Sorprendente, immaginoso, visionario, come la maggior parte dei romanzi di Roberto Pazzi, Lazzaro, l’ultimo in ordine di tempo, è innanzitutto una dichiarazione d’amore per la città di Roma, incantevole teatro a cielo aperto in cui si svolgono le vicende dei tre protagonisti principali: Leo Bonsi, il despota ormai vecchio e malato, impotente, ma dedito al voyerismo; Alberto Cantagalli, il maestro, che si dà la missione di ucciderlo per il ripristino della democrazia; Santa Teresa, che, tornata rediviva, sembra risolvere la millenaria schizofrenia tra erotismo e misticismo in un crescendo di ‘fisicità’ e di lirismo appassionato, divenendo presenza e figura della necessità e della peculiarità della Poesia, a cui pure Pazzi si dedica da sempre.
Questi tre personaggi rappresentano anche tre incarnazioni diverse del topico binomio Amore e Morte: Bonsi che cerca di ingannare la prossimità della morte (fisica e politica) dedicandosi a spiare le prestazioni sessuali delle sue guardie del corpo; Alberto Cantagalli che coltiva il sogno di dare la morte al tiranno per amore dei valori umani della libertà e della dignità; santa Teresa che ritorna dalla morte per sposare con l’amore celeste quello terreno allo stesso modo con cui opera, appunto, la Poesia.
La città di Roma, sede del potere politico e religioso, luminosa d’arte e insieme misteriosamente oscura, sfolgorante di maestosità e però anche decadente, è certamente il luogo ideale per una vicenda come questa che si sorregge sullo scontro tra fede e potere, tra idealità e perversioni. In qualche modo la Roma di Pazzi ricorda quella celebrata da Sorrentino nel suo film “La grande bellezza” che, sia pure orchestrato secondo moduli estetici ed intellettuali differenti, tuttavia si conclude anch’esso con un messaggio o, meglio, con una speranza di redenzione.
Ma quello che di nuovo, forse addirittura di rivoluzionario, c’è in questo romanzo di Pazzi è qualcosa di più sottile, che scavalca la stessa trama, che chiama l’uomo, come Lazzaro che dà il titolo al romanzo, ad una rinascita senza precedenti. Lazzaro indugia di fronte al richiamo di Cristo che vuole riportarlo in vita, anche perché Lui continua a ripetere il suo falso nome, a ribadire il peccato dell’eros, se è vero, come Pazzi ipotizza, che Lazzaro fosse una fanciulla innamorata di Cristo e morta per eccesso d’amore non consumato.
Quello, dunque, che più coinvolge e stupisce di questo romanzo (oltre la spettacolarità di certe soluzioni immaginarie e le metamorfosi e lo svelamento di altre segrete verità) è il suo procedere sulla linea grigia (è il colore della copertina) che si colloca tra bene (il bianco) e male (il nero), quella su cui gli opposti si toccano ed in parte si fondono.
Di fatto non c’è protagonista che incarni l’assolutezza di una virtù o di un vizio e che non abbia in sé ampie porzioni di entrambi: il buon maestro romagnolo finisce con l’essere ossessionato dalla sua volontà di uccidere; il despota Bonsi appare, nella sua vecchiezza e nella deformazione del suo appetito erotico, ridicolo e patetico, sebbene il suo voyerismo sia, freudianamente, fame d’amore e paura della solitudine, e talvolta lo sfiori pure il desiderio di qualcos’altro, fosse pure la dimensione della morte.
E Teresa non è solo una santa che recupera man mano le sue reliquie sparse tra chiese e palazzi reali per diventare di nuovo corpo integro che recupera un passo sicuro e sensuale, dopo la sua iniziale e tenera zoppia, ma anche la fanciulla innamorata che vede nei tratti di Alberto Cantagalli quelli del suo primo amore. È la santa con un corpo teneramente femminile che scolpì Bernini, colei che si abbandona a Dio con quel languore sensuale vigilato da un angelo-cupido che la guarda con un ambiguo sorriso. Teresa è l’eresia dell’amore, così come Lazzaro: sono loro che si sbilanciano di più sul confine tra lecito ed illecito, tra sacralizzazione e desacralizzazione.
Allo stesso modo l’imperfetto e troppo terreno Cantagalli viene paragonato a Cristo e il Signore delle mosche (cioè il Diavolo), che spesso si intrattiene a conversare con lui, non è la creatura mostruosa cui ha dato vita l’immaginario collettivo, ché anzi, appare pietoso nei confronti del maestro, e spesso lo introduce alla comprensione più profonda degli eventi, e, infine, gli impedisce di macchiarsi di omicidio, portando via il vecchio corpo del despota Leo con l’aiuto di Belfagor che è nientemeno che l’Angelo di marmo con la spada che troneggia su Castel Sant’Angelo: altra ‘verità’ svelata dopo secoli di false convinzioni.
Tra le varie metamorfosi introdotte da Pazzi, la più lirica è quella di Santa Teresa che ricorda il metodo descrittivo, qui capovolto, dei racconti ovidiani, ma la più interessante è quella di Cantagalli (prima trasformato in mosca e poi in farfalla). Si tratta, comunque, di una trovata inventiva non nuova in Pazzi (in Cercando L’imperatore i fedelissimi dello zar si trasformano in uccelli per potere comunicare con lui); ma in quest’ultimo caso mi sembra importante la sottolineatura dell’autore tra la perfetta identità della farfalla-Cantagalli e quella posata sul capo di Lazzaro bendato in un dipinto osservato in una chiesa romana; perché, se è vero che i volatili rappresentano per Pazzi – come lui stesso scrive ‒ la leggerezza di cui ha fame il mondo, è questo, dunque, il sogno da perseguire per una rinascita alla vita (Lazzaro) e per una metamorfosi dell’Uomo (Alberto Cantagalli). Del resto la farfalla è anche il simbolo più diffusamente affrescato nelle tombe antiche in quanto “animale spirituale”, come già indica il nome greco psyché . L’umanità, insomma, deve riprendersi le ali e imparare di nuovo a volare, come fa quasi da sciamano il maestro Cantagalli in uno dei passaggi più suggestivi del romanzo, quando, sotto le spoglie di un insetto, sorvola la città eterna e, nel contemplarla, la proietta su un piano ideale di intatta bellezza.