasse indietro: così l’autore presenta e commenta le immagini (le maschere di stoffa, a cui si allude, sono custodite in un museo londinese e sono databili fra il 1690 e il 1700), che probabilmente hanno la funzione di aggiungere altre indicazioni interpretative a quanto già suggeriscono i testi poetici.
Il motivo della maschera è, del resto, un tòpos che attraversa la letteratura e che, al di là delle sue più semplici significazioni di inganno e nascondimento, investe soprattutto la scrittura in sé come sdoppiamento, una sorta di ombra che cela, così come la maschera della bambola, il vero volto di chi e di cosa scrive.
Il viaggio di Tommaso di Dio, muovendo da questa consapevolezza, mira, però, ad una sorta di catarsi universale. Per questo motivo egli non può e non vuole compierlo in solitudine, sebbene spesso i suoi compagni di viaggio siano indifferenti (Insieme sono/ bradi, fertili e seri come gli animali inutili) o ostili (come i marinai increduli di Cristoforo Colombo: La nave è sabotata.), oppure emarginati (extracomunitari, poveri, solitari, folli); o, ancora, trascinino l’esistenza in stanze d’ospedale, perduto il senno, nudi perfino dei ricordi, o che abitino sul limen fra vita e morte, o abbiano già lasciato il mondo, se è vero che la poesia deve essere la parola che passa dai morti ai vivi, una sorta di mappa sonora che cuce passato e presente in una continuità grazie alla quale “tutta la storia umana torna leggibile”.
Questo senso dell’appartenenza, questa assunzione del “noi”, fa di Tommaso Di Dio un filosofo della sorte comune, un innamorato dell’uomo e dell’amore che lo spinge a dire: “ogni cosa splende/ si perde e dice stai/ fra mondi, confratèrnati”.
Il viaggio, sezione dopo sezione, si configura, a fine lettura, come un percorso iniziatico: nella prima sezione ci sono i vivi che gioscono che soffrono che operano il bene e il male, immersi fra le cose, negli spazi cittadini, schiavi degli istinti e dei bisogni; nella successiva prevale la condizione del disancoramento: qui i protagonisti sono quei malati ormai incapaci di intelligere la realtà, e a cui basta, però “vivere con la luce davanti agli occhi” in uno stato che prefigura la meta finale; segue la terza tappa, quella dell’abbandono del proprio sé per un ritorno ad una terra non più separata dal cielo, una terra in cui le cose rivelano la loro dimensione trascendentale e la conoscenza procede insieme al movimento incessante dell’essere, tra bagliori d’assoluto, e la verità non è che la fiamma di una piccola candela sufficiente, però, a guidare l’umanità verso il sentimento della fratellanza in nome della quale “Sapremo parlare/ Riconoscerci. Fuoriuscire./ Sapremo fare a pezzi questo niente/ e alzeremo le braccia/ canteremo felici.”
Non so quanto possa sembrare azzardato il paragone, ma la lettura di Verso le stelle glaciali di Tommaso mi ha fatto pensare alla Commedia di Dante per diversi motivi: innanzitutto per la struttura meditata e coltissima dell’insieme; per l’idea comune ad entrambi di descrivere un viaggio ascensionale dall’inferno terreno alla beatitudine della luce dopo l’attesa; per la trasformazione graduale del linguaggio che dalle cose e dal buio della dimensione terrena si solleva sempre più verso altezze concettuali man mano che la luce si fa sempre più dilagante, ma soprattutto per il ritorno di entrambi sulla terra, dopo avere esperito l’approdo ad una diversa dimensione.
Non dobbiamo, infatti, dimenticare che Dante compie il suo viaggio da vivo (è la sua “ombra” che lo attesta) e che gli è dato giungere fino alla luce somma di Dio, ma non di fissarla e conoscerla del tutto, ché il suo sguardo d’uomo non potrebbe sostenerla, sicché presto si accorge di essere approdato a ciò che non potrà mai riferire con le parole, all’ineffabile, all’indicibile. E tuttavia, tornando alla dimensione terrena, Dante saprà che la luce esiste e se ne farà testimone presso gli uomini condividendo con loro la sua esperienza.
Allo stesso modo, ma diversamente da Dante, con un approccio del tutto laico, Tommaso Di Dio si assume il ruolo di testimone della dimensione metafisica delle cose, fa della terra e del cielo una Unità inscindibile, cercando di perseguire la luce del vero, a cui è chiamata la scrittura. Kafka, esploratore dell’enigma così scriveva: “Chissà se la meraviglia della vita non sia sempre a disposizione di ognuno in tutta la sua pienezza, anche se spesso rimane nascosta, profonda, inesprimibile, decisamente lontana (…) Questa è l’essenza dell’incantesimo che non crea, ma chiama”:
E quando Tommaso di Dio non dà un numero a quella che dovrebbe essere l’undicesima mappa, è questo che vuole fare comprendere al suo lettore: che, così come la parola non può dire l’enigma, per quanto possa approssimarsi ad esso, anche il numero non può contenere l’infinito, tanto che il simbolo che lo rappresenta è un otto che sembra inginocchiarsi di fronte all’innumerabile. “Nessuna mappa – scrive- fra quelle che sono state finora registrate e raccolte ha potuto indicare cosa ci sia là, nel fuori (...)”. L’unica risposta è, allora, quella di lasciarsi affascinare dalle stelle glaciali (lontane, arcane e purissime) che ci vocano: “Forse, la potenza della mappa è proprio questa: a tal punto ci fa innamorare di sé, che alziamo la testa, guardiamo il cielo”.