Questo lavoro di Enrico Meloni, autore in prosa e poesia nonché insegnante e storico, va a dimostrare appieno quanto il dialetto possa soddisfare interamente nella sua funzione letteraria "tutti i bisogni intellettuali" (come ebbe a sostenere già Vito Moretti). E che dunque, ancora e fortunatamente, nell'incisione di una scrittura quotidiana attenta alle istanze e alle bruciature di una Storia non solo personale possa la sua voce essere foriera di accenti e interrogazioni anche più radicali, per profondità, per prossimità, di quelli in lingua. Così il romanesco della prima parte in cui la consegna civile del dettato è però abilmente affidata anche al gioco delle contaminazioni di lingua (l'inglese, lo spagnolo) e di genere (il rap ad esempio) nell'espressione ricca degli aspetti- nei suoi volti, nelle sue contraddizioni- del presente. Se il riferimento illustre del Belli è nelle tracce, un altro nome nel richiamo si fa visibile ed è quello di Mauro Marè, autore al quale Meloni si richiama e maestro di una lingua, come ricorda Marcello Teodonio nella prefazione, "capace di esprimere disperazione e amore, violenza e gentilezza". Tutti caratteri più che presenti nei versi di una poesia civile, "poesia ciovile", cui il racconto dei giorni si raccoglie nel Giano bifronte di una memoria sempre inseguita e perseguita da Meloni entro il rimbalzo di un tessuto sociale oggi lacerato, ferito, senza i necessari anticorpi a fronte delle cancellazioni e delle rovine di inizio millennio. Ha allora il duplice valore del recupero e della rifondazione, almeno nell'intento, questa pioggia di parole carpiate, rovistate, smozzicate e nel tono alto di una intelligenza che muove dal basso, dalla precarietà della sua fiumana, dai suoi tanti Pasquini che vanno a formare diligentemente il "Corettaccio" di una contemporaneità impazzita e ingabbiata in se stessa. Ecco allora sulla scena alternarsi tra fandonie e magagne, speranze e disgrazie e poi gli intrighi di corte e i ricordi struggenti di morti dimenticate come quella di Francesco Pinna ad esempio, studente lavoratore caduto sul lavoro nella preparazione di un concerto e che si fa occasione del rimarco di sproporzione del guadagno nel rapporto manager-operai. O quelle dei bombardamenti di San Lorenzo a Roma nel luglio del '43 e di Pasolini cui è dedicato un intensissimo e bellissimo compianto intrecciato al Pianto della Madonna di Jacopone da Todi. L'indifferenza dei potenti e dei "sudditi supini" tra qualunquismi e moralismi conformisti oltre che confermare le profezie dell'intellettuale emiliano vanno a legarsi dunque ai troppi ultimi che salgono al Calvario qui nel volto rovente dei migranti, dei giovani precari, dei lavoratori e della scuola, offesa nella sua professionalità e nei suoi tagli. La risposta allora agli impuniti cannibalismi, ai fascismi di ogni genere che non si spengono entro un'economia che cancella anime e prospettive è nella vigilanza di un'etica che ha il suo caposaldo nella Costituzione, pianta da coltivare con cura se vogliamo che in noi crescano ancora i suoi frutti "fra nobbili parole e la 'ngrata ranfosa realtà". L'invito allora è a non cedere a rancori e ad amarezze nel rovescio di valori in cui il crimine si confonde all'innocenza ma a imprimersi e a spendersi nel districo difficile della parola e di se stessi. Direzione questa nel senso di una concretezza sciolta negli esiti significativi della seconda parte, "Risanate acque", dove i testi al contrario sono in lingua. La spinta civile qui si rafforza anche nello sguardo ad esempi di figure illustri, ancora della letteratura e della poesia come nel caso di Leopardi ( nella mancanza di senso quando anche un solo singolo soffre per incuria, solitudine, emarginazione, reclusione qualsiasi nella riproduzione delle marginalità) ed Elsa Morante e Primo Levi, e dunque anche della storia come nel giovane partigiano Armando Ottaviano ucciso alle Fosse Ardeatine che gli dà lo spunto per parlare ai ragazzi di oggi sottolineando il valore della libertà possibile anche grazie all'agire di uomini proprio come Ottaviano. L'attenzione infatti è al "peccato di rinuncia" là dove al rischio della reciproca predazione è necessario opporre un"pensiero solidale,/nel valico di esclusivo recinzioni", una visione nuova. Potremmo definire così questa poetica sul bordo del polisenso di un mondo, di una polis che esonda, di una umanità "all'oscuro del nulla/o dannata nel dimenticarlo" cui Meloni segue convertendone il ritmo in illuminanti bagliori dati anche qui sovente per forza di commistioni, di pensieri che s'abbarbicano entro una lingua insieme umile e colta. Coscienza altissima di una poesia intesa "come militanza" (ancora Teodonio) e " nel carico di incombenza critica e di utopia libertaria tra le crepe del sistema dominante" (come tra gli altri ha avuto modo di sottolineare Francesco Muzzioli) e di cui volentieri caldeggiamo la lettura certi della sostanza e dell'originalità della voce. Ne è conferma la parte finale, di nuovo in romanesco nella traduzione da Khayyam.