Instancabile promotrice culturale e autrice di lunga data, si offre la romana Cinzia Marulli in questa sua terza prova nella tensione accesa di un io naturalmente, umanamente inquieto tra scioglimenti di ferite e perdite e insaziati, forse insaziabili desideri d'amore e di vita. Il senso allora è in un percorso come da titolo, nella frammentazione infinita dei percorsi, che sappia rinucleare le l'identità entro quella più vasta unità d'origine che ci trasforma e trascende, accompagnarla allora sulla via di un ritorno a cui siamo indirizzati e chiamati. Così sapientemente chiara la parola nella sua evocazione in un intento da subito svelato, giacché è proprio nel rimemorare il ritorno l'orizzonte scritto della poesia (nell'andare è tutto un tornare cantava Campana) e matericamente viva nell'attraversamento arido dei deserti nella desolazione corporale e d'anima di un tempo che si pensa- si sa nelle sue finzioni- fermo. Ed allora ha un che di orientale questa disposizione dei movimenti, questa continua dilatazione di metamorfosi a vincere le insane staticità delle febbri, questa narrazione di elementi che si sciolgono e si cercano in quel germoglio paziente della terra che dal basso sapendosi piegare svela del cielo il senso obliquo, il tempo nel suo primo giorno ancora intatto. Il piccolo sembra sorreggere il mondo in questa poesia (si legga non a caso "Non sono questi alberi immensi a cui tende il pensiero"), riportarlo alla sua fertilità di spiga da suolo finalmente umido e gravido per attesa e cura, per custodia. Un mondo di cui pertanto la Marulli sa illuminare le fratture partendo dalle separazioni e le solitudini di un femminile sempre in equidistanza tra l'amore e l'offesa degli esseri, quasi a tenere stretto a ricucire quel filo, quell'erba che rompe, vive tra le crepe. Ed allora non sorprende il timbro etico e civile di un dettato che non sottrae alla memoria cancellazioni passate e presenti (la shoah, Gaza, la terribile pratica dell'infibulazione) a dire una storia cui ognuno è chiamato nell'azione a pronunciarsi. Infatti la fede che muove il percorso è nella gioia e nella fatica della condivisione dell'amore, dentro "l'amore a doppio senso, l'amore in ogni senso", a vincere la distanza tra spazi di dolore e indifferenze, il margine del tempo aldilà d'ogni retorica come luogo dell'abbraccio ("il peso del mondo/l'assurdo peso di tanta pietra" gravando "solo su una poverissima corona di spine"). Conveniamo con Jean Portante allora che nella sua bella prefazione parla di poesia esistenziale (e non esistenzialista) nel movimento duplice di ascensione al cielo e di radice nella terra, ed in cui il morire stesso è iscritto nella sacrificale rinascita. E proprio sul tema della morte, unito a quello dell'oscurità, sono incentrati i testi della terza e ultima sezione, Il riflesso della luce, nell'interrogazione di un mistero che è nella stessa fine, nel folle pensiero di una luce che "avanza come l'esercito di terracotta- nel tempo", di là finalmente detersa l'anima con parole che si faranno e la faranno preghiera- e germoglio nell'erba come nella poesia finale dedicata al padre. In conclusione, a nostro dire, una tappa non banale di un autrice col senso prezioso dell'esistere cui difetta- ma solo in parte- certa dispersione del dettato in un eccesso prosastico del verso che toglie forza ad una parola che necessita e chiede peso.