Secondo una concezione della psicolinguistica, il linguaggio sarebbe stato inventato o almeno sviluppato dai maschi degli esseri umani ai fini del corteggiamento. Un’altra teoria ritiene invece che a crearlo sarebbero state le donne preistoriche raccolte intorno al focolare allo scopo di comunicare tra loro ma anche controllare la prole. Personalmente, mi piace più la seconda ipotesi che mi è venuta in mente leggendo il titolo di questa esordio poetico in volume di Lina Sanniti, Madre di parole (deComporre Edizioni, Gaeta 2017) che richiama, per la donna, non solo la procreazione di corpi, ma anche la (pro)creazione di parole. E il libro appare come un ritratto di sé dell’autrice come persona – e donna – e come poeta. Si tratta, in effetti, come dice Floriana Coppola proprio nell’apertura della sua prefazione, di un “laboratorio esistenziale” (p. 8), ma, come chiarisce successivamente la prefatrice, non solo individuale, ma anche interpersonale: “Tra le strofe emerge il ‘noi’, come la fotografia istintiva di una coralità a volte di tutti e a volte più femminile” (p. 9). Il primo testo s’intitola proprio Passi di donne. E nella seconda stanza del componimento leggiamo:
Le strade hanno passi di sangue
impronte cieche, pesanti, silenziose.
Corpi di donne che grondano colpe
ignare di un destino che cuce le bocche,
spezza le reni, sconquassa i cuori.
S’insinua sotto pelle una scheggia di dolore
che il tempo non dissolve, non risolve” (p. 15)
Laddove l’ultimo verso, ripetuto suggestivamente, con minima variante alla fine delle tre stanze di cui si compone la poesia, ci restituisce il senso stesso della vita, di ogni vita, che appare sospesa nell’arco temporale in cui si tende mai definitivamente risolta eppure lì, sempre lì, finché è concesso. E seppure nel prosieguo la poesia si sviluppa liricamente – lirica come confessione d’un io –, questo primo testo inquadra, impagina il resto all’interno di una prospettiva trans-personale: come di chi appartiene a un più ampio genere – genere femminile, genere umano – del quale la propria vita è testimonianza; e in fondo è inevitabile affermare: “il mio corpo fulcro del mondo” (p. 47) . Così, di fronte all’assenza altrui, va rivendicato il proprio esserci: “La mia presenza / ciondola tra spazi e figure vuote / ignara della vita che scorre / eppure… io vivo!” (p. 27). Ignaro scorrere della vita che riecheggia ulteriormente quel non dissolversi-non risolversi. Ma se prima la cornice del proprio esserci era il tempo, qui è lo spazio, in un rapporto spazio/tempo fondamentale in questa raccolta. Una sezione – quella precedente in verità – s’intitola proprio Gli spazi vuoti. Nella terza e ultima sezione, quella che dà il titolo al libro, viene ripresa la metafora dei passi, ma declinata individualmente: “Proseguo il mio transito terrestre / a piccoli passi in cerca di un equilibrio / che non esiste ma mi tiene in vita” (p. 35). Di nuovo la magica sospensione tra il non risolversi ma neanche dissolversi.
Ne va quindi della propria identità, come è chiaro ne Lo specchio (p. 40):
Come in uno specchio invaporato
la mia immagine distorta
offusca sagome e storie
e le porge all’oblio di confusa memoria.
I bordi smerigliati e da sguardi incisi
la mia luce irradiano in ogni dove
tra fughe perdute e dolci ritorni
mi sorride ora quel volto che sarei.
Ma anche l’identità, che è ciò che conquistiamo in quel punto di equilibrio – nei vari punti di equilibrio –, non è mai assolutamente definita e definitiva. Che è ciò che emerge ne La forma (p. 44), la forma delle cose ma più specificamente la nostra: “mi piego, mi allungo, mi curvo, / ogni forma mi deforma”; e ancora, a chiudere: “Mi stendo, mi accolgo, mi arrendo / poliedrica posa ambisco e sfuma / mi allineo al tempo contromano / e a corrermi incontro rinuncio invano”. E appare di nuovo come ciò che siamo sia il frutto dei passi – a piccoli passi o di corsa – che compiamo. L’indefinitezza dell’identità cercata/costruita è resa dal classico lemma “ombra”: “Seguo la mia ombra smarrita / l’abbraccio e la trattengo, siamo ‘noi’, / per questo le parole mi servono” (p. 46). E si presentano due questioni, a cui abbiamo già accennato: il ‘noi’ e le parole (alle quali pure si attaglierebbe il tema della “forma”: la nostra forma è quella che diamo alle parole con cui di noi stessi parliamo).
1) Il ‘noi’. Il noi è la famiglia: ed ecco il padre (“mi hai offerto il braccio e il pugno / eri l’ancora e la tempesta”, p. 16) che dissetava la sete di vita delle figlia che pure tendeva a smarrire la via. È la casa, o meglio le Case impopolari (p. 18) che raccolgono un’infanzia tra cielo, campagna, croci di cimitero e fumarole di fabbrica, tra il cortile sorta di prateria nella fantasia e le pareti come abbattute dal vociare delle madri con la comparsa solo serale dei padri (“Nell’alveare delle nostre nuove case / mi mancava più di tutto lo sgabello della nonna / sul quale sapevo saltare e cantare felice”); si tratta anche de Le case degli altri (p. 50), da un titolo che evoca la Casa d’altri di Silvio d’Arzo: nel testo della Sanniti, tra il “restare” e l’“andare” si svolge una fenomenologia del luogo “altro” nel quale si gioca il senso della propria estraneità e inappartenenza, un luogo astratto e reso universale pur nella presenza di dettagli precisi – letti a baldacchino, venature del legno, colori alle pareti; precisa ed evocativa allo stesso tempo, nella sua concisa eleganza, la scrittura, declinata in gruppi di versi ciascuno autonomo e insieme sviluppo del testo complessivo. Quindi, la citta cantata in Napoli intima (p. 22) che sa eternarsi nella passione di due fugaci amanti: “Ti cerco nell’abisso delle tue viscere / risalendo verso la luce del tuo mare / ogni strada, ogni crepa, ogni onda / mi è compagna e mi riconduce a te”. Infine (last but not least) l’amore e la sensualità (“All’ombra del cuscino senza pace / mi svesto di sottana e di piacere. / Le braccia sono rami all’infinito / e le gambe piantano rovi forse ulivi”, p. 39).
2) Le “parole”, quindi, tracciano un “vivere scritto” anche se non sempre riescono – anch’esse come la vita – a raggrumarsi in un senso compiuto (“Microcosmi di sensi divenuti parole”, p. 30) nonostante il tentativo di legarle con la rima. Così proprio nel testo eponimo, Madre di parole (p. 43):
Affido la lingua al filo del fuoco
spengo parole povere di senso
sospeso il vuoto di un vivere scritto
scompongo gli argini carichi di segno.
Bianco il foglio del mio corpo aureo
il guizzo attende d’inchiostro etereo
nell’aria svolazza la rima impertinente
riprendo a memoria il racconto silente.
Non sono madre di niente se non di parole
E anch’esse a volte ramingano sole.
Una scrittura di classica misura che non ostenta le ferite o i piaceri della vita ma, a volte quasi sottovoce (“ingurgito il vapore del non detto”, p. 31), ne porge al lettore i ‘segni’ che pur restano, nella vita e nella coscienza – di chi scrive, di chi legge –, indelebili.