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La Romana

Narrativa

Alberto Moravia
Bompiani

Recensione di Giacomo Coniglione
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Pubblicato il 15/10/2008 18:19:00



La genialità di Alberto Moravia, che ha attraversato sempre sulla cresta del successo le mode e le generazioni, sta tutta nell’aver saputo riproporre un canovaccio rinnovandosi e avendo sempre l’ardire di far parlare i suoi personaggi con una voce borghese o anti-borghese.

La Romana, romanzo scritto tra il 1947 e il 1950, risente della eco dell’inettitudine sveviana e allo stesso tempo del pessimismo così caro al verismo.
La protagonista è Adriana, una ragazza “infaticabile, sottomessa e paziente; e al tempo stesso sempre serena, lieta e tranquilla, l’animo privo di invidia, di rancore e di gelosia” che avverte sin da subito lo status di «esclusa» dal mondo allegro e scintillante della felicità, ben consapevole della differenza sociale e per nulla invidiosa dell’apparente serenità dei borghesi: lei non vuole mettere “il proprio paradiso nell’inferno degli altri”.
La sventurata (prendiamo in prestito un aggettivo dal Verga) perde il padre quando è ancora piccola ed e cresciuta dalla mamma, una donna convinta che la figlia sia la ragazza più bella della città e che vuole far uso di questa bellezza per farle fare il salto di qualità. Una madre che ha solo questa certezza e che, di contro, non crede nemmeno nell’illusione della preghiera: “Si vede che i ricchi sanno pregare meglio di noi”. Per Adriana invece la bellezza è solo una qualità che tutti lodano a parole ma che alla fine non serve che ad accrescere l’infelicità: un’infelicità che è definitiva “quando non si desidera più niente”.

La disgraziata - che per alcune peculiarità sembra riportare alla mente la Gervasia Macquart di Zola - lavora come modella per un pittore ed è proprio recandosi allo studio che conosce Gino, un ragazzo bello e beffardo che sa dire le parole giuste per falsificare la realtà e che riesce ad avvinghiare l’ingenua tra le sue bugie.

Adriana, dopo aver lasciato il lavoro di modella, si dà al marciapiede con aria romantica: ”Anzitutto io non sapevo essere cosi avida e così mercantile come Gisella. Intendevo certo essere pagata perché non andavo con gli uomini per divertimento; ma la mia stessa natura mi portava a darmi di più per una specie di esuberanza fisica che per tornaconto e non pensavo al denaro se non al momento di farmi pagare”. Non se ne vergogna della sua posizione anche se si rende conto che il suo “era un mestiere molto duro” perché bisogna “fingere il trasporto per uomini che, in realtà, mi ispiravano sentimenti opposti”.

Nella seconda parte del romanzo entra preponderante la questione politica, in un neorealismo che si fa fotografia e denuncia. Adriana si innamora di Mino, uno studente di legge dedito alla sovversione e che rimane indifferente ai richiami sessuali di Adriana, a cui “la politica giungeva da un mondo superiore e sconosciuta, più fioca e incomprensibile di quanto giunga la luce del giorno”.

Il romanzo, districandosi nel binomio sesso-potere, si chiude ancora una volta con la disfatta degli ideali finti e negativi della borghesia, così incapace di incarnare il vitalismo e la palingenesi di una società corrotta dal fascismo e dalle sue sovrastrutture e il trionfo della classe suburbana e sottoproletaria che di lì a poco troverà ampio spazio nella riflessione di Pier Paolo Pasolini.


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