Geco o della resistenza
Per distinguere un geco su una qualsiasi superficie è necessario a volte abbandonare l’idea di contorno, accentuare il contrasto, rivedere le distanze, la prospettiva di osservazione, perché un geco resiste anche nei territori più impervi, si mimetizza, rimane nascosto per infiniti lassi di tempo, basta a sé stesso, ipnotizza chi lo guardi con insistenza. La scrittura di Gualberto Alvino possiede le stesse caratteristiche: aderisce a tutte le superfici dell’anima, compresi spigoli e anfratti scivolosi.
Descrivere un attimo è possibile? Il tempo dilatato o rincorso grazie a una sintassi ora densa ora morbida; descrivere il piccolo spazio che si interpone tra il punto in cui nasce un’idea e la sua enunciazione con parole esatte. Leggere Geco vuol dire affidarsi a pagine specchiate, che riflettono l’immagine dei nostri pensieri; specchi fatti di parole, si direbbe di versi, tanto è forte il tono poetico di ogni capitolo, in cui il lettore vede riflessa la sua intimità, i suoi pensieri, anche quelli che si ricacciano indietro con circospezione, con vergogna. Le parole danno forma a un’immagine autentica, quella che ci appartiene interamente solo quando è indagata con onestà intellettuale.
La protagonista pone una domanda latente che accompagna il lettore, invischiato nel trasferimento di sensazioni, più intense che il sentimento, ovvero: quale dei tanti riflessi sono io?
Non possiamo conoscerci. Anche solo in senso fisico. Dovremmo riflettere su questo: chissà che non sia qui, proprio qui, l’origine di tutte le sciagure: il solco incolmabile tra il simulacro che fabbrichiamo di noi e quello dagli altri percepito. (p. 66)
Un gioco abilissimo di immagini che non confonde ma conferma, che dà forma ai momenti che ci attraversano e che sfuggono, così da orientarci tra quello che il dentro e il fuori di noi, tra i diversi gradi di percezione.
Una filosofia di fondo viene centellinata nella narrazione, come sprazzi di respiro lungo, un modo per dare unità ai pensieri.
Unificare? O non piuttosto contenere? Albergare galassie fra cui non corre alcun rapporto, nessuna affinità? Per quale motivo, allora, l’arte dovrebbe rispecchiare un mondo che non c’è, né fuori né tantomeno dentro la nostra testa? L’unità non fa parte di noi. È una morgana. E i sogni ce lo ricordano ogni notte. (p. 23)
Ci illudiamo di sapere e non sappiamo niente.
Crediamo di vedere e non vediamo niente.
Si cammina sui cadaveri. (p. 50)
Tra le pagine si fa strada la consapevolezza di affrontare concetti che riassumono una condizione, ben oltre la realtà del qui ed ora. Essere un geco vuol dire, per la protagonista, essere consapevole. Questa condizione implica un graduale superamento dei confini, a partire da quelli corporei: l’abbandono dell’involucro deperibile è una prassi iniziata dall’infanzia, da quando era solo un mezzo per ottenere un posto nel mondo, essere la prediletta del maestro, passando poi per una funzione, quella della maternità, fino ad arrivare ad essere un ingombro di cui tentare di disfarsi attraverso l’autolesionismo. Essere consapevoli vuol dire accettarsi: riconoscere che si è compositi, che si è unici grazie alla diversa combinazione di percezioni che ci compongono.
Spesso nel romanzo il punto di vista si apre a scheggia in miriadi di pezzi:
Sulle scale ho incrociato la maga e ho risposto alla sua smorfia con un sorriso. Nell’andito il figlio del notaio lanciava la palla contro il muro dove la postina infilava buste nelle buche (tutte fuorché la mia); ho fatto un cenno alla moglie del portiere che spazzava il marciapiede sbirciandomi il bustino attillato, al marito che sfogliava i giornali sulla panca del rosticciere, e proprio in quel momento è passato un mio vecchio scolaro, il migliore che abbia avuto, con un marmocchio in braccio e altri due stretti alle brache: ha salutato con un mezzo inchino, ha abbassato lo sguardo e è sgusciato via arricciando la fronte per non dovermi dire non ero quel che speravi, mai arrivato al cospetto dell’Angelo. Sono andata al bar, ho comprato le sigarette e sono tornata a casa dopo aver fatto quanti incontri, nove? dieci? E tu credi fossi io, sempre io, sempre la stessa? Ogni volta mi guardavo coi loro occhi e gelavo, perché era come se un intruso mi s’infilasse nella pelle, la foggiasse a piacere e vi s’accomodasse senza complimenti. (p. 22)
Siamo caotici, presi nel turbine delle nostre lotte interne, intenti a difenderci da ciò che disconosciamo e ad accomodarci in confortanti cliché. Geco, abbandonando il sé vincolante, deborda nelle vite degli altri; spiandoli cerca di restituirsi quello che le interessa di più: un punto di vista diverso, una percezione non falsata dall’identità costruita. La scrittura — ricca, sintatticamente affascinante — libera le sensazioni: è un veicolo per comunicare, per dar forma a un mondo che sfugge, quello che la protagonista cerca di afferrare con i fotogrammi delle videocamere, con le microspie, e che tuttavia le sembra ancora evanescente; un mondo che infine prende corpo solo attraverso le parole, scagliate come pietre: decise, nette, vigorose.
Attraverso la poetica delle cose, delle parole che enunciano la necessità di concretezza, Geco parla in modo diretto e colpisce il lettore con l’immediatezza di un’esperienza di prima mano, condivisa, mai banale, un punto di vista affatto scontato: cosa vedremmo di noi se gli altri ci prestassero i loro occhi? Geco ha letto la Song of Myself di Walt Whitman e vuole condividere il gusto di essere altro da sé: un odore, un oggetto, un brivido; ruba con gli occhi ogni piccolo atomo del mondo esterno per appartenervi sempre di più, per sfuggire a una visione vincolante, autocentrata, dalla quale è bene stare in guardia per evitare di perdere il senso del tempo, che acquista valore se condiviso, relativo, rifratto.
Ma fissavo una foglia e provavo invincibile il desiderio di vederne le vene; ascoltavo una voce e la scandivo in serie d’onde sonore di cui percepivo partitamente ogni vibrazione; annusavo un ciottolo e mi stordivano infiniti effluvi. Il cervello era spento, restavano accesi solo i sensi (p. 33)
Geco dipinge e scrive lettere che non avranno mai risposta, pagine di diario in cui la sua percezione si dilata: linguaggio e pittura procedono per immagini:
Uno mi chiede sempre di descrivergli accuratamente il mio ultimo quadro. È ingordo di particolari e mi bersaglia di domande: tela o tavola, olio o acrilico, netto o sfumato? Suo figlio muove solo le dita dei piedi, e con quelle dipinge le immagini che lui gli propone. La mattina dopo mi porta nel camion e scarta eccitato un piccolo capolavoro d’ingenuità: la mia descrizione in corpore vivo. Distante mille miglia dal dipinto di partenza, ma intenso, carico di brio. E si fa spunto per un mio nuovo quadro. (p. 95)
Il linguaggio è fonte di malintesi, scriveva Antoine de Saint-Exupéry, e in questo passo si evidenzia come lo spazio tra il racconto e la sua intesa siano pregni della soggettività ingombrante che rende la comprensione un terreno scivoloso. Sebbene Geco si esprima a mezzo del racconto e della scrittura, sembra conoscerne la natura fallace, ovvero le mancate risposte; decisa dunque a mimetizzarsi al meglio, a coprire tutta la realtà con un solo colpo d’occhio, oltrepassa anche questo limite, portando la comunicazione verso forme più iconografiche, con forza di volontà adamantina.