I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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- Letteratura
Stefanie Golisch, Ferite – Storie di Berlino
Di Stefanie Golisch avevo letto ed apprezzato due racconti, Klara in agosto e Tortorici, leggo ora con particolare interesse questa sua recente opera dall’originale struttura narrativa. Ferite non si colloca nelle categorie canoniche della letteratura proprio per la peculiarità della sua natura che non rientra tout court nel novero dei romanzi o dei racconti né in quello dei saggi o dei mémoires. Tuttavia ciascun lettore può decidere di assegnarlo ad una o più di queste categorie, secondo la prospettiva dalla quale lo legge. Le pagine di Golisch sono innanzi tutto un atto d’amore verso il proprio Paese, qui simboleggiato dalla sua capitale, Berlino, metafora di distruzione e di rinascita. E “Ferite” sono i capitoli del libro, ognuno dei quali racconta un episodio, un personaggio, una storia individuale o corale, riferiti al tempo oscuro vissuto dai berlinesi nel periodo bellico e postbellico. La prima “ferita” ci pone di fronte ad una realtà poco conosciuta, o disconosciuta, quella della prigione di Plötzensee dove fra il 1933 e il 1945 la Germania nazista “giustiziò” più di duemila fra uomini e donne che ebbero il coraggio di opporsi alla dittatura. Certo, fu una parte minima di umanità, individui non organizzati che agivano solo assecondando la loro coscienza ci testimoniano che, seppure in misura ridotta e in modalità sottaciuta, anche in Germania operò una Resistenza. Stefanie Golisch si inoltra in quello che fu un luogo di morte con l’intento di confrontarsi con quel passato di tenebra ma ponendo fra sé e il tempo dell’orrore il suo presente. E lo fa trasmettendo al lettore le sue più intime sensazioni, con una lingua narrativa pacata e suggestiva; con poca descrizione e molto realismo, riesce a farci rivivere le atrocità di cui l’essere umano è capace. In questa sorta di pellegrinaggio che la scrittrice compie nei luoghi maledetti del secondo conflitto mondiale incontriamo molte figure di intellettuali: il poeta Johannes R. Becher, fervente comunista e ministro della cultura nell’ex DDR, la cui vita tormentata riflette il dramma di tutta una generazione di intellettuali di sinistra; incontriamo Bertolt Brecht, fruitore di tutti i privilegi del governo di Berlino Est, “sempre in bilico tra libertà artistica e fedeltà ideologica”. Ed entriamo con Stefanie nella Bobrowski Zimmer, la stanza del poeta Johannes Bobrowski dove si incontravano scrittori e artisti dell’Est e dell’Ovest di Berlino: Ingeborg Bachmann e Uwe Johnson, Gunter Grass e Christoph Meckel sedevano in quella stanza, in quegli anni Sessanta in cui il futuro della Germania era ancora incerto e la letteratura e i poeti vivevano il disagio di una cultura le cui sorti dipendevano dal clima sempre più politicizzato. La ferita più profonda e più brutale che ci troviamo di fronte leggendo questo libro è proprio quella che è stata inferta in quegli anni atroci al milieu artistico e culturale della Germania e Golisch fa rivivere nella sua scrittura il declino e l’oblio a cui molti degli intellettuali del tempo sono stati consegnati. E vi è, in questo raccontare, una malinconia che colpisce, un rammarico triste e rassegnato per tutto ciò che di bello si è dissolto nel tempo: “I tempi cambiano, i confini si spostano”. Ferite è un libro da leggere e rileggere, il documento vivo e sanguinante di un amore maltrattato dal tempo. anna maria bonfiglio
Id: 1107 Data: 18/06/2014 17:50:01
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- Società
Un nuovo 8 marzo
Finalmente questa data ha preso un altro trend. Le mimose sono tornate un fiore gentile e cadùco che ci piace appuntare ogni tanto sul risvolto dei nostri tailleurs primaverili di femministe attempate, e i giovanotti che si spogliavano allegramente per far divertire gruppi di donne ghettizzate in locali severamente off limits ai maschi hanno preso altre strade. Gli anni ’80 sono finiti dentro fotografie ingiallite e i ’90 hanno ci hanno lasciato un’eredità oscura. Ora è tempo di soffermarsi meditatamente su una realtà che stentiamo ad accettare. Sentiamo che attorno si fa sempre più buio e dunque dobbiamo svegliarci dal torpore ed agire. La violenza è diventata pane quotidiano: violenza sulle donne, sui bambini, sui più deboli; violenza fisica e psicologica. Io sono una donna di “parole”, non ho altri strumenti che la mia voce di poeta, con questa parlo e cerco di farmi ascoltare. C’è stato un tempo in cui ho amato le barricate, le manifestazioni di protesta, i cori di “il corpo è mio e lo gestisco io”, e ancora oggi credo che le donne non abbiano quello che spetta loro. Hanno vissuto come “secondo sesso”, come costola strappata ad Adamo in quanto soprannumeraria; hanno cercato e voluto una parità che non si è ancora realizzata in pieno. Una parte del femminile ha usato la rivendicazione come una vendetta, un’altra parte ne ha fatto oggetto di esibizionismo. Non era questo che volevamo. Quello che si sperava realizzare era una posizione di dignità e di rispetto, era il desiderio di sentirsi parte attiva ed integrante del Mito Umano. A nome di tutte ringrazio le donne che hanno lottato per svolgere un ruolo importante al fine di raggiungere e assicurare a chi veniva dopo il diritto ad affermarsi come entità uguale nella differenza. Ma tanto ancora bisogna fare: le madri per insegnare ai figli; le mogli, le sorelle, le amiche, le colleghe di lavoro, per indicarsi a vicenda il percorso corretto per vincere sui soprusi e le vessazioni che purtroppo persistono. Benvenuto nuovo 8 marzo. Anna Maria
Id: 747 Data: 09/03/2013 17:50:57
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- Letteratura
Per ricordare Elsa Morante
Cento anni fa nasceva Elsa Morante, scrittrice che ebbe in vita un notevole successo letterario, ma la cui figura viene poco ricordata. Eppure fu una delle narratrici più interessanti del secondo Novecento, autrice, oltre che di poesie e di scritti giornalistici, di romanzi che conseguirono i più importanti premi letterari, da Menzogna e Sortilegio, a cui fu assegnato il Premio Viareggio, a L’isola di Arturo, risultato vincitore del Premio Strega. Scrittrice dalla corposa produzione e donna dalle sofferte problematiche esistenziali, Elsa Morante visse una giovinezza travagliata, una maturità ricca di esperienze ed una vecchiaia tormentata dalla malattia e dalla quasi indigenza, tanto da riuscire, per interessamento di Alberto Moravia, ad ottenere l’assegno Bacchelli. Elsa Morante nasce a Roma nel 1912 dalla relazione di una maestra ebrea, Irma Poggibonsi, con un impiegato delle Poste, Francesco Lo Monaco, ma viene riconosciuta dal marito della madre Augusto Morante, sorvegliante in un istituto di correzione giovanile, in casa del quale cresce assieme ai fratelli più piccoli Aldo, Marcello e Maria. Inizia a scrivere giovanissima filastrocche e fiabe per bambini, poesie e racconti che già nel 1933, grazie all’appoggio del critico letterario Francesco Bruno, pubblica su riviste e giornali quali il Corriere dei piccoli e il Meridiano di Roma; nel 1935 comincia a collaborare con il settimanale Oggi. Concluso il liceo, lascia la famiglia e si stabilisce per conto proprio, mantenendosi con lezioni private e redazioni di tesi di laurea. Ad un certo punto, però, le ristrettezze economiche le impediscono di continuare gli studi alla Facoltà di Lettere. Nel 1936 incontra lo scrittore Alberto Moravia che sposa nel 1941. E’ un’unione che si rivelerà problematica: dopo un periodo in cui la coppia condivide sia i disagi della guerra, a causa dell’antifascismo di Moravia, sia, in seguito, la vita mondana e culturale dell’ambiente romano, il rapporto fra i due si svolge in un alternarsi di momenti di grande comunicazione e di periodi di malessere e di distacco. Il carattere della Morante è ambivalente, il suo desiderio di protezione e di affetto si scontra con la sua necessità di sentirsi libera; desidera la maternità ed allo stesso tempo la rifiuta, per poi rimpiangerne la possibilità perduta. Infine lascia la casa coniugale e si trasferisce in un appartamento in via del Babuino, continuando tuttavia a frequentare Moravia e a viaggiare con lui. Nel 1962 si separa definitivamente dal marito e in seguito frequenta Luchino Visconti e il pittore americano Bill Morrow con il quale ha una relazione. In questo periodo la scrittrice rifletté a lungo sulla sua narrativa, rifiutando e distruggendo molto di ciò che aveva scritto nel frattempo, ad eccezione di poche cose, tra cui la poesia L'avventura. Con il suicidio di Morrow comincia per Morante un triste periodo in cui avverte l’angoscia della morte e la paura della vecchiaia che le instillano uno stato di ossessione che la tormenterà fino alla fine dei suoi giorni. Trascorre gli ultimi anni a letto, impedita nella deambulazione a causa di una operazione per la rottura di un femore, e nel 1983 tenta di suicidarsi con il gas. Salvata dalla domestica, viene ricoverata in una clinica romana dove, dopo un secondo intervento chirurgico, muore d’infarto il 25 novembre del 1985. La sua narrativa è essenzialmente inquadrata nella storia della condizione dell’uomo e nei suoi aspetti irreversibili che si esplicitano nella contrapposizione umili-potenti, innocenti-colpevoli, paradisi-inferni. In Morante narrativa e poesia sono tematicamente vicine, nella narrazione il linguaggio è di volta in volta, allucinato, visionario, barocco, descrittivo, puntualistico; quello poetico è colloquiale, effuso di rimandi storici e mitologici, di narrazioni favolistiche, di visioni oniriche. Il romanzo Menzogna e sortilegio si conclude con la poesia Canto per il gatto Alvaro, che la protagonista Elisa eleva a suo interlocutore privilegiato e suo unico amico, un’ode in cui l’animale assume valenza umana e si veste di tutti quegli attributi che connotano un essere umano. La poesia Alibi è una lunga tessitura di rimandi storici alla mitologia greca e a quella medievale e introduce il lettore in un mondo di magico incantamento. Canta l’amore in una partitura mitopoietica che ricrea mondi feudali, classici, sognanti. L’interlocutore a cui si rivolge l’autrice è la somma di tutte le figure epiche della storia letteraria. Quella "Storia" che si ripete nei fatti e nei sentimenti, nelle vicende comuni a tutti gli esseri umani e nei percorsi psicologici ed emotivi del singolo. Dal 1971 al 1973 Elsa Morante si dedica alla stesura di quella che sarà la sua più popolare e discussa opera: La Storia, che verrà pubblicata nel 1974, in edizione economica per volontà dell’autrice. Al suo apparire il romanzo, di seicento e più pagine, suscita entusiasmo e polemiche, alla popolarità che guadagna presso i lettori si oppone la riserva di una parte della critica. Scrivere un’opera di narrativa dall’impianto ottocentesco, quale è La Storia, in un tempo in cui l’eco delle avanguardie non si è del tutto dileguata e poeti e scrittori sperimentano tecniche innovative di scrittura, non può non far discutere. Fra coloro che ne sono entusiasti vi è Natalia Ginziburg, fra i polemici Italo Calvino e fra coloro decisamente ostili all’opera morantiana spicca Enzo Siciliano. L’animosità di questi ultimi, generata da ragioni ideologiche, si manifesta con la denigrazione del romanzo in quanto ritenuto narrativamente esuberante, dagli incerti esiti artistici e dalla decisa vena populista. Tuttavia non ne vengono negati i valori positivi, come il rispetto per l’essere umano e la pietas verso la categoria degli umili, gli sconfitti della vita, quegli “ultimi” di evangelica memoria. Il romanzo copre un arco di tempo che va dal 1941 al 1947 e racconta la storia della maestra Ida Ramundo, una vedova ebrea che viene stuprata da un giovane soldato tedesco. Da quell’atto di violenza nasce Useppe, il figlio che diviene l’unica ragione di vita di Ida, donna mansueta e rassegnata, mater dolorosa che arriva anche a rubare pur di provvedere al nutrimento del piccolo, a sua volta creatura gracile cresciuta fra gli stenti della guerra. La storia di queste due esistenze, anime semplici calate nel groviglio dannato di un’era di violenza e di morte, è il paradigma della follia dei potenti e della devastazione fisica e psicologica perpetrata a danno dei soggetti più deboli. Il recondito fine di quest’opera sta nella concezione di un’ideologia che condanna la “Storia” come “uno scandalo che dura da diecimila anni”, un ciclo immutabile che non si sviluppa secondo le leggi del progresso, ma che si accanisce sui più deboli attraverso ingiustizie e follie distruttive. Al pregio narrativo dell’opera va associato il valore aggiunto di una puntuale cronologia degli eventi storici nazionali e internazionali del secolo scorso, dall’inizio del Novecento fino al 1967. Ogni capitolo è infatti preceduto da un quadro di ordine temporale nel quale sono elencati per data gli avvenimenti coevi al periodo narrato. E’, questo elemento, una cifra in più che assegna all’opera l’importanza del documento storico.
Id: 645 Data: 29/09/2012 19:44:09
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- Letteratura
Ricordando Montale a trentanni della scomparsa
Sono le ore 13 di giovedì 23 ottobre 1975 ed Eugenio Montale sta fumando nel salotto della sua casa milanese quando squilla il telefono. A rispondere è “la Gina”, ormai l’unica persona che vive con il poeta da quando è rimasto vedovo di Drusilla Tanzi. La Gina è stata presa a servizio in casa Montale negli anni Quaranta, su segnalazione di un medico, e da quella casa non si è più mossa, divenendo con il tempo la governante e la custode prima dei coniugi Montale e poi del vecchio senatore Eugenio. La Gina dunque risponde al telefono e subito si reca in salotto per annunciare al poeta che a chiamare è l’ambasciata di Svezia: gli è stato assegnato il Nobel per la letteratura. E’ un momento indimenticabile, la solitudine della casa viene invasa dagli annunci radiofonici e, subito dopo, dalle felicitazioni degli amici. Personaggio particolare, questo grande poeta, vissuto in una solitudine interiore seppure confortata dai rapporti con altri poeti e con stimati critici. A Genova, dove è nato il 12 ottobre del 1896 da una famiglia della borghesia colta e liberale e dove ha vissuto fino al 1927, ha frequentato Camillo Sbarbaro e Angelo Barile; a Firenze, dove lavora come redattore presso l’editore Bemporad, gli viene affidato l’incarico di direttore del Gabinetto Vieusseux, frequenta il Caffè delle Giubbe Rosse ed entra in contatto con Vittorini, Tecchi, Quasimodo, Gadda, Landolfi, Luzi… Il rifiuto a tesserarsi al partito fascista gli costa l’espulsione dal Vieusseux, i mezzi economici scarseggiano, vive di articoli e traduzioni, traduce Shakespeare, Blake, Emily Dickinson, Eliot. Lui, che a causa della salute delicata ha frequentato solo l’Istituto Tecnico, padroneggia l’inglese e si è costruito da giovane un background letterario leggendo e studiando assistito dalla sorella Marianna. Inoltre ha studiato canto con il baritono Ernesto Sivori, esperienza della quale gli è rimasto un grande amore per la musica che in seguito eserciterà nella funzione di critico musicale. La vita a Firenze scorre fra incertezze economiche e fragili relazioni sentimentali, conosce lo storico d’arte Matteo Marangoni e sua moglie Drusilla Tanzi dai quali nel 1929 viene ospitato per un certo periodo di tempo. Fra il poeta e Drusilla nasce una relazione, che si concluderà dopo una lunga convivenza con il matrimonio, ma ciò non impedisce a Montale di instaurare altri rapporti amorosi il più significativo dei quali è quello con Irma Brandeis, da lui immortalata con il senhal di Clizia nelle poesie de “Le occasioni”. Quello dei due è un rapporto vissuto nei tre viaggi che la giovane studiosa di Dante compie in Italia, nel ‘33, nel ’34 e nel ’38, ma nutrito da un lungo epistolario. Irma-Clizia dà un nuovo corso alla poetica montaliana che nelle liriche de “Le occasioni” coglie nelle apparizioni della donna un’epifania di nuovi ideali e di salvezza. Il soggetto lirico si sposta dal descrittivismo degli Ossi di seppia a una dimensione temporale dove l’assenza della donna, interlocutrice privilegiata, si rappresenta simbolicamente attraverso gli oggetti e i luoghi della memoria, vedi, ad esempio, La casa dei Doganieri e Non recidere forbice quel volto: Non recidere, forbice, quel volto, solo nella memoria che si sfolla, non far del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre. Un freddo cala... Duro il colpo svetta. E l'acacia ferita da sé scrolla il guscio di cicala nella prima belletta di Novembre. La donna-angelo, l’angelo della visitazione, apparsa al poeta come dono, scompare, ne resta il ricordo che sfumando nella nebbia della lontananza tutto oscura. Nell’espressione al negativo “non recidere forbice quel volto” viene invocata la possibilità di far sopravvivere l’immagine dell’amata oltre il freddo e la “melma” (belletta) che regala l’oblio. Le “Occasioni” sono gli istanti in cui è dato di poter intravedere una realtà diversa da quella vissuta, occasioni che nella vita Montale lascia sfuggire: indeciso e sempre legato a Drusilla, schiva con motivazioni pragmatiche e pretesti drammatici, quale il tentativo di suicidio della compagna, i reiterati segnali d’amore di Irma che infine lascia cadere ogni ulteriore tentativo fino ad interrompere la corrispondenza con il poeta. Nella sua ultima lettera, in possesso degli studiosi, così gli scrive: "Purtroppo, io ti amo. Ogni cosa che fai per farti del male, la fai anche a me. Non posso sopportare questa nostra vita dolente e poco eroica, ridicola quasi, ma vedo che ormai è troppo tardi per porvi rimedio..." Nel 1948 Montale viene assunto al Corriere della Sera e si stabilisce definitivamente a Milano. Scrive di attività culturale e politica nel segno di una tendenza a sostegno di una cultura borghese critica e razionale, reportages di viaggio, racconti e recensioni musicali. Nel 1958 le prose vengono raccolte e pubblicate nel volume Farfalla di Dinard, nel 1981 esce il libro Prime alla Scala, dove sono riunite le critiche musicali. In seguito escono le raccolte di poesia Satura, Diario del ’71 e del ’72 e Quaderno di quattro mani. Alla moglie Drusilla Tanzi sono dedicate le poesie di Xenia, titolo mutuato dal greco xenia che nell’accezione ellenica era non solo il dono fatto all’ospite ma aveva anche il significato di “ospite temporaneo”, ciò che porta al correlativo “presenza terrena” in quanto appunto transitoria. Fra i testi della raccolta è particolarmente significativa la poesia “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale: Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale E ora che non ci sei più è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono Le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio Non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due Le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue. Con gli “occhi offuscati” la Mosca, come Montale aveva soprannominato Drusilla, continua ad essere per il poeta, anche da morta, la guida, la rupe a cui ancorarsi e gli ricorda che il significato dell’esistenza non è la realtà che si vede, quella costituita da “scadenze, prenotazioni, trappole”, ma l’accettazione che la vita è un transito passeggero. Nel 1980, unico caso per un autore vivente, viene pubblicata l’edizione critica dell’intera produzione poetica di Montale, l’ Opera in versi. Nominato nel 1967 senatore a vita e premiato col Nobel nel 1975, Eugenio Montale, considerato uno dei maggiori poeti, se non il maggiore, del secolo scorso, muore a Milano il 12 settembre del 1981 per una vasculopatia cerebrale.
Anna Maria Bonfiglio
RICORDANDO MONTALE A TRENT’ANNI DALLA SCOMPARSA
Sono le ore 13 di giovedì 23 ottobre 1975 ed Eugenio Montale sta fumando nel salotto della sua casa milanese quando squilla il telefono. A rispondere è “la Gina”, ormai l’unica persona che vive con il poeta da quando è rimasto vedovo di Drusilla Tanzi. La Gina è stata presa a servizio in casa Montale negli anni Quaranta, su segnalazione di un medico, e da quella casa non si è più mossa, divenendo con il tempo la governante e la custode prima dei coniugi Montale e poi del vecchio senatore Eugenio. La Gina dunque risponde al telefono e subito si reca in salotto per annunciare al poeta che a chiamare è l’ambasciata di Svezia: gli è stato assegnato il Nobel per la letteratura. E’ un momento indimenticabile, la solitudine della casa viene invasa dagli annunci radiofonici e, subito dopo, dalle felicitazioni degli amici. Personaggio particolare, questo grande poeta, vissuto in una solitudine interiore seppure confortata dai rapporti con altri poeti e con stimati critici. A Genova, dove è nato il 12 ottobre del 1896 da una famiglia della borghesia colta e liberale e dove ha vissuto fino al 1927, ha frequentato Camillo Sbarbaro e Angelo Barile; a Firenze, dove lavora come redattore presso l’editore Bemporad, gli viene affidato l’incarico di direttore del Gabinetto Vieusseux, frequenta il Caffè delle Giubbe Rosse ed entra in contatto con Vittorini, Tecchi, Quasimodo, Gadda, Landolfi, Luzi… Il rifiuto a tesserarsi al partito fascista gli costa l’espulsione dal Vieusseux, i mezzi economici scarseggiano, vive di articoli e traduzioni, traduce Shakespeare, Blake, Emily Dickinson, Eliot. Lui, che a causa della salute delicata ha frequentato solo l’Istituto Tecnico, padroneggia l’inglese e si è costruito da giovane un background letterario leggendo e studiando assistito dalla sorella Marianna. Inoltre ha studiato canto con il baritono Ernesto Sivori, esperienza della quale gli è rimasto un grande amore per la musica che in seguito eserciterà nella funzione di critico musicale. La vita a Firenze scorre fra incertezze economiche e fragili relazioni sentimentali, conosce lo storico d’arte Matteo Marangoni e sua moglie Drusilla Tanzi dai quali nel 1929 viene ospitato per un certo periodo di tempo. Fra il poeta e Drusilla nasce una relazione, che si concluderà dopo una lunga convivenza con il matrimonio, ma ciò non impedisce a Montale di instaurare altri rapporti amorosi il più significativo dei quali è quello con Irma Brandeis, da lui immortalata con il senhal di Clizia nelle poesie de “Le occasioni”. Quello dei due è un rapporto vissuto nei tre viaggi che la giovane studiosa di Dante compie in Italia, nel ‘33, nel ’34 e nel ’38, ma nutrito da un lungo epistolario. Irma-Clizia dà un nuovo corso alla poetica montaliana che nelle liriche de “Le occasioni” coglie nelle apparizioni della donna un’epifania di nuovi ideali e di salvezza. Il soggetto lirico si sposta dal descrittivismo degli Ossi di seppia a una dimensione temporale dove l’assenza della donna, interlocutrice privilegiata, si rappresenta simbolicamente attraverso gli oggetti e i luoghi della memoria, vedi, ad esempio, La casa dei Doganieri e Non recidere forbice quel volto: Non recidere, forbice, quel volto, solo nella memoria che si sfolla, non far del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre. Un freddo cala... Duro il colpo svetta. E l'acacia ferita da sé scrolla il guscio di cicala nella prima belletta di Novembre. La donna-angelo, l’angelo della visitazione, apparsa al poeta come dono, scompare, ne resta il ricordo che sfumando nella nebbia della lontananza tutto oscura. Nell’espressione al negativo “non recidere forbice quel volto” viene invocata la possibilità di far sopravvivere l’immagine dell’amata oltre il freddo e la “melma” (belletta) che regala l’oblio. Le “Occasioni” sono gli istanti in cui è dato di poter intravedere una realtà diversa da quella vissuta, occasioni che nella vita Montale lascia sfuggire: indeciso e sempre legato a Drusilla, schiva con motivazioni pragmatiche e pretesti drammatici, quale il tentativo di suicidio della compagna, i reiterati segnali d’amore di Irma che infine lascia cadere ogni ulteriore tentativo fino ad interrompere la corrispondenza con il poeta. Nella sua ultima lettera, in possesso degli studiosi, così gli scrive: "Purtroppo, io ti amo. Ogni cosa che fai per farti del male, la fai anche a me. Non posso sopportare questa nostra vita dolente e poco eroica, ridicola quasi, ma vedo che ormai è troppo tardi per porvi rimedio..." Nel 1948 Montale viene assunto al Corriere della Sera e si stabilisce definitivamente a Milano. Scrive di attività culturale e politica nel segno di una tendenza a sostegno di una cultura borghese critica e razionale, reportages di viaggio, racconti e recensioni musicali. Nel 1958 le prose vengono raccolte e pubblicate nel volume Farfalla di Dinard, nel 1981 esce il libro Prime alla Scala, dove sono riunite le critiche musicali. In seguito escono le raccolte di poesia Satura, Diario del ’71 e del ’72 e Quaderno di quattro mani. Alla moglie Drusilla Tanzi sono dedicate le poesie di Xenia, titolo mutuato dal greco xenia che nell’accezione ellenica era non solo il dono fatto all’ospite ma aveva anche il significato di “ospite temporaneo”, ciò che porta al correlativo “presenza terrena” in quanto appunto transitoria. Fra i testi della raccolta è particolarmente significativa la poesia “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale: Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale E ora che non ci sei più è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono Le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio Non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due Le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue. Con gli “occhi offuscati” la Mosca, come Montale aveva soprannominato Drusilla, continua ad essere per il poeta, anche da morta, la guida, la rupe a cui ancorarsi e gli ricorda che il significato dell’esistenza non è la realtà che si vede, quella costituita da “scadenze, prenotazioni, trappole”, ma l’accettazione che la vita è un transito passeggero. Nel 1980, unico caso per un autore vivente, viene pubblicata l’edizione critica dell’intera produzione poetica di Montale, l’ Opera in versi. Nominato nel 1967 senatore a vita e premiato col Nobel nel 1975, Eugenio Montale, considerato uno dei maggiori poeti, se non il maggiore, del secolo scorso, muore a Milano il 12 settembre del 1981 per una vasculopatia cerebrale.
Anna Maria Bonfiglio
Id: 396 Data: 20/10/2011 19:48:55
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- Società
Amarcord per Palermo
Ci fu un tempo che Palermo non fu soltanto “sacco”, mafia e spazzatura ma anche impegno sociale, slancio culturale, fermento artistico e passione musicale, come testimoniano il film documentario di Mario Bellone, “Dreaming Palermo”, presentato nel corso del Seacily Jazz Festival 2010, e l’omonima mostra fotografica che, attingendo agli archivi dei migliori fotografi palermitani (Scafidi, Glaviano) e a quelli di privati cittadini, ha esposto 150 foto in bianco e nero che raccontano la città nel ventennio 1950-1970. Il film parte dal raduno musicale del luglio 1970, quattro giorni di una kermesse che ebbe luogo allo stadio della Favorita dove si esibirono Duke Ellington, Aretha Franklin, Brian Auger, Jhonny Halliday, Tony Scott e Kenny Clarke, gli Exseption e Arthur Brown, e dove migliaia di giovani sdraiati sul prato replicavano la Woodstock degli hippy. Il Festival Pop ’70 è nel film di Bellone il culmine di una Palermo dimenticata, ricordata e raccontata da musicisti, giornalisti, organizzatori di eventi, una città che oggi i giovani non possono riconoscere, che li stupisce perché creduta e identificata come luogo provinciale, lontana dai grandi fervori sociali e culturali, e senza speranza. E invece nelle belle immagini del film rivive la Palermo che, archiviato il dopoguerra, riscopre il piacere del ballo, della musica, del teatro e inaugura la stagione dei grandi concerti: il Teatro Biondo ospita Louis Armostrong, il Golden Nat Coleman, Ella Fitzgerald e John Johnson; nascono i locali dove si suona jazz: Mirage, Miramare, Birreria Italia, Caffè Moka, Open Gate e iniziano ad affermarsi Claudio Lo Cascio, Gianni Cavallaro, Enzo Randisi, musicisti il cui nome resterà iscritto nella storia del jazz siciliano. Nascevano le Settimane Internazionali di Nuova Musica, si esibiva il controverso maestro Stockhausen, si dibattevano i grandi temi dell’Avanguardia Europea, nasceva proprio a Palermo il Gruppo ’63 con Eco, Sanguineti, Pagliarani. S’affacciava il boom economico, la città iniziava ad essere saccheggiata, ma dal Belvedere di Palazzo Utvegio era ancora possibile scorgere le vie rettilinee e spaziare con lo sguardo fino al mare di Mondello e alle sue ville Liberty, e dai tornanti di Monreale ancora la Conca offriva aranceti e odore di zagara. Anche a Palermo, estremo lembo di continente e avamposto d’Africa, si evolvevano i costumi, i giovani occupavano le scuole e proclamavano l’autocoscienza, le ragazze osavano le minigonne e riconoscevano in Franca Viola, prima donna siciliana a rifiutare il matrimonio riparatore, l’antesignana di un sistema sociale che esigeva un cambiamento. Poi gli anni ’70 iniziarono ad avvelenare il clima nazionale ma a Palermo sopravviveva ancora un respiro di buona cultura, le librerie Flaccovio, Cavallotto, Ciuni accoglievano gli intellettuali siciliani che resistevano all’emigrazione, Leonardo Sciascia si divideva fra la capitale dell’isola e la Francia; proliferavano le associazioni: letterarie, teatrali, musicali. Fino agli anni ’80, gli anni della “primavera di Palermo” del sindaco Orlando, la città fu un fiorire di iniziative ed eventi culturali, si riaprirono antiche ville e si infiorarono i vicoli del vecchio centro storico. Dopo calò il silenzio della disfatta. Torneremo ancora a sognare per Palermo l’Aziz?
Id: 231 Data: 16/07/2010 15:39:37
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- Alimentazione
Lautunno siciliano di una poetessa tedesca
L’AUTUNNO SICILIANO DI UNA POETESSA TEDESCA
Verso la seconda metà del Settecento si verificò in Sicilia un forte incremento di viaggiatori. L’Isola, che i compilatori cosmografici del Cinque e Seicento avevano descritto come terra selvaggia di miniere e caverne di zolfo, vive in quel periodo la stagione mitica della sua riscoperta, un’età felice che si concluderà nei primi anni del Novecento con il dissolvimento delle due ultime dinastie commerciali: i Florio e i Withaker. Fino a quel momento la Sicilia aveva ospitato nomi illustri di artisti, di scrittori e di regnanti. Numerosi e prestigiosi furono soprattutto i viaggiatori di lingua tedesca quali, solo per citarne alcuni, Goethe, Freud, Wagner. Quest’ultimo dimorò a lungo a Palermo dove, chiuso in una camera del raffinato Grand Hotel et des Palmes, che a lui ha intestato una delle sue grandi sale, completò il suo Parsifal. Nell’autunno del 1951 arriva in Sicilia la scrittrice tedesca Marie Luise von Kaschnitz. L’Isola le si presenta nella realtà di un dopoguerra che la vede sì dilaniata dai bombardamenti, ma ancora custode di un passato di arte e di civiltà che nessuna guerra ha potuto cancellare. Da questa esperienza di viaggio nascono nove poesie che alla fine del secolo scorso sono state pubblicate dalle Edizioni della Battaglia con il titolo di “Autunno Siciliano” e con la traduzione di Maria Teresa Galluzzo e Fabio Oliveri. Nove poesie ciascuna delle quali ritrae e racconta alcuni dei luoghi dell’isola. La silloge si apre con un testo che ne “disegna il profilo”: “Un’ala come dalla spalla d’una dea/della Vittoria.//Lo schizzo, una zolla di monti rocciosi/rimasta in piedi sotto il fulgore del sole,/mentre con alga e sabbia e moto dei pesci/il mare ricopre le dolci pianure.” Sei versi nei quali l’aspetto geografico viene delineato come da una esperta matita d’artista. E continua addentrandosi nei particolari attraverso una scelta semantica che ne esplora colori, contorni, riti, dominazioni: “Questa dalla terra ferma, questa dall’Africa/questa dalla Spagna,questa dal Peloponneso:/ecco le vie dei navigli dei conquistatori stranieri.” E più avanti: “Ora sollevate dal sentiero del giardino i ciottoli bianchi/a due, a tre. Non vi risplendono/simili a templi e duomi nella luce lunare?” Oltre l’annientamento bellico ecco risplendere le vestigia delle antiche civiltà che nulla riesce a cancellare: “Splendore e rovina, eterno conflitto.” Dieci distici e un quadrisillabo finale raccontano Palermo in sequenza ossimorica: Palermo che luccica di chiese e gelsomini e Palermo di tanfo di morte e germogli color carne; Palermo “arcobaleno e nave arrugginita”, “tunica ridotta a polvere corona e spada”. Nessun’altra parola poteva dire meglio la duplicità di una contraddizione radicata nel tempo e nella storia. L’atmosfera autunnale induce la poetessa ad indagare la natura e le cose. Nelle gocce di pioggia respira l’arcobaleno, gli uomini sugli asini “cavalcano ai margini del cielo”, nelle capanne rurali si dialoga di pene antiche e miseria, ma infine il sole che “risucchia dal fango fattorie e vetri” risplende come “piccola luce rossa”. E via via tutto viene incluso nel dettato poetico: banditi e cattedrali, templi e miti, rovine e splendori, vivi e morti, una tassonomia in cui non si classificano generi e specie ma nella quale si riconosce il segno della potenza affabulatoria dell’autrice. La Sicilia che si presenta a Kaschnitz è luogo di miseria ma anche crocevia di luoghi e figure che, nel bene e nel male, hanno lasciato il segno: Agrigento, Siracusa, Selinunte; Pirandello, Aretusa, Empedocle. Ma anche il bandito “che ha concluso la sua vita come Gesù Cristo/per mano di un traditore”, nel quale ci è consentito individuare quel Salvatore Giuliano ucciso nel 1950. E’ la Sicilia che ancora e sempre vive nella contrapposizione, nel contrasto stridente, nell’antitesi, e che questi nove testi hanno consegnato ai lettori di due secoli quale prova illuminante di come la poesia possa rendersi anche documento storico. Marie Luise von Kaschnitz nacque nel 1901 a Karlsruhe ma ancora giovinetta si trasferì con la famiglia a Berlino. Nel 1925 sposò l’archeologo Guido von Kaschnitz-Weniberg e con lui nel 1941 si stabilì a Francoforte sul Meno che considerò sempre come la sua vera “patria”. Compì molti viaggi e soggiornò a lungo a Roma. Scrisse poesie, romanzi, saggi e biografie e conseguì diversi premi letterari. Morì a Roma nel 1974.
Id: 223 Data: 20/06/2010 18:53:27
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- Letteratura
Il gusto del Liberty nella poesia di Paul Géraldy
“Entra: ecco la camera confusa e provvisoria/ dov’ero solo e dove aspettandoti vivevo,/ e la mia tristezza con la sua lampada e gli armadi,/ ed ecco il ritratto di mia madre a vent’anni”
Inizia così, con l’invito ad entrare nella propria camera e quindi nella propria vita, essendone la camera il luogo-simbolo, la storia d’amore in poesia che Paul Géraldy ha intitolato TOI ET MOI. Storia di due cuori che s’incontrano, si amano, si annoiano, si dividono e infine si ricongiungono, a perpetuazione di un’abitudine d’amore ormai tanto radicata da non poter essere divelta. Storia comune che la parola poetica riveste di fascino e fa assurgere a fatto unico. TOI ET MOI esce in Francia nel 1913, il suo autore è un giovane poeta che il tempo ha collocato nel limbo degli autori minori fino a consegnarlo all’oblio. Invero la sua è una poesia che non suscita clamori, non presenta particolari innovazioni rispetto al tempo coevo e non si ascrive nel registro di movimenti o stili che hanno avuto peso nell’evoluzione della letteratura moderna. Eppure possiede una sua grazia di gusto liberty e rappresenta uno dei primi indizi di quella forma poetica di sapore realista che in seguito sarebbe esplosa con altri poeti di maggior fortuna, quale ad esempio Jacques Prévert. Paul Géraldy, al secolo Paul Le Fèvre, nato nel 1885 e morto nel 1983, è oggi un poeta sconosciuto ai più e la sua opera non ha certo inciso il corso della storia letteraria, tuttavia questo suo libro, che peraltro fu fra le sue opere quella più conosciuta, è un esempio di quella letteratura che agli inizi del secolo riuscì a coinvolgere un numeroso pubblico di lettori. Se proprio vogliamo fare dei collegamenti possiamo fare riferimento a quella letteratura definita rosa che nel primo dopoguerra sostituì il sensualismo dannunziano con un romanticismo di carattere borghese. Paul Géraldy fu anche autore di testi teatrali che egli stesso chiamò “tragedie leggere”, drammi imperniati sui conflitti interiori e sui giochi psicologici dell’amore; inoltre pubblicò un libro di memorie dal titolo Carnet di un autore drammatico e un libro di massime sull’amore dal titolo Amore, appunti e massime. Al suo stile, che fu definito mondano e leggero, non si può negare quel fascino, costituito appunto da un’apparente fatuità, che è lo stesso fascino di un’epoca che viveva il fermento della frattura con i canoni del classicismo. Le poesie di TOI ET MOI ricordano quelle cartoline inizio-secolo dove le immagini avviluppate da intrecci e ghirigori floreali finivano per suscitare ineffabili sensazioni. Un gusto estetico che rappresenta il tempo in cui viene espresso, quel tempo definito belle époque che all’uscita del libro è al suo spasimo finale.
Le poesie della raccolta sono di carattere colloquiale, una storia d’amore da leggere con lo spirito del tempo cui si riferisce e l’amore vi trabocca espresso con veemenza e spesso con sovrabbondanza di effusioni e di tenerezze. Ricordiamo che al momento della sua uscita le atmosfere dannunziane impregnano ancora i salotti ed in simile contesto la poesia di TOI ET MOI può rappresentare un punto di rottura per la forma dell’espressione che si avvale di un lessico dove la parola non ha risonanze auliche e non esplora il mistero dei simboli e delle metafore. La raccolta è una sorta di diario attraverso il quale il poeta ripercorre il cammino della sua storia d’amore, dal primo incontro alla conclusione. I versi sono la scarna rappresentazione della realtà, sono il quotidiano che si fa poesia per accogliere l’oggetto dell’amore ed inglobarlo in un mondo fatto di cose tangibili: i dischi, gli armadi, la lampada, il ritratto, e di tensioni intime, segrete: la malinconia, i versi. Mano a mano che la donna amata s’inserisce in questa realtà d’amore il discorso poetico si allarga e abbraccia una visione sempre più ampia dove trovano posto la malinconia per un distacco, la gelosia, l’incantamento, il dubbio, la tenerezza, l’inquietudine, il litigio. Poesia d’atmosfera, talvolta resa con un fraseggiare di tenere dolcezze, talaltra comunicata con impalpabile lievità. Il registro colloquiale si impreziosisce a tratti di versi che lo illuminano e ne riscattano il dettato strettamente connesso alla banalità della vita quotidiana ( quella malattia di cui poco mancò che non morissi ; un profumo d’anima t’inventi che non ti conoscevo ancora; ci amiamo soltanto per avere cominciato). In un alternarsi di stati d’animo che vanno dall’esaltazione alla caduta si snoda una storia d’amore resa unica dalla capacità del poeta di imprimerle un carattere speciale. Poesia di gusto liberty, si diceva, non solo per la descrizione dell’ambiente dalla quale emergono gli abiti, i cappelli, le lampade, le stanze, i satin, i pizzi, le frange, ma soprattutto per l’atmosfera che vi aleggia: raffinata, sospirata nei dialoghi, sospesa per gli interrogativi, gli esclamativi, le reticenze. Un quadro d’epoca che se da un lato rende datata la raccolta dall’altro ne fa testimonianza di tutto un modo di vivere e di vivere l’amore. Un piccolo documento di vita borghese in cui la poesia è l’estremo tocco di eleganza.
Id: 220 Data: 13/06/2010 18:51:30
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- Letteratura
Eros e misticismo nella poesia di Alda Merini
Ho conosciuto in te le meraviglie meraviglie d’amore sì scoperte che parevano a me delle conchiglie ove odoravo il mare e le deserte spiagge corrive e lì dentro l’amore mi son persa come alla bufera sempre tenendo fermo questo cuore che (ben sapevo) amava una chimera.
Analizzando questa poesia mi sono accostata alla tematica meriniana, per consuetudine ascritta prevalentemente al percorso manicomiacale-religioso, da una mia prospettiva. Questo breve testo, costituito da otto versi endecasillabi divisi in due quartine senza cesura con rime A-B, A-B, C-D,C-D, ancorché inserito in una raccolta di poesie d’amore dedicate, include una disposizione di segno più ampio, aperto a ben più di un significato. La purezza del verso, la scelta semantica e l’andamento lirico della composizione rimandano ad una misura d’amore che trascende la mera sensualità. Qui le “meraviglie d’amore” non sono solo lo stupore per il sentimento ma accolgono implicazioni di valore spirituale giacché si collegano agli elementi della natura e suscitano una gioiosa esaltazione che viene accompagnata dal tumulto dell’anima. Non si tratta dunque della “meraviglia” come sorpresa dell’incontro con l’altro ma delle “meraviglie” intese come prodigio d’amore aurorale dentro il quale perdersi (… e lì/dentro l’amore/mi son persa come alla bufera). In questo senso mi sentirei di assegnare al testo una valenza metafisica, un’eco mistica. Erotismo e misticismo sono d’altra parte due coordinate essenziali nella poetica di Alda Merini. Ma il sentimento erotico che investe grande parte della sua opera contiene in sé dei limiti, non rende felicità, è intriso di nostalgia, di rimpianto, è una ricerca continua che non placa il bisogno di donarsi. E’ tanto misterico quanto è misteriosa la scaturigine della parola poetica meriniana, vibrante, sferzante, aspra e dolcissima, stillata da una predisposizione naturale, quasi inconsapevole. Mistero è l’inquietudine dell’anima in bilico fra lucidità e follia, mistero l’esasperato inseguimento dell’eros e il contrappunto di un misticismo al limite dell’estasi, mistero infine l’approdo alla fede, l’incontro con la Croce e la rivelazione del messaggio cristiano comunicato attraverso la visione dell’attesa come meraviglia. La prima giovinezza di Alda Merini è segnata dall’incontro con poeti e critici già affermati nel campo della cultura nazionale, uomini molto più grandi di lei, dai quali impara quello che gli studi incompiuti le hanno negato. “(…) sedevo gomito a gomito coi grandi della poesia, con la classe del rinnovamento letterario. Io ero troppo piccola per capire cosa facessero quei grandi uomini. Erba, Pasolini, Turoldo, Manganelli.” E da qualcuno di questi grandi, grandi anche anagraficamente, viene attratta e coinvolta sentimentalmente. E’ facile immaginare quanto in questo pesi la figura del padre dal quale la giovane si è sempre sentita compresa. Racconta: “Mio padre aveva capito il mio destino di monaca e l’aveva aiutato. Mia madre lo aveva combattuto (…) e così mi obbligò a sposarmi. (…) Mio padre si oppose, ma lei fu molto decisa e disse giustamente che la vita in famiglia di una madre è molto più meritevole ed onerosa di quella dei Santi e non c’è grazia che possa illuminare una madre se non quella che viene direttamente da Dio.” La Merini nutre ammirazione per questa madre dalla rigida volontà e dalla notevole bellezza ma al contempo prova gelosia per il rapporto di forte complicità che avverte fra i genitori e fra i due sceglie il padre dal quale riceve insegnamenti e al quale chiede approvazione. Figura di riferimento, dunque, quella paterna, inseguita nelle tante presenze maschili e ritrovata come Padre Eterno alla fine del suo percorso. La poetica dell’Eros è in Merini un dolore che nasce da radici profonde, percorre la sua vita e la sua scrittura e in fondo si riduce ad una privazione sofferta, ad un bisogno di elevare lo spirito verso qualcosa di ideale e di trascendente. Alla fine è una condizione di solitudine e di vuoto che si riconduce alla necessità di farsi “abitare” da un’Assenza mistica. “Basta un sorriso o un’assenza e/ la mia mente concepisce un amore”. Tutto l’arco dell’esistenza di Merini è percorso da una tensione erotizzante che la conduce verso esperienze amorose che la poesia esalta o maledice ma sempre sublima attraverso la parola affabulante, fascinosa, temeraria nella sua sostanza per i tratti del vissuto che “osa” raccontare e audace nella sua forma per il privilegio di poter coniugare costruzione lirica e libertà versificante. Eppure il turbamento sensuale la prova, considera una condanna la sua appartenenza al sesso femminile al punto di stabilire quasi una relazione fra la follia e l’essere donna: “L’uomo che vuole imporre la sua diversità con la violenza fa pensare che nascere donna sia quasi un invito al delitto. (…) E ancora: “Il marchio manicomiacale della donna sono proprio i suoi genitali. Ogni donna è stata nel proprio manicomio. Ogni donna, benché si coprisse, ha dovuto sottostare alle voglie del maschio dopo la battaglia. (...) La donna viene umiliata ogni volta che ride ed è felice di se stessa.” Questa sorta di abiura ha radici lontane, nel tempo in cui la giovanissima Alda si scopre gelosa del rapporto fra i suoi genitori. Scriverà infatti: “Il più grande dualismo della mia vita furono mio padre e mia madre. Io un figlio che stava nel mezzo, con un sesso che non mi piaceva.” La complicità con il padre, considerato “il primo maestro”, è pari all’ostilità nei confronti della madre, ritenuta collerica e autoritaria. Scriverà in seguito a proposito della figura materna: “Sono anni che ti penso, e sebbene tutti dicano che sono impazzita per amore, sbagliano. Io sono impazzita per te. Sei stata la donna che ho odiato di più nella vita, perché eri bella, stupenda, regale…” Nella prima raccolta di poesie, La presenza di Orfeo, inizia a prefigurarsi la dualità presenza-assenza (si vedano i versi: “Orfeo novello amico dell’assenza”) e a delinearsi la percezione del corpo come limite e dell’amore come destino di abbandono; mentre in Paura di Dio si annuncia la tensione che ascende alla preghiera e si manifesta la concezione della passione amorosa come Vetta e Abisso. (“Padre, se questa ascesa/ è simile all’abisso e colorata,/ prosperosa ogni vena di ricordo,/ dammi morte ossequiosa/ dei miei ciechi travagli/ e una pura deriva/ a cui possa ancorare ogni divieto”). Qui Dio è ancora presenza indefinita, duplice entità che ha volto luminoso per chi non conosce travaglio ed occhi foschi per le anime inquiete che si scontrano con “l’ombra nemica” brancolando nel buio. Tutta la raccolta vibra di stanchezza interiore, nasce il dolore, “parto ultimo e solo”, per essere inghiottito dal respiro perfetto della morte (Pax). La preghiera è urgenza, solo Dio può porre fine al tormento scatenato dai turbamenti d’amore “perché è a Te che io tendo dalla vita/ prima che conoscessi questi inferni.” Amore-amori-amanti: cosa cerca Alda se non l’Amato, lo Sposo primo ed ultimo? E’ una lunga ricerca durante la quale si mettono in uso tutte le armi, è una corsa dentro la quale sta la paura e la follia, è un percorso di attesa e nostalgia, di accensioni e spegnimenti, di forza e di delusione. “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato /l’amato del mio cuore;/ l’ho cercato ma non l’ho trovato.” Dichiara la sposa del Cantico dei Cantici. E così Alda che non si stanca di percorrere sentieri bui, di bruciare di passione per ogni incontro, e ogni amore è per lei un’Annunciazione, anche quando il tempo ha accumulato anni e segni sul suo corpo e sulla sua anima. Cambia l’apparato simbolico, resta l’attesa, la ricerca di un unico volto che ha assunto vari nomi o, cambiando i termini, di un solo nome che si è rivestito di tanti corpi. Le duplici nozze, gli amanti goduti e quelli solo desiderati, le fantasie erotiche avvolte in dense metafore o espresse con linguaggio esplicito, tutto si riconduce al bisogno di abitare il vuoto, di popolare il deserto dentro cui l’anima vaga anelando il congiungimento che le renda un’identità unica. Già Pasolini, recensendo La presenza di Orfeo, parlava della “ragazzetta milanese” come di una personalità “dall’inquietudine nervosa e dai sensi infelici (…) che vive uno stato di informità” e continuava “(…) soltanto la mancanza del senso d’identità configura nella Merini un dato mistico.” L’aspetto peculiare della poetica meriniana si costituisce in una sorta di associazione ossimorica di erotismo e di misticismo, di cristianità e di paganesimo, in un linguaggio che può apparire irriverente ma che sboccia da una “splendida frase musicale piovuta dalle mani di Dio”, come lei stessa dice. E’ la luce mistica della sofferenza che accompagna il cammino della poetessa nella ricerca di una identità d’amore. “Mettimi come sigillo sul tuo cuore/ come sigillo sul tuo braccio/ perché forte come la morte è l’amore/tenace come gli inferi la passione”, prega la Sposa del Cantico. E Merini: “Ah, se t’amo, lo grido ad ogni vento/gemmando fiori da ogni stanco ramo/ e fiorita son tutta e d’ogni velo/ vo’ scerpando il mio lutto” (Genesi). Nella ricchezza dell’amore, genesi che cancella il lutto per ciò che è andato perduto o che mai si è trovato, si riflette quella sorta di misticismo umano che pervade l’eros quando è totale e felice, quando è dono di sé all’altro, quando è fecondo di intenti nei quali riconoscersi. Trovare l’Amato e perderlo e non stancarsi di ricominciare a cercare, perché la ferita della sua assenza è inguaribile e la nostalgia più grande del desiderio di arrendersi. La parola meriniana, corporea e fremente, racconta l’autentica essenza a cui appartiene primariamente la natura del poeta: materia di sensazioni che l’intelletto traduce in realtà metaforica, rivelazione misterica e testimonianza di vita. La donna Alda Merini cerca in ogni amante le tracce assolute dell’Amato, la parte “divina” che vive in ogni uomo, e in questa ricerca esperisce l’avventura nascita- morte- rinascita, sia attraverso la propria vicenda umana sia con il parto della parola creativa. “Quando tu non vieni/le acque del parto/si diffondono in terra/ e cade un pensiero meraviglioso/che tu vedi/ ed è la fine del mondo nel cuore di una donna/ (…) ma quando tu non vieni/ le acque del parto si colorano d’olio/ e io vorrei uccidere mia madre.” (Clinica dell’abbandono). Versi in antitesi, dove l’incipit è metafora di creazione gioiosa e la chiusa è tenebra di morte, desiderio di cancellare la nascita. Il corpo, nella sua gloria e nella sua miseria, è la chiave che può condurre l’anima ad aprirsi all’enigmatica dimensione dell’Invisibile. “Il suo sperma bevuto dalle mie labbra/era la comunione con la terra./Bevevo la mia magnifica/esultanza/guardando i suoi occhi neri/che fuggivano come gazzelle.” Versi audaci per la carica transustanziale che traghetta l’assalto dei sensi verso l’esaltante convinzione di appartenere ad una dimensione panteistica. La “comunione con la terra” è l’anticipo dell’Incontro Ultimo a cui Merini affiderà il tratto finale della sua avventura umana, condotta come un estenuante duello fra la vita e la sofferenza. Il dolore è stato nella sua carne e nella sua anima, urlo e silenzio, è stato la terra orfica dalla quale tutto ha inizio e nella quale tutto si conclude. “Si sfaldano le rose della mia avvenenza/piano piano in un terreno consunto./Non solo petali che ardono di luce/ma solitarie piante/di chi è stato a lungo dimenticato…” Merini vive una libertà di linguaggio che si apparenta alla lingua della contemporaneità, un linguaggio che pur restando radicato nella tradizione del secondo Novecento letterario parla alla modernità e forse proprio per questo la sua poesia, contrariamente a quanto succede alla poesia in genere, è amata anche dai giovani, soprattutto dalla parte femminile. La sua parola poetica è terra scavata e dissodata dove il seme della sofferenza fa germogliare la speranza.
Anna Maria Bonfiglio
Id: 217 Data: 29/05/2010 15:13:32
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