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Luigi Fontanella

Argomento: Intervista

Testo proposto da LaRecherche.it

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Pubblicato il 15/10/2008 19:46:26

DOMANDA.
Luigi Fontanella, sappiamo che ha studiato all’Università “La Sapienza” di Roma, laureandosi in Lettere, per poi conseguire il dottorato alla Harvard University.
Attualmente è professore di italiano presso il Dipartimento “European Languages, Literatures, and Cultures” alla Stony Brook University. È fondatore e Presidente dell’IPA (Italian Poetry in America) e l’Editor di Gradiva (una rivista internazionale di poesia italiana) ed ha all’attivo varie pubblicazioni. Nonostante questo, come si presenterebbe a persone che non la conoscono? Chi è Luigi Fontanella?

RISPOSTA.
Vorrei saperlo anch’io. Credo di non essere in grado di rispondere in modo sufficientemente organico ed esauriente a questa domanda, se non, mettiamo, di volta in volta che essa mi venisse rivolta in un dato momento della giornata, tale è il coacervo di sensazioni-emozioni-riflessioni che occupano il mio io nel corso del mio vivere quotidiano… André Breton si pone la stessa domanda nell’incipit di Nadja, quel suo bellissimo antiromanzo, paradiaristico, che non mi stanco mai di rileggere, giungendo a una conclusione del tutto condividibile, e cioè che forse soltanto nell’esatta misura in cui saremo in grado di comprendere in che cosa consista la nostra differenza rispetto agli altri potremo rivelare a noi stessi chi siamo, di quale messaggio siamo unici latori, e soprattutto ciò che siamo venuti a fare in questo mondo.
Più in generale, considerando che è impossibile capire e interpretare qualcosa che non è finito, e cioè il magma esistenziale del nostro vivere giorno per giorno, potrei dire che forse solo dopo la morte potremo dire chi siamo (stati); cioè noi sapremo che cosa è stata la nostra vita solo dopo che saremo morti. E saranno altri a farlo, ma anche lì con tutti i limiti e le supposizioni soggettive di chi, quella vita, vorrà documentarla, valutarla e interpretarla. Mi viene in mente Pasolini quando in Empirismo eretico afferma che noi non ci esprimeremmo se fossimo immortali, cioè o essere immortali e non esprimersi o essere mortali ed esprimersi. Da qui l’impossibilità di una risposta esauriente alla sua domanda, perchè sarei chiamato a interpretare un io, il mio, che non è ancora finito, che è ancora in via di evoluzione, aperto a tutte le possibilità e a tutti gli imprevisti dell’esistenza.


DOMANDA.
Quali sono le letture, i libri o gli autori, che da sempre l’accompagnano?

RISPOSTA.
Sicuramente i lirici greci e latini che ancora oggi – seppure in modo sempre più saltuario – vado rileggendo. Poi, facendo un bel salto temporale leggo e rileggo (Bontempelli diceva che non bisogna leggere ma rileggere), alcuni autori del Settecento e Ottocento italiano ed europeo: in primis Novalis, Foscolo e Leopardi; poi i grandi romanzieri russi; poi ancora scrittori come Ibsen, Laforgue, Flaubert, Huysmans. Della prima metà del Novecento per me sono irrinunciabili: Italo Svevo, Arthur Schnitzler e Robert Walser (metto questi tre per primi perché sono gli scrittori che assolutamente sento più consanguinei), ma subito dopo aggiungerei Breton, Campana, Tozzi, Kafka, Beckett, Pessoa, Rilke, Pavese, Eliot, Auden, Hart Crane, e qualche altro che ora non mi viene in mente. Del secondo Novecento italiano, in poesia: sicuramente Sinisgalli, Gatto, Bertolucci, Sereni, Cattafi, Risi, Caproni, Cesarano e Raboni su tutti. Ma ci sono anche poeti, purtroppo assai negletti nelle nostre storie letterarie, che amo leggere e rileggere, poeti che andrebbero sicuramente rivalutati. Faccio esemplarmente i nomi di Lorenzo Calogero, Vittorio Bodini, Angelo Maria Ripellino, Antonia Pozzi. Fra i narratori italiani del dopoguerra metterei certamente ai primi posti delle mie letture/riletture Anna Maria Ortese, Elsa Morante, Giuseppe Berto, Tommaso Landolfi, Antonio Delfini, Paolo Volponi.
Sono scrittori, questi che sono andato man mano citando - me ne rendo ben conto –, assai diversificati, alcuni di loro lasciano molto spazio al senso del magico e del surreale, ma che al contempo avevano alle spalle intense, talora laceranti esperienze di vita vissuta.
Salto i poeti italiani contemporanei, anche se, in poesia, vorrei menzionare almeno i nomi di Doplicher, Cucchi, Conte, De Angelis, Fiori, Magrelli e Giovanna Sicari: poeti più o meno a me coetanei coi quali mi sono spesso utilmente confrontato e dai quali ho tratto suggestioni feconde per la mia creatività.


DOMANDA.
Quando ha iniziato a scrivere e perché?

RISPOSTA.
Ho scritto la mia prima poesia intorno ai 18 anni sul diario scolastico di una mia compagna di classe della terza liceo classico; glielo avevo momentaneamente rubato perché - molto timido - volevo dichiararmi a lei mettendoci dentro una mia lettera d’amore. Sfogliando questo diario di Patrizia (si chiamava così la ragazza della quale ero segretamente innamorato) mi accorsi con mia grande sorpresa che conteneva riflessioni e varie poesie della stessa Patrizia! Per me fu come un’agnizione: mi rendevo improvvisamente conto che la poesia era un’esperienza praticabile, non depositata solo nei libri. Strappai la lettera e scrissi una poesia, la mia prima poesia. In quel momento si decideva il mio destino di poeta.
Senza caricare troppo quanto sto per dire, potrei dichiarare che in fondo ogni mia poesia sia nata da una “reazione”: un atto d’amore o di fratellanza; una mia voce interna che m’imponeva di oppormi con tutte le mie forze a qualcosa che ritenevo profondamente ingiusto. L’unica arma che ha un poeta è la sua parola e la necessità di esprimerla. Voglio dire che alla base dello scrivere poesia ci deve essere un’autentica passione, una vera necessità. Non potrei mai scrivere una poesia “astratta” a tavolino o avulsa dalla realtà, e credo che poeti di forte passione civile come lo sono stati Pasolini, Risi, Sereni, Cesarano, Raboni, Majorino, siano stati per me e per tanti poeti impegnati della mia generazione degli esempi forti e probanti. Detto questo, non credo, però, che la poesia possa risolversi o strumentalizzarsi esclusivamente in una forma di lotta politica o di impegno civile. Credo invece che essa debba anche avere il coraggio di confrontarsi con i grandi temi dell’esistenza: l’amore, la morte, il tempo, il dolore, le ingiustizie, ecc., senza enfasi e senza cadute retoriche, ma interrogandosi a fondo sull’enigma del nostro esserci. Per un poeta la realtà va decrittata e interpretata, allo stesso tempo cogliendo in essa il mistero con cui si presenta ogni momento davanti ai nostri occhi. Io amo quei poeti di forte immaginazione che hanno saputo coniugare analisi concreta con un’innata capacità visionaria, poeti che interrogando/interpretando profondamente la realtà del loro tempo riescono, per così dire, ad oltrepassarla, parlandoci nel tempo.


DOMANDA.
Come poeta ha mai passato momenti di sconforto?

RISPOSTA.
Sì che li ho passati e tuttora li passo. E le cause possono essere di diversa origine: all’inizio della mia esperienza americana i momenti di sconforto scaturivano, per la maggior parte, dal mio essere lontano dall’Italia e dai miei amici. Mi ero trasferito in America in seguito a due borse di studio piuttosto prestigiose (una Fulbright alla Princeton University e una Full Fellowship alla Harvard University), ma arrivavo negli Stati Uniti già con un’esperienza di vita e di cultura alle spalle, e soprattutto con una lingua espressiva (l’italiano) dalla quale non potevo e non volevo separarmi. Forse se fossi arrivato in America da adolescente e avessi assorbito in modo naturale l’inglese la mia vita, e di conseguenza la mia poesia, avrebbero preso una piega diversa. Un altro costante motivo di sconforto è il mio rapporto con il Tempo; vivo con angoscia il suo trascorrere inesorabile. Non sono riuscito, non riesco ancora a pormi olimpicamente, neutralmente, al di sopra di esso. Ci sono dentro in ogni minuto, in ogni istante del mio vivere. Al tempo ovviamente è legato il pensiero della morte. Non riesco a capire, e forse un po’ le invidio, quelle persone che passano la propria vita senza essere mai sfiorati da questo pensiero. La poesia, per me, quando arriva, ha da questo punto di vista anche un fine pratico: può esorcizzare la malattia del tempo, in qualche modo sospendendolo in una sfera che Leopardi avrebbe chiamata “vaga”. Devo anche dire, però, che in questi ultimissimi tempi mi sento più sereno rispetto alla problematica del tempo. Se la vita può essere la metafora di una giornata nella quale sono belle ed eccitanti l’alba, la mattina e la fase di luce piena (rispettivamente l’infanzia, la giovinezza e la maturità), altrettanto belli e seducenti, con una loro dolcezza infinita, possono essere il pomeriggio e il crepuscolo…


DOMANDA.
Quando scrive che cosa la ispira? Scrive di getto? Rivede e corregge i suoi testi?

RISPOSTA.
Scrivo sempre in seguito a una mia “reattività” verso una situazione precisa o un’occasione esistenziale o un’immagine forte e circostanziata; insomma verso qualcosa che in quel dato momento stia incidendo fortemente dentro di me, ovunque io mi trovi in quell’istante. E siccome spesso mi capita di viaggiare, non poche mie poesie sono nate “in viaggio” (aereo, treno, metropolitana, sale d’aspetto, camere d’albergo, ecc.). Altre volte i miei testi sono nati e tuttora nascono mentre leggo un libro di particolare presa emotiva e intellettuale; vado allora all’ultima pagina bianca di quel libro e lì scrivo di getto i versi di una nuova poesia. Ma per quanto mi riguarda è altrettanto importante il lavoro accanito di revisione, talora la ricerca ossessiva anche di una sola parola all’interno di una poesia; una parola che sia precisa, che sia quella e solo quella a esprimere quel dato verso o quel singolo passaggio. Tendo con tutto me stesso a prosciugare, a decantare (proprio come si fa con il vino) al massimo ogni mio componimento, sfrondandolo di ogni inutile orpello o aggettivo superfluo. Voglio arrivare a una poesia “elementare” (spero che questo termine non sia inteso banalmente) che contenga in sé il massimo concentrato di espressività e di “mistero”.


DOMANDA.
Per uno scrittore quale è la parte più importante da non sottovalutare, a suo avviso, nel “mestiere” dello scrivere?

RISPOSTA.
Sicuramente il lavoro di revisione testuale. Per il resto si veda la mia riposta precedente.


DOMANDA.
Come è considerata la poesia italiana, ed europea in genere, negli Stati Uniti? Ci spiega meglio la sua attività di Presidente dell’IPA?

RISPOSTA.
Purtroppo la poesia italiana, nella sua ampiezza e varietà, non è molto conosciuta negli Stati Uniti, eccezion fatta per alcuni autori ormai canonici del Novecento (Ungaretti, Montale, Quasimodo, Penna, Sereni, Luzi, Zanzotto, Pasolini, e pochi altri – sono questi i primi nomi che mi vengono in mente), ma già per esempio poeti come Sbarbaro, Palazzeschi, Govoni, Gatto, Landolfi, Bertolucci (e sicuramente sto dimenticando più di qualche nome) ancora attendono di essere tradotti in inglese (voglio dire in modo esauriente), e sono tutti poeti di primissimo piano. Se poi rivolgo la mia attenzione alle due generazioni successive la conoscenza e la considerazione verso la poesia italiana risultano per così dire diseguali e contraddittorie, nel senso che ci sono poeti come Doplicher, Conte, Spatola, De Angelis, Buffoni, la Merini, Achille Serrao, Magrelli, Cavalli, (faccio dei nomi a caso) che sono stati tradotti e sono discretamente conosciuti (Cucchi è in via di traduzione da parte di Michael Palma per l’editrice newyorkese Chelsea Editions, diretta da Alfredo de Palchi, che con l’omonima rivista ha fatto tanto per la poesia italiana negli Usa), ma per molti altri validi poeti della mia e della precedente generazione la conoscenza da parte del pubblico americano (quello comunque relativo alla poesia) resta ancora (re)legata all’esclusiva apparizione in riviste americane – sia pure importanti. Penso a poeti come Giampiero Neri, Elio Pecora, Dario Bellezza, Gregorio Scalise, Patrizia Valduga, Roberto Mussapi, Umberto Fiori, ecc., dei quali a tutt’oggi non esiste un volume esauriente tradotto e pubblicato in inglese.
In effetti, quando circa trent’anni fa arrivai negli Stati Uniti la situazione era davvero desolante per la nostra poesia. E uno dei miei imperativi – una volta che decisi di lavorare in questo paese – fu, fin dai miei primi anni, quello di adoprarmi con tutti i miei mezzi per farla conoscere meglio e di più nel Nordamerica. Questo è stato il mio obiettivo primario, prima con la fondazione della IPSA (Italian Poetry Society of America), poi con la IPA (Italian Poetry in America), e, parallelamente, in modo costante, attraverso la rivisita Gradiva e l’editrice Gradiva Publications, da me dirette fin dal 1982 (ma “Gradiva” esisteva fin dal 1976). Molto è stato fatto in questi ultimi vent’anni attraverso la pubblicazione di alcune antologie significative e il lavoro di traduttori e studiosi americani (che spesso sono poeti in proprio) come Ruth Feldman, I.L. Salomon, Joseph Tusiani, Jonathan Galassi, John Taylor, Luigi Bonaffini, Michael Palma, W.S. Di Piero, Emanuel di Pasquale, Charles Wright, Irene Marchegiani, Robert Hahn, Geoffrey Brock, Adeodato Piazza Nicolai, Rina Ferrarelli, Ann Snodgrass, Barbara Carle.


DOMANDA.
Ci parla di Gradiva (International Journal of Italian Poetry)?

RISPOSTA.
Questa domanda/risposta è indissolubilmente legata a quella precedente, in quanto la “funzione” di questa rivista (in particolare la terza e attuale serie) è da sempre stata quella di divulgare la buona poesia italiana contemporanea e il discorso critico che si svolge su di essa sia in Italia sia America. Mi permetto riportare qui di seguito quanto da me scritto nell’editoriale del n. 27-28, un fascicolo doppio che tre anni fa segnò il trentesimo anniversario di Gradiva di cui narra sommariamente la storia e gli scopi.

“Con questo numero doppio, Gradiva festeggia il suo trentesimo anno di vita. Trent’anni… e qui il ricordo va ovviamente al 1982, anno in cui ne assunsi la direzione (a quel tempo Gradiva aveva già alle spalle sette anni di lavoro).
Mi fa piacere, a distanza di tre decenni, riassumere brevemente la storia di questa rivista. Ideata nel 1975 da Adriano Berengo, il primo fascicolo uscì nell’estate del 1976. Vi comparivano, fra gli altri, saggi e note dello stesso Berengo (su Beckett), di Norman N. Holland (a quel tempo direttore, a Buffalo, del Center for the Psychological Study of the Arts), di Mark Heumann (noto studioso di psicanalisi e direttore americano di Gradiva che in seguito sarebbe andato a insegnare all’università di Gerusalemme), di Michel David, che, con Giacomo Debenedetti, si può considerare uno dei capostipiti della critica psicanalitica italiana (il saggio da lui pubblicato nel fascicolo iniziale si intitolava proprio Psychoanalytic Criticism in Italy), e di Stefano Agosti che commentava due bei libri di Francesco Orlando (Lettura freudiana della Phedre e Per una teoria freudiana della letteratura, ambedue editi da Einaudi, rispettivamente nel 1971 e nel 1973).
Come si può evincere da questo breve resoconto, Gradiva si proponeva precipuamente di indagare i rapporti tra psicanalisi e letteratura; del resto lo stesso titolo scelto per questa rivista, riferentesi a una delle più seducenti opere di Freud, via Jensen, non lasciava adito ad alcun dubbio.

Dal 1976 al 1982, periodo che costituisce la prima serie di Gradiva, la rivista ospita, dunque, studi rivolti al campo della critica psicanalitica, alla critica analogica e a quella semiologica, con feconde incursioni nelle avanguardie storiche, con particolare riferimento al surrealismo: significativi, in tal senso, i saggi di Anna Balakian, Jan Kott, Umberto Eco, Jacques Lacan, Lucien Goldmann, Jay Martin, Giovanni Sinicropi, Norman N. Holland, che usciranno nei vari numeri successivi.

Dal 1982, con la mia direzione, la rivista diventa essenzialmente un periodico di letteratura italiana e, oltre alla psicanalisi, apre anche ad altre metodologie critiche, come la critica stilistica, lo strutturalismo, la critica marxista. Il comitato direttivo viene radicalmente rimaneggiato: entrano studiosi e poeti come Cesare Garboli (ricordo un suo saggio bellissimo su Antonio Delfini proprio nel primo fascicolo della seconda serie), Dante Della Terza (che fin da allora, oltre che per i suoi contributi critici, ci è stato sempre vicino con consigli e suggerimenti), Alfredo Giuliani, Glauco Cambon, Octavio Paz (ho ancora qui davanti a me la sua garbata lettera di adesione), Edoardo Sanguinati e Giuliano Manacorda, questi ultimi due diventati nel tempo amici e compagnons de route, cui sono molto affezionato. Devo poi qui riconfermare la mia riconoscenza a George Carpetto, il quale dal 1982 al 1985 condivise con me la direzione di Gradiva (Carpetto era entrato nella rivista nel 1978, come Associate Editor, e nel 1986 si trasferì in Florida, dove tuttora risiede esercitando la professione di psicologo).
Altro significativo cambiamento (arricchimento) della rivista, dal 1982 in poi, è costituito dall’ingresso di testi creativi. Mi piace ricordare che le primissime poesie pubblicate nel fascicolo iniziale della seconda serie erano di Philippe Soupault - con Breton e Aragon, uno dei fondatori storici del surrealismo, che mi mandò una lettera appassionata e un testo autografo (di fatto pubblicammo la sua poesia, Toujours le silence, proprio nella sua forma manoscritta), di Edoardo Sanguineti, Milo De Angelis e Alfredo Giuliani. Mi sembra incredibile che siano già trascorsi 23 anni da quel vicino/lontano 1982. Da allora sono centinaia e centinaia i testi di poeti italiani pubblicati da Gradiva, talora affiancati anche dalla traduzione in inglese

Questa seconda serie di Gradiva, iniziata nel 1982, si estende fino al 1999. Dall’anno 2000 in poi la rivista diventa un semestrale esclusivamente di poesia e poetologia italiana. Con l’anno Duemila inizia anche la terza serie. Il comitato direttivo e redazionale subisce un ulteriore rimaneggiamento, con l’adesione di poeti e studiosi come Giorgio Baroni, Luigi Bonaffini, Alfredo De Palchi, Barbara Carle, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Jonathan Galassi, Laura Lilli, Valerio Magrelli, Plinio Perilli, Robert Pinsky, Rebecca J. West.
La rivista si assesta strutturalmente con rubriche specifiche curate da singoli studiosi; si arricchisce graficamente, e aggiunge una “Fototeca”, ossia un piccolo archivio fotografico che documenta eventi e personaggi della poesia italiana, passata e presente. Un’idea, questa, che mi venne suggerita da Giovanna Sicari tre anni fa. Di questa sezione si sarebbe dovuta occupare Giovanna stessa se la malattia non l’avesse vinta. Il n. 26 di Gradiva, interamente a lei dedicato, ha inaugurato questa nuova rubrica.

Intanto nascono le Edizioni Gradiva (Gradiva Publications), piccola editrice che, fondata timidamente nel 1985, ha gradualmente rafforzato e precisato professionalmente la propria attività editoriale. Scopo primario di Gradiva Publications è di far conoscere la poesia italiana nei paesi di lingua inglese, attraverso la pubblicazione di volumetti bilingui, ben curati, di poeti italiani ancora non troppo familiari al pubblico di lingua inglese, o addirittura mai tradotti prima in questa lingua. A questa collana di base, si affianca l’altra di poeti americani contemporanei di origine italiana. Il catalogo, leggibile sulla quarta di copertina della rivista, rende conto di quanto è stato finora pubblicato. Quattro anni fa a Gradiva Publications è stato assegnato, da parte del Ministero dei Beni Culturali, il Premio Internazionale per la Traduzione.

Non posso, a questo punto, non rivolgere un doveroso riconoscimento, per la sua lunga dedizione a Gradiva, a Sylvia Liberti Morandina, che, dal 1986 a tutt’oggi, è stata la nostra preziosa Managing Editor, oltre che amica insostituibile. Un altro, altrettanto doveroso, lo devo a Michael Palma, poeta e traduttore finissimo, che da anni ci è stato di valido aiuto specialmente per la revisione dei contributi in lingua inglese.

Forse solo chi ha diretto un periodico letterario può veramente sapere quale e quanta fatica deve affrontare, direi quasi giornalmente, chi la dirige. Non mi faccio illusioni. So bene quanta precarietà caratterizzi questo lavoro. Mi consola il fatto che l’ho svolto sempre senza pressioni di parte, con libera autonomia e onestà, traendone a volte il piacere di qualche scoperta, e sorretto infine - last but not least - da un Ideale, senza il quale ogni vita umana non avrebbe senso. ”


DOMANDA.
Ci può fare una panoramica della poesia contemporanea statunitense? Quali sono le figure di riferimento e, se vi è, quale lo stile dominante?

RISPOSTA.
La poesia americana diversamente da quella italiana ha, per lo più, una tradizione “narrativa”. Naturalmente questa è una prima, generica considerazione, perchè non mancano nella poesia novecentesca statunitense poeti assai sofisticati, di forti impennate ellittiche, che hanno fruttuosamente attraversato il simbolismo, l’espressionismo visionario o astratto e lo sperimentalismo; penso per es. a poeti, anche diversificati, come Wallace Stevens, John Berryman, E.E. Cummings, Sylvia Plath, John Ashbery, Richard Wilbur, Edward Hirsh, Paul Auster (oltre a essere il noto romanziere, Auster è un eccellente poeta), Charles Simic, Maura Stanton, Luisa Rossina Villani, ecc. (queste ultime due fra l’altro da me tradotte in italiano). Credo però – per rispondere alla sua domanda – che “lo stile dominante” della poesia americana contemporanea sia tuttora quello di tipo narrativo, dal quale o attraverso il quale – fra l’altro - ho riscoperto, per quanto mi riguarda, anche il gusto per la prosa poetica o per la ballata.


DOMANDA.
Quest’anno ha pubblicato, con Archinto, la raccolta di poesie “Oblivion”, recensita su larecherche.it e proposta come libro consigliato. Nella quarta di copertina v’è un pezzo di Raboni che afferma: “Nella poesia di Luigi Fontanella c’è una grande libertà di forme e di intonazioni. Egli non prende formalmente partito con violenza; la sua poesia ospita momenti di narratività colloquiale, quasi in prosa, e momenti in cui c’è una tensione lirica molto forte…”. Sono parole molto belle che esprimono bene l’aria che si respira nel libro, il quale è un capolavoro, direi, di semplicità poetica, che rispecchia una tonalità umana nitida e definita nonché uno spessore culturale notevole, che fa sì che la sua poesia si legga piacevolmente, anche da parte di chi è meno avvezzo alla lettura dei versi, bordeggiando appunto “momenti di narratività colloquiale”. Ci può dire qualcosa al riguardo? Ci parla delle sue scelte stilistiche e compositive?

RISPOSTA.
Non ho molto da aggiungere a quanto rilevato da Raboni; lo stralcio da lei citato fa parte di una sua lunga Nota critica (uscita in “Paragone”, dicembre 2001) su Azul, libro da me pubblicato quello stesso anno. Posso aggiunge questo: ogni poesia detta lo “stile” con cui essa dovrà essere scritta; non esiste a monte una modalità espressiva fissa e immutabile, perché le esperienze di vita da cui scaturisce un dato testo sono di per sé varie e perfino contraddittorie. Naturalmente resta, come dire?, il “tono” (in inglese si direbbe forse the voice) espressivo del poeta, che resta immutabile nel tempo. È quello che, in fondo, pur nella varietà contenutistica e formale dei testi, rende riconoscibile la voce di un vero poeta.


DOMANDA.
Quali saranno le sue scritture e attività future?

RISPOSTA.
Ho appena finito un romanzo (il secondo, dopo Hot Dog pubblicato circa vent’anni fa) che mi sono trascinato dietro per molto tempo e che sapevo in cuor mio che dovevo finire. Mi piacerebbe scrivere una serie di racconti sulla mia esperienza americana (sul genere “racconto” ammiro moltissimo Gianni Celati) e portare a termine alcuni lavori teatrali (uno di questi, Don Giovanni a New York è stato già rappresentato sia in Italia sia in America).


DOMANDA.
Vorrebbe dire qualcosa agli autori de larecherche.it?

RISPOSTA.
Non conoscevo, in tutta onestà, questa rivista, che è anzi più di una semplice rivista, perché la vedo come un forum attivo di idee, un forum libero da pregiudizi e da condizionamenti, aperto alle letterature. Mi sono accorto di questa totale libertà di giudizi e di scelte de “larecherche” quando una mattina di aprile entrando nella mia posta elettronica ho trovato una recensione in questo “forum” – recensione gradita quanto del tutto inaspettata –, fra l’altro una delle primissime, al mio libro Oblivion , che era uscito appena due mesi prima. Mi piace il fatto che questa “piazza” possa essere un luogo libero di letture/scritture/discussioni/ commenti di libri e fatti culturali; una discussione davvero indipendente che può servire, per uno scrittore (specialmente per un giovane autore alle prime esperienze), anche a confrontarsi e magari a migliorarsi. Non posso dunque che farvi i miei più sinceri auguri di crescita e di fermo mantenimento di questa vostra autonomia!


(Intervista a cura di Roberto Maggiani)

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