Pubblicato il 27/04/2014 00:24:15
Cicerone è stato allo stesso tempo un oratore e un teorico dell’oratoria, la pratica e la teoria si compenetrano l’una nell’altra traendo spunto dall’esperienza tanto dell’avvocato quanto del politico. Prima della svolta filosofica degli ultimi, desolati anni, tanto l’oratore quanto il retore collimano col filosofo al punto di accusare Socrate di aver provocato una frattura epistemologica tra retorica e filosofia (De oratore, 3, 60). Allo stesso modo è oratore il filosofo che insieme alle res mostri anche i modi espressivi e filosofo è l’oratore che nell’inventio si avvalga di sapienza come di ars rhetorica ai fini della dispositio e dell’elocutio, provvisto di utilità pratica e funzionale alla vita politica, la retorica essendo parte non tecnicistica dell’oratoria anche nelle fasi conclusive della memoria e dell’actio. Cicerone preferisce l’Aristotele induttivo a quello deduttivo, fermo restando il dubbio, ben messo in luce da Antonio Manzo, se a determinare la sua scelta "non sia stata la mancata o tardiva conoscenza di un Aristotele perduto dagli Antichi fino all’edizione curata da Andronico di Rodi (circa la metà del secolo I a.C.) e conservatosi ancora ai tempi presenti, invece di quello perduto per noi, ma noto agli Antichi" (La formazione retorica di Cicerone, in Scripta philologa, Roma, Nova Millennium Romae, 2003, p. 237). Così Lucio Crasso nel De oratore contrasta Antonio, che da parte sua svaluta la retorica non riconoscendone il potenziale dialettico e psicologico, attenendosi ai loci communes, mostrandosi cioè riduttivo verso i luoghi specifici propri dell’oratoria. Cicerone dunque prima di diventare filosofo fu retore nel senso più vicino ad Aristotele, che prescriveva la logica nella retorica, e si era distanziato dalla techne elaborata da Ermagora di Temno.
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