Pubblicato il 18/06/2014 17:50:01
Di Stefanie Golisch avevo letto ed apprezzato due racconti, Klara in agosto e Tortorici, leggo ora con particolare interesse questa sua recente opera dall’originale struttura narrativa. Ferite non si colloca nelle categorie canoniche della letteratura proprio per la peculiarità della sua natura che non rientra tout court nel novero dei romanzi o dei racconti né in quello dei saggi o dei mémoires. Tuttavia ciascun lettore può decidere di assegnarlo ad una o più di queste categorie, secondo la prospettiva dalla quale lo legge. Le pagine di Golisch sono innanzi tutto un atto d’amore verso il proprio Paese, qui simboleggiato dalla sua capitale, Berlino, metafora di distruzione e di rinascita. E “Ferite” sono i capitoli del libro, ognuno dei quali racconta un episodio, un personaggio, una storia individuale o corale, riferiti al tempo oscuro vissuto dai berlinesi nel periodo bellico e postbellico. La prima “ferita” ci pone di fronte ad una realtà poco conosciuta, o disconosciuta, quella della prigione di Plötzensee dove fra il 1933 e il 1945 la Germania nazista “giustiziò” più di duemila fra uomini e donne che ebbero il coraggio di opporsi alla dittatura. Certo, fu una parte minima di umanità, individui non organizzati che agivano solo assecondando la loro coscienza ci testimoniano che, seppure in misura ridotta e in modalità sottaciuta, anche in Germania operò una Resistenza. Stefanie Golisch si inoltra in quello che fu un luogo di morte con l’intento di confrontarsi con quel passato di tenebra ma ponendo fra sé e il tempo dell’orrore il suo presente. E lo fa trasmettendo al lettore le sue più intime sensazioni, con una lingua narrativa pacata e suggestiva; con poca descrizione e molto realismo, riesce a farci rivivere le atrocità di cui l’essere umano è capace. In questa sorta di pellegrinaggio che la scrittrice compie nei luoghi maledetti del secondo conflitto mondiale incontriamo molte figure di intellettuali: il poeta Johannes R. Becher, fervente comunista e ministro della cultura nell’ex DDR, la cui vita tormentata riflette il dramma di tutta una generazione di intellettuali di sinistra; incontriamo Bertolt Brecht, fruitore di tutti i privilegi del governo di Berlino Est, “sempre in bilico tra libertà artistica e fedeltà ideologica”. Ed entriamo con Stefanie nella Bobrowski Zimmer, la stanza del poeta Johannes Bobrowski dove si incontravano scrittori e artisti dell’Est e dell’Ovest di Berlino: Ingeborg Bachmann e Uwe Johnson, Gunter Grass e Christoph Meckel sedevano in quella stanza, in quegli anni Sessanta in cui il futuro della Germania era ancora incerto e la letteratura e i poeti vivevano il disagio di una cultura le cui sorti dipendevano dal clima sempre più politicizzato. La ferita più profonda e più brutale che ci troviamo di fronte leggendo questo libro è proprio quella che è stata inferta in quegli anni atroci al milieu artistico e culturale della Germania e Golisch fa rivivere nella sua scrittura il declino e l’oblio a cui molti degli intellettuali del tempo sono stati consegnati. E vi è, in questo raccontare, una malinconia che colpisce, un rammarico triste e rassegnato per tutto ciò che di bello si è dissolto nel tempo: “I tempi cambiano, i confini si spostano”. Ferite è un libro da leggere e rileggere, il documento vivo e sanguinante di un amore maltrattato dal tempo. anna maria bonfiglio
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