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Tempo di riserva

Poesia

Silvia Rosa (Biografia)
Giuliano Ladolfi Editore

Recensione di Francesco Palmieri
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Pubblicato il 09/11/2018 12:00:00

 

Le poesie di Silvia Rosa, fin dai primi versi di questa nuova raccolta, danno subito l'impressione che emozione, cognizione, forma e parola debbano essere imperativamente una cosa sola, senza nessuna concessione all'estetica e nemmeno nessun cedimento a una spontaneità che sembri autocompiacimento o, peggio, dilettantismo. Incarnano una voce pronta a scandire con fedeltà i moti dell'anima, le inquietudini della mente indagatrice, le vibrazioni del cuore, i turbamenti della carne. Tutto è esposto senza nascondimenti inutili, senza alcuna tentazione di neutralizzare quel confronto serrato tra l'io e il mondo, tra l'io e le crepe d'esistenza che spesso diventano fratture profonde, innervandosi fin nel nucleo vivo e primario del sentire, del provare, dell'essere creature perdute nella vastità di un cosmo oscuro e indecifrabile. Per chi ha la fortuna di trovarsi tra le mani Tempo di riserva, potrebbe bastare la lettura del primo testo per coglierne l’intensità poetica e la potenza espressiva: "[…] che sperpero la morte bianca muta | da un giorno all’altro identico di piccole | lucciole di felicità intermittenti, schiacciate | al buio di un tempo così distratto che | persino la banalità del niente | avrebbe forse un sapore meno gretto."

Come dicevo, nessuna concessione a una qualsiasi forma di pietismo autoassolutorio: la banalità del niente che chiama in causa Silvia Rosa ricorda la crudele banalità del male teorizzata da Hannah Arendt, in un’associazione il cui collegamento primario sembra essere una forma di nichilismo totalizzante, quel nichilismo che fin dai primi del Novecento ha investito tutta la letteratura e ancora più tragicamente la Storia del secolo breve.  La storia di Silvia Rosa, seppur densa di vissuto, non è la macrostoria di cui riferisce Hannah Arendt, è invece microstoria, la confessione quasi diaristica di una débâcle esistenziale in cui la modernità tardonovecentesca ha coinvolto e travolto tutti: non per niente la critica letteraria parla di letteratura della crisi, crisi del Novecento (e oltre, possiamo affermare noi che stiamo vivendo il Duemila). La storia di Silvia Rosa è scandita dalle stagioni così come noi le conosciamo, l'inverno, la primavera, l'estate e l'autunno, un anno intero, un anno che si ripete e ritorna, senza che nulla sia cambiato, senza un alito di novità, un evento rivoluzionario, un ribaltamento, una catarsi e una resurrezione, un luogo nuovo e vitale, invece dell'ossessiva, conosciuta e trita topica dell'immobilità e della ripetizione: "Qui è dove il tempo | ci ha costretti | a un sogno in miniatura | ad abbandonare la dorsale | incerta del domani | a procedere occhi a terra | respiro breve – soli – […]".

Uno dei temi principali della poetica di Silvia Rosa è la solitudine, non quella che è conseguenza di un isolamento ricercato o forzoso, di un'assenza di relazioni, bensì la condizione postmoderna che ha condotto all'entropia delle relazioni, alla società liquida così come l'ha ben definita e concettualizzata Zygmunt Baumann, ossia un luogo fisico, etico, spirituale, dove la collettività e l'individuo vivono quotidianamente l'esperienza deprivante dell'incertezza, della mancanza di radicamento, dell'incomunicabilità, dell'assenza di rispecchiamento empatico, che gradualmente diventano i poli anomici della dissoluzione e del dissolvimento della dimensione umana: "[…] contiamo questi corvi giorni questi neri pensieri |e poi dimentichiamoci di quanto freddo sia il silenzio | delle mani, l’assenza di orizzonti, il vuoto che si incolla | come neve sulle labbra come giorni e giorni | al calendario di un’attesa senza data e poi ||  voliamo via."  Il volo si delinea allora come espressione imperativa di un desiderio niente affatto vagheggiante: non si tratta del volo pindarico verso l’indistinto "oltre" poetico, bensì di un andare in direzione dell'immensa calma di un corpo, come dice l'autrice stessa, verso una notte lunga e saporita che un oggetto d'amore potrebbe abitare nel silenzio, una forma intelligibile che può infine dirsi "la gioia elementare d'essere/ dentro un cuore altro, a casa". Una casa desiderata in astratto, ma posta sulla linea visibile di un orizzonte concreto, un topos che sia controaltare a un’anomia diffusa e quasi inevitabile, un rifugio salvifico che strappi da quel logorio solipsistico fatto di pensieri dal sapore ossessivo.

La poesia di Silvia Rosa non fa sconti a chi si avventura tra i suoi versi; è una poesia che rivela tenerezze e aspettative primaverili: per esempio quando racconta dell’infanzia, delle proiezioni verso l'amore adulto, quando si figura un tu capace di entrare nell'anima oltre che nel corpo, ma la leopardianità è in agguato, e non è una convenzione letteraria, è piuttosto l'espressione di un’universalità del sentire e del maturare, uno sbocco della condizione umana che non risparmia nessuno. A causa di ciò la disillusione è un leitmotiv che percorre per intero la raccolta, un controcanto elegiaco che l'onestà intellettuale vuole autentico, radicato nel profondo di un vissuto che non è solo quello individuale dell’autrice, ma prima o poi investe e sradica tutti da un incantamento primigenio e filogenetico. Si tratta di versi che, anche per la loro tonalità aspra e quasi espressionistica, o si accettano senza riserve e si fanno propri, oppure, direi difensivamente, si rifiutano, perché non è da tutti la capacità e il coraggio di osservare quella voragine che si apre al centro di ciascuno di noi, un abisso nel cui fondo, come scriveva Nietzsche, i mostri dell'esistere ci guardano dritto negli occhi. Contro questo sguardo annichilente si staglia la forza morale dell'autrice, il suo carattere indomito che non rifiuta la sfida fatale: “ci vorrebbe in questo istante preciso | una poesia, la più lunga, da scrivere | per mettere il re sotto scacco, per vincere || (o perdere tutto)”, una sfida in cui spesso si perde (sè stessi), ma l'esito può anche essere ribaltato in una vittoria su uno scenario esistenziale in cui, parafrasando e distorcendo Dante, più che la gioia poté il dolore. La sfida dunque è aperta, è tutta in quell’ancora testardo che puntella, disseminato ovunque tra i versi, la sostanza di questo Tempo di riserva.

 


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