Pubblicato il 09/09/2011 10:56:06
Vincent era un ragazzo che ormai non aveva più una vita da ragazzo, era intelligente ma ormai la sua vita non era intelligente, ed era anche bello, ma con le ragazze venivano sempre fuori le ferite, e niente era bello. Lui viveva in un ospedale psichiatrico, sempre tra letto, finestra e i suoi ricordi. Si spaventava del presente, non riusciva a organizzare o pensare semplicemente a una vita fuori da quel luogo triste, da quella macchina che andava avanti a pensieri e passato. Ciò che ricordava era un mosaico spietato, scomposto di episodi, alcuni enormi. La cosa a cui pensava più spesso era che una volta, si era sotto Natale, la mamma decise di portare lui e sua sorella a farsi fare le fotografie come si usa con Babbo Natale e altri personaggi. Vincent aspettava a casa che venisse la mamma a prenderli. Insieme alla sorellina quante canzoni! Quanta felicità! Poi punita. La signora Geli disse a Vincent : “tesoro, andiamo, dammi un bacino”, però lo disse soltanto, ma neanche si avvicinò a lui. Diceva una cosa dolce, ma in lei c’era più sale di una statua di sale. E allora il bambino pensò: “Non mi posso abbandonare a lei, lei mi dà affetto con le parole e con i fatti me lo toglie”. Certo, a quattordici anni il ragazzo aveva già una serie di problemi non di poco conto. E sempre aveva in mente quella foto in cui la madre era seduta accanto a lui, con Babbo Natale, e gli poneva una mano sulla spalla, ma non sorrideva e gli occhi erano sperduti chi sa dove, in quale paese di strano dolore. Fatto stava che ogni Natale ritornava a camminare sulla crepa che divideva la vita e la morte. E quando la malinconia si faceva più acuta camminava avanti e indietro come a seminare per l’ospedale il suo io offeso, ma non ne nascevano musiche o parole. Tutto rimaneva dentro. Un solo abbraccio lo avrebbe salvato. Ma la sorella usciva tutti i giorni, presa dai suoi vestiti e adolescente, e non lo andava a trovare; il padre era malato La madre soltanto veniva a regalargli un po’ di neve, con sguardi indecifrabili, chiusi al mondo.
Lì in ospedale Vincent si mise a disegnare. Sentiva che in qualcosa doveva trasformarsi questa serpe che aveva dentro, per non avere più paura del suo veleno e poterla contemplare, innocua e perfino interessante. I primi disegni furono tutti contrassegnati dal doppio o dalla divisione in due di facce, oggetti… Un disegno che colpì il suo medico fu una bambola con una linea nera e bastarda che la divideva in due perfette metà. Ma a lui l’interpretazione del medico non interessava, lui voleva sapere se avesse valore artistico quello che faceva, tutte le altre cose le intuiva da solo. E quando l’uomo disse al giovane paziente: “perché disegni tutte cose divise a metà?” Il ragazzo rispose: “perché io sono diviso a metà”. “E perché sei diviso a metà?” “Perché nessuno ha riunito le mie due parti con un abbraccio. Tutti mi hanno dato solo forma e non sostanza, bellezza e non verità”. "Ora", gli rispose l'uomo, "devi pensare che la vita è bella. Solo questo". Il ragazzo assunse un'espressione quasi cattiva, disse: "perché mi dice questo? Lei pensa il contrario. Gliene importa qualcosa davvero di me?" Vincent evitava di guardarlo, o canzonava le sue frasi facendogli eco o ripetendo i suoi movimenti. "Li so benissimo i luridi trucchetti di voi dottori. La vita è bella, meravigliosa... La viva lei la mia vita, allora!" "Io non lo dico per dire. E tu hai bisogno d'aiuto". "Ma se anche chi dico io mi ha dato ghiaccio e mi ha detto di amarmi... Io a questo punto non credo più a nessuno. E se uno mi dice, qualunque persona, che mi vuole bene, ecco: sotto c'è un tranello".
E dicendo questo disse brutalmente al medico di lasciarlo solo, visto che aveva voglia di disegnare un po’. La stanza era come affetta da malinconia, un sole né bello né amico illuminava la stanza. Tuttavia non era meglio il buio. Poi il pomeriggio che finiva gli riservò un’emozione che cominciava. Una ragazzina, pure lei ricoverata lì, gli andò vicino e gli disse: “anche io ho quello che hai tu” Ma cosa avevano queste parole per emozionarlo tanto? Non avevano apparentemente niente di speciale, eppure gli piacevano perché non conosceva nessuno che capisse come si sentiva. Lui sorrise, scoprendo di saper provare ancora un’emozione. Il mare scioglieva i grumi di sale che gli parevano eterni nel cuore. Allora esisteva ancora il mare, da qualche parte, quello che placa e che non si può dividere in due. Pensava con aria di importanza e contentezza: “il mare non si può dividere in due, così come dovrebbe essere il sentimento”. “Ho visto i tuoi disegni”, disse la piccola ragazza, si chiamava Vera, coi polsi fasciati e gli occhi dolci. Vincent sussultò, questa frase lo colse all’improvviso, disse: “ti piacciono?” E lei: “Molto” “E perché?” “Perché anch’io mi sento come i tuoi disegni”. “Bello”. Ma era quasi ora di cena e il ragazzo non era abituato a così tanta delicatezza, e soprattutto a qualcuno che sfiorasse il suo mondo senza essere un medico. Ma una semplice ragazza con la sofferenza ai polsi e una voglia di vivere tumultuosa negli occhi. “Ma che ne so io delle ragazze?”, si diceva rabbioso con se stesso. Lei era veramente carina. E poi aveva una voce delicata, era come se con la voce bussasse cortesemente ai pensieri di lui. E poi, pensava lui, sicuramente non era divisa a metà e sapeva abbracciare e riunire le due parti in lotta mortale fra loro. “Forse lei è il mare, l’indiviso… penso cose assurde!”, si diceva. E un nuovo senso come una nuova luce gli giocherellava dentro. Durante la cena i due si misero accanto e lei gli diede il suo pollo, e lui la ringraziò e in quel gesto c’era più amore che in tutte le parole della signora Geli. Poi si coricarono e ognuno dalla sua stanza immaginava amore. Era l’amore chiuso da anni in loro, come un bandito pericoloso, e ora improvvisamente innocente e puro come un bambino piccolo. La madre di Vincent venne a trovarlo, gli portò dei dolci ma lui li assaggiò e disse che erano amari. E la mamma: “ma come possono essere amari i dolci?” “Mamma, fidati, i dolci sono amari”. Tacque un attimo e poi disse: “lasciamene due, li mangio dopo” Invece voleva darli a Vera. Con lei le cose dolci erano sempre dolci. Non c’era contraddizione in quella piccola amica. E quindi ci si poteva abbandonare senza rischiare l’amarezza.
La cosa bella era che ora non si sentiva più distaccato dal mondo. E non sentiva più le voci, quelle voci che erano i simboli del calvario, che gli ordinavano di non amare la vita, che lo costringevano a parlare ancora con il passato e ad uscire devastato da questa conversazione. Ogni voce era una spina che lo faceva maestro dell’abisso. Ma ora qualcosa aveva smesso di sanguinare in lui. Ma la ferita era ancora aperta e si chiudeva quando si apriva il sorriso di lei.
Il mattino ora aveva sguardi migliori. Dalla finestra il mondo non era sparito e Vincent avrebbe voluto camminarci allegramente con lei. Sapere che le strade aspettavano i loro passi leggeri e che il vento voleva raccogliere le loro parole per farle migrare dove non c’era più pianto: questo voleva. I giorni passavano tra dolcezza e malattia. Non c’era carezza senza pianto, non c’era ricordo senza comprensione. Non c’era cicatrice che non avesse un senso. Ma poi la ragazza fu dimessa e di nuovo cominciò a nevicare dentro Vincent, cominciava a considerare inutile mangiare o dormire. E pensava sempre che il freddo era il tormento della sua vita. Eppure lei aveva saputo sciogliere la neve con il calore del suo corpo in ascolto, come anche il corpo fosse stato anima. Il medico gli faceva iniezioni per stimolare l’appetito. Una vecchia zia gli portò una camicia nuova. Lui non vedeva niente tranne due ragazzi che camminavano leggeri per la città buona, la città bella che li voleva. Insieme. “Non lo voglio più il Natale! Non voglio le luci accese delle case dove all’interno non c’è amore, e le fotografie con i simpatici personaggi delle favole bugiarde”, poi pensava: “se io fossi uno scrittore, scriverei favole solo vere e accese di un amore gigante, tutto quello che non ho avuto”.
Un giorno Vera fece una sorpresa a Vincent. Si presentò sulla soglia della sua stanza e ancora lui non poteva crederci. Aveva in mano un grosso girasole che sembrava irradiare desideri di vita per la stanza. Lui la abbracciò, lei ricambiò perché lei era il mare, indiviso e buono. “Ciao, ti aspettavo”, il viso di Vincent era tutto lacrime piccole, bambine, dimenticate. “Ci tenevo a venirti a trovare perché ho pensato che è vero quello che dicevamo, cioè che ci perdiamo negli altri, che abbiamo paura di fonderci con la gente perché la realtà non è solo buona, ma in lei sonnecchia il suo contraltare”.
Lei aveva una borsa molto colorata e i polsi non erano più fasciati. Gli occhi ridevano, adesso. E lui disse: “Sì, ma io ora ho la misura dell’infinito nel tuo abbraccio. Prima avevo la misura del vuoto d’infinito della vita...” “E io ho capito che il dolore finisce quando comincio ad annegare in te”, detto questo sottovoce, la ragazza disse entusiasta: “La città ci aspetta!”
Silenzio, poi lui disse: “ti racconto una favola: c’era una volta un bimbo che era figlio dell’inverno, ma aveva la missione di essere uno scopritore di terre lontane, quelle dove è sempre estate. Ma poi gli spiegarono che dopo l’estate c’è sempre l’autunno e lui pianse forte. Poi però capì un segreto: dentro l’inverno si può accendere un fuoco e scaldarsi, o abbracciarsi tra la neve ed essere tu stesso fuoco. Così come io adesso rido fra le lacrime con te”. “Eh già”, disse lei, “è una bella favola, e questa favola è nata dal suo contrario. Come succede con tante cose belle”. Poi lui spaventato disse: “ma tu sarai sempre così? Sempre come il mare, non ti taglierai mai a metà?” “Mai”, promise lei. “E se dovesse avvenire, tu abbracciami e riunisci le parti”
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