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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Leggere e scrivere

di Silvia Rizzo
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Pubblicato il 16/06/2011 12:01:35

Mi ricordo benissimo di quando ancora non sapevo leggere. Osservavo smaniosamente le sequenze di minuti segni neri sulle pagine stampate cercando invano di penetrare il loro segreto. Andavo dagli adulti porgendo pagine di libri o di giornali su cui puntavo il dito con un lamentoso «Mi leggiii?». Ma gli adulti avevano sempre altre cose da fare e la lettura di qualche segmento che mi elargivano a volte distrattamente serviva solo ad acuire la mia curiosità. Avevo tra i quattro e i cinue anni quando mia madre finalmente si impietosì e decise di insegnarmi a leggere, ma non avendo alcuna nozione specifica in materia, si limitò a farmi imparare i singoli segni alfabetici e la mia smania di forzare il mistero della parola scritta fece il resto. Per molti anni la mamma continuò a raccontare divertita di quando mi aveva visto arrivare col dito puntato su una parola dell'abecedario e chiedere lamentosamente: «'Gi' più 'elle' più 'i' che fa?».
Ancora rammento il senso di onnipotenza quando finalmente mi impadronii della chiave di quegli arabeschi neri sulla carta bianca. Mi sembrava che il mondo ora non avesse più limiti. Mi si aprivano di fronte territori da esplorare così immensi che intuivo già allora oscuramente che tutta la vita non sarebbe bastata ad esaurirli.
Cominciai freneticamente a leggere facendomi via via meno incerta e più rapida. Moltissime erano le parole sconosciute per una bambina di poco più di quattro anni, ma non avevo tempo di fermarmi a cercare spiegazioni. Così le mie prime letture avevano larghe zone di ombra. Tiravo avanti immagazzinando mentalmente le parole ignote, che prima o poi si ripresentavano in altri contesti: a poco a poco assumevano una fisionomia meno vaga e cominciavo a intuire il loro significato come un investigatore che mette insieme tutti gli indizi. La stessa tecnica avrei utilizzato più tardi nell'apprendimento di lingue straniere attraverso la lettura.
Non cominciai da sillabari o da libri illustrati per bambini, ma affrontai subito la letteratura vera, sia pure quella per ragazzi. Cominciai con le fiabe di Capuana, che mi erano state donate in due volumetti della Casa Editrice Marzocco. Le fiabe erano illustrate da semplici disegni in nero: nulla a che vedere con le raffinate e coloratissime illustrazioni dei libri per bambini di oggi. Alcune strofette inserite in queste fiabe le imparai a memoria e a ripeterle mi riportano ancora il sapore di quella mia prima lettura: «Stretta la foglia, larga la via, / dite la vostra, ché ho detto la mia» oppure «Spera di sole, Spera di sole, / sarai regina se Dio vuole». Fu certamente mio padre a mettermi in mano come prima lettura il suo conterraneo Capuana: con lui, professore di Estetica nell'università di Catania, si era laureato il mio nonno paterno, come avrei scoperto assai più tardi, e probabilmente anche mio padre bambino aveva letto quelle stesse favole. Papà era solito servirsi del primo verso di una di quelle strofette, «Topolino non vuol ricotta», quando voleva rifiutare qualcosa (il testo proseguiva così: «vuol sposar la reginotta, / e se il re non gliela dà, / Topolin l'ammazzerà»). Sicché questa prima lettura mi introdusse in un mondo fantastico di cui partecipava anche mio padre e i versi di Capuana divennero una sorta di linguaggio in codice fra noi. Poi, con un brusco salto, passai ai Figli del capitano Grant di Verne, che mi tennero occupata per vari mesi.
Con questa e con le altre letture che seguirono mi inoltravo faticosamente ma con baldanza in un mondo nuovo e affascinante che presentava difficoltà di ogni genere, non solo linguistiche. Ricordo come rimasi perplessa e stupita la prima volta che lessi un libro che non seguiva un rigoroso ordine cronologico, ma inseriva a un certo punto il racconto degli antefatti. Era uno della fortunata serie di libri illustrati per bambini «La scala d'oro». Questa collana comprendeva fra l'altro numerosi rifacimenti per l'infanzia di opere letterarie. Un volume condensava in poche pagine la tetralogia di Wagner e cominciava col racconto dell'infanzia di Sigfrido allevato dal nano Mime. Poi improvvisamente, in maniera per me assolutamente inspiegabile, si inseriva il racconto degli amori di Sigmundo e Siglinde, dai quali a un certo punto - e qui la mia perplessità toccava il suo culmine - nasceva proprio quel Sigfrido che nel capitolo precedente avevo lasciato ormai adolescente intento a saldare i tronconi della spada del padre morto! Quanto tempo passai a rimuginare su questa stranezza! Tutte queste zone d'ombra non toglievano affatto fascino alle mie letture, anzi l'accrescevano, dandomi il senso quasi di un sacro mistero, che necessariamente presenta aspetti incomprensibili per i suoi fedeli.
Un altra riduzione per ragazzi, quella dell'Odissea fu tra le mie prime letture. Forse fu allora che si destò in me quella passione per i poemi epici e cavallereschi che poi avrei cercato di saziare con letture avide di tutto quello che veniva a tiro, che a un certo punto giunsero a includere perfino il secentesco poema eroicomico Il Malmantile riacquistato. Tra i libri che si trovavano in casa c'era una traduzione in prosa dell'Iliade ad opera di Nicola Festa. Era un volume pubblicato da Sandron nel 1924, che presentava all'inizio di ogni libro suggestive illustrazioni di gusto liberty. Attratta da queste illustrazioni, che lo rendevano simile ai libri per ragazzi che avevo per le mani allora, mi cimentai nella lettura. Sebbene la traduzione fosse in prosa, lo stile era quanto mai elevato e per di più Festa aveva scelto di mantenere forma e grafia dei nomi greci e si teneva aderente al testo greco riproducendone con accuratezza filologica le caratteristiche, la formularità e perfino l'ordine delle parole. Il risultato era questo:

Canta, o dea, l'ira del Peleiade Achille, l'ira funesta che innumerevoli affanni diede agli Achei, molte gagliarde anime di prodi gettò ad Aide; e rendeva essi stessi preda a cani e uccelli rapaci, compiendosi il disegno di Dia, / fin da quando vennero da prima in discordia e contesa l'Atreide signore di uomini e il divo Achille.

Si può immaginare cosa fosse una simile prosa per una bambina. Naturalmente non ci capii nulla, ma mi confermai nella mia religiosa ammirazione per il misterioso mondo della parola. Quel libro, con le sue belle pagine contornate da un'elegante cornicetta nera e con le sue misteriose illustrazioni, continuò ad essere per me una sorta di supplizio di Tantalo. Mi sembrava impossibile non riuscire a capirlo e ci riprovavo caparbiamente. Ma dopo poco dovevo di nuovo rinunciare. All'Iliade ebbi poi accesso in qualche altro modo e mi innamorai a tal punto degli eroi omerici che Ettore e Achille divennero protagonisti dei miei sogni notturni.
Visto che ormai avevo imparato a leggere ma per la scuola pubblica non avevo ancora l'età, i miei genitori mi fecero studiare privatamente per due anni, dopo i quali con un esame fui ammessa in terza elementare. Un giorno sì e uno no andavo per un paio di ore a lezione da una certa signorina Telli, che abitava non lontano da noi. Credo che fosse una maestra elementare in pensione. Nel salotto c'era un divano pieno di bambole ben vestite, dalla funzione per me misteriosa, visto che non ci si poteva giocare. Della maestra e delle sue lezioni non ricordo nulla, ma so che in quei due anni beati con quelle due ore di lezione a giorni alterni e con qualche modesto compito a casa giunsi molto più avanti di quello che era il normale programma di prima e seconda elementare. Non ho mai amato la scuola e le sue infinite costrizioni e sono rimasta tutta la vita a domandarmi che scopo aveva andare ogni giorno a perdere quattro o cinque ore seduti al chiuso su un banco e perderne altre ancora a casa ad eseguire compiti quando il termine di confronto di quelle lezioni private mi garantiva che avrei potuto studiare con molto più profitto in un quarto del tempo che sprecavo a scuola. Non ho mai interrogato in proposito i miei genitori, ma ho la vaga impressione che il pensiero sottinteso fosse che è formativo frequentare la scuola come tutti gli altri e che a studiare da soli si sarebbe rimasti tagliati fuori dalla realtà. Quale realtà poi fosse quella della scuola negli anni Cinquanta me lo ricordo ancora molto bene e mi domando se dal punto di vista dell'educazione non sarebbe stato invece meglio esserne preservati. La classe, inutile dirlo, era esclusivamente femminile. Per andare a scuola indossavo un grembiule bianco con fiocco azzurro, mentre i miei fratellini lo avevano blu con fiocco bianco. La giornata incominciava con l'ingresso solenne della maestra, che salutavamo scattando tutte in piedi sull'attenti: poi, sempre in piedi, si recitava una preghiera. Di nuovo sedute mettevamo le mani sul banco: una compagna incaricata di ciò (era un onore molto ambito) passava in rassegna le unghie e denunciava quelle che le avevano orlate di sporco. Il resto della mattinata, salvo una breve ricreazione durante la quale si mangiava la merenda che la mamma ci aveva messo in un panierino di paglia intrecciata, si stava sedute sui banchi con le mani incrociate dietro la schiena ad ascoltare le lezioni della maestra. La quale era una vecchia signora molto alta e imponente, dai capelli grigio-azzurri, che stava dritta come se avesse un manico di scopa nella schiena. Era la prima metà degli anni cinquanta, eppure quella scuola era ancora tutta intrisa di spiriti risorgimentali e di esaltazione della patria comune. Il Risorgimento era roba vecchia ormai di un secolo e in mezzo c'erano state due guerre mondiali, una dittatura e il passaggio dalla monarchia alla repubblica, ma per la scuola la storia si fermava alla fine dell'Ottocento. La rimozione degli avvenimenti posteriori era totale e a ripensarci oggi mi appare sorprendente. Un giorno che dovevo mandare a memoria un 'dettato' in cui si diceva che l'Italia è il paese più bello del mondo perché è la nostra patria, il luogo dove siamo nati e dove sono sepolti i nostri avi e altre banalità dello stesso tenore, dissi alla mamma, che come sempre mi aiutava nei compiti: «Ma insomma, anche i Russi possono dire la stessa cosa della Russia!» (la scelta della Russia non era casuale: erano i tempi della guerra fredda ed io avevo percepito l'esecrazione dei benpensanti verso il paese comunista).
Va tuttavia osservato per inciso che il Risorgimento era allora meno lontano di ora: lo si poteva ancora attingere per memoria orale. Mia nonna aveva avuto uno zio garibaldino e ne parlava spesso. Di questo suo zio conservava anche una fotografia. Quando all'inizio degli anni sessanta mia cugina e il suo fidanzato andarono ad annunciarle che si sposavano e che si sposavano in comune (cosa a quei tempi insolita e audace), mia nonna rispose: «Bravi, bravi, sono contenta: io son garibaldina!».
Allora ancora si usavano i pennini. Le stilografiche erano un lusso per pochi. Quanto alle penne a biro, ricordo ancora nitidamente la loro prima apparizione: erano durissime e scrivendo quasi trapassavano il foglio. La scrittura si poteva leggere dal lato opposto con le dita tanto erano pronunciati i solchi che scavavano nella carta. Ovviamente a scuola non si usavano arnesi così plebei. A quei tempi si badava ancora alla bella scrittura. I banchi avevano un alloggiamento per un calamaio, una sorta di bicchiere che conteneva l'inchiostro. Era facile rovesciarselo addosso e imbrattarsi irrimediabilmente i grembiuli. I libri di economia domestica del tempo erano pieni di consigli su come rimuovere le macchie d'inchiostro. Uno era quello di usare il latte, che in realtà non faceva che peggiorare la situazione. Le penne erano cannucce che avevano l'estremità opposta al pennino quasi sempre un po' masticata dai proprietari, quando sollevavano la penna in cerca di ispirazione. Si compravano i pennini in scatolette di legno dal coperchio scorrevole. Un altro arnese indispensabile era il nettapenne. Se ne fabbricavano in casa di artigianali cucendo più panni sovrapposti.
La nonna ci regalava dieci lire per ogni buon voto, ma papà e mamma ostentavano sovrana indifferenza per i nostri risultati scolastici. Non volevano che riuscire o meno a scuola fosse per noi un problema. La mamma ci aiutava a fare i compiti. Quando io ero già alle medie passava i pomeriggi a far fare i compiti ai miei fratelli e dopo cena ascoltava ancora me che le ripetevo declinazioni e coniugazioni latine. Era stanca e semiaddormentata ma se sbagliavo una desinenza si destava immediatamente.
Dei miei ricordi di scuola mi stupisce l'evanescenza delle persone. Delle compagne ricordo qualche nome e qualche viso, ma nessuna fu per me significativa. Si faceva qualche pezzo di strada insieme sulla via tra casa e scuola e scuola e casa, i rispettivi nonni si alternavano nell'accompagnarci e nel venirci a prendere, ma poi al di fuori della scuola non ci frequentavamo e non dividevamo alcun interesse. Se penso alla mia infanzia la rivedo solitaria e splendidamente rinchiusa nella cerchia familiare. Se a ciò si aggiunge che anche i miei genitori erano quanto mai casalinghi, che non andavamo a pranzo o a cena fuori e non ricevevamo nessuno, si avrà completo il quadro dell'isolamento in cui vivevamo, simboleggiato anche visivamente dal grande casamento circolare col cortile al centro e in sé conchiuso in cui si trovava il nostro appartamento.
Ad ogni modo fin dai tempi delle lezioni private, e a maggior ragione quando frequentai la scuola pubblica, la mia vera formazione culturale è sempre passata altrove. Le lezioni e lo studio ufficiale erano qualcosa che assolvevo diligentemente come un dovere, una volta adempiuto il quale era finalmente possibile dedicarsi senza rimorsi alle attività più vere. Sono tentata di dire che nessuna esperienza significativa della mia vita sia passata attraverso la scuola, che mi è sempre sembrata una sorta di recita convenzionale alla quale tutti erano tenuti per motivi misteriosi. Io mi venivo aprendo al mondo intellettuale attraverso vaste letture scelte del tutto liberamente e senza limiti, giacché mai alcuno dei miei si sognò di dire a noi bambini: «Questo libro non si può leggere». In una casa dove i libri erano tanti da sottrarre spazio alle persone potevamo prendere e leggere quel che volevamo. E se non bastavano i libri che già c'erano, ottenevamo immediatamente quel che desideravamo. Si risparmiava su tutto ma non sui libri: era l'unica cosa che non ci veniva mai negata. Se chiedevamo un giocattolo o un vestito non di rado ci veniva risposto che costava troppo, ma mai avemmo una risposta del genere chiedendo un libro. Mio padre ricordava sempre la sua giovanile fame di libri e la difficoltà di procurarseli nel remoto paese del profondo Sud in cui era cresciuto. Mi guardava e accennava agli scaffali sospirando: «Ti invidio la fortuna di tutti questi libri».
A casa nostra c'era l'abitudine del riposo pomeridiano dopo pranzo. La vita si interrompeva e tutti andavano a dormire, anche noi bambini, che non volevamo saperne e avremmo preferito continuare i nostri giochi. Ma quando, fattami più grandicella, ottenni di non esservi più obbligata, quel momento solenne di pausa nella casa silenziosa divenne il mio spazio per la lettura. Mi rannicchiavo con il libro nell'ampia poltrona della stanza di soggiorno e poggiavo sul bracciolo la scatola delle zollette di zucchero, a cui attingevo ogni tanto accompagnando la lettura col succhiare lentamente quei cubetti dolci. A volte ciò che leggevo mi catturava in modo tale che non riuscivo a staccarmi e continuavo febbrilmente fino a finire il libro; se gli occhi cominciavano a bruciarmi, li rinfrescavo inumidendoli con la saliva.

Forse perché il mondo della lettura mi appariva un mondo superiore, maturai prestissimo il desiderio di imitare gli scrittori e di scrivere a mia volta. Non saprei neppure dire quando cominciai i miei precoci tentativi di scrittura, ma ricordo un complicato romanzo di avventure pastorali che dettavo alla mamma; dunque o non sapevo ancora scrivere o sapevo scrivere troppo poco.
Ciò che venivo scrivendo rispecchiava via via le mie letture. Dopo il romanzo pastorale vennero storie di animali e fiabe, che corredavo anche di ingenue illustrazioni con matite colorate. Passavo ore a scrivere creando mondi fantastici ed esotici, popolati per lo più di animali. La mia maestra privata, la già ricordata signorina Telli, a un certo punto si preoccupò nel vedermi così costantemente immersa in mondi lontani dalla realtà. Così mi venne dato per mettermi alla prova il tema «Il risveglio in casa mia». I risultati dell'esperimento apparvero tranquillizzanti e una volta appurato che ero in grado di cogliere e descrivere anche la realtà che mi circondava mi si lasciò alle mie fantasie. Continuai così a riempire i miei quaderni. Venne un lungo periodo di infatuazione per il Libro della giungla di Kipling. Per assomigliare di più a Mowgli, il ragazzo allevato dai lupi e amico di una pantera nera, mangiavo enormi bistecche, bevevo latte senza caffè né zucchero, mi abbandonavo a frenetiche danze a piedi nudi con gran profusione di capriole e grida selvagge e trascorrevo molto tempo appollaiata sopra i mobili più alti, che facevano le veci di alberi, cantando lamentosi canti della giungla. Buricchio, un gatto nero di cortile che mi ero fatto amico con qualche carezza e qualche buon bocconcino e che quando lo chiamavo dal balcone accorreva a coda ritta, divenne ovviamente la mia pantera nera. In quel periodo cominciai un lungo romanzo che raccontava la storia dell'amicizia fra una pantera nera e un ragazzo indiano. Mi ero imposta di mandarlo avanti quotidianamente, fosse pure per poche righe, e per distinguere i pezzi che scrivevo di giorno in giorno alternavo penna rossa e nera. Qualche volta l'empito della scrittura mi trascinava e allora scrivevo parecchie pagine di seguito tutta concentrata. Stavo seduta a terra nella mia 'tana' dietro il pianoforte, con la schiena appoggiata al muro e il quaderno sulle ginocchia piegate, e quando mi appassionavo a ciò che stavo scrivendo un nodo di piacere mi chiudeva la gola. Il romanzo di ambientazione indiana mi accompagnò per lungo tratto, tanto che, cominciando io stessa a provare i primi turbamenti della pubertà, anche il romanzo della vita selvaggia e dell'amicizia tra uomo e fiera si arricchì di una delicata storia d'amore, che mi sfuggì dalla penna quasi senza che lo volessi. Il ragazzo e la pantera nel loro selvaggio vagabondare incontrarono una ragazza ed io trascorsi ore di grande emozione a descrivere i primi trasalimenti di un sentimento ancora misconosciuto e ignoto ai due che lo provavano. Rilette a distanza di tanti anni quelle pagine mi hanno comunicato ancora emozioni non banali e tutto il sapore di quella mia difficile e contrastata adolescenza, in cui non volevo crescere né staccarmi dal mio mondo fantastico e riluttavo selvaggiamente di fronte alle trasformazioni della mia natura femminile. Tutto questo ero riuscita a trasporre nelle romanzesche avventure dei miei due ragazzi indiani e della pantera. Poi una mia innata inclinazione al tragico mi fece chiudere il romanzo facendo morire il protagonista per l'assalto di una tigre mentre tentava di raggiungere la ragazza amata. Nei suoi ultimi istanti di vita il ragazzo vedeva il volto di lei chino su di lui e le sembrava di doverle dire qualcosa di molto importante, ma sopraggiungeva la morte. La pantera si ritirava nel più folto della selva e si lasciava morire di dolore. Qualcuno cantava una nenia per addormentare un bambino: «C'è un paese lontano lontano \ e son tutti felici laggiù...».
Oltre che nella scrittura in prosa cominciai assai presto a cimentarmi anche nei versi. Le prime strofette rimate le composi oralmente, quando non sapevo ancora scrivere. Più tardi passai a componimenti più impegnati, per lo più in endecasillabi sciolti, ma anche in versi di altro genere e rimati. Molto spesso erano descrizioni liriche di spettacoli della natura. Mi cimentai anche in traduzioni di poeti antichi, Orazio, Saffo... Nel periodo in cui lessi per la prima volta l'Alfieri abbozzai una tragedia intitolata Cambise, che cominciava «Gloria, ricchezze, onor, tutto ormai ottenni, | ma felice son io?» e che si fermò dopo una ventina di versi. L'appassionata lettura dell'Orlando furioso, che a un certo punto sostituì il Libro della giungla, mi ispirò invece un poema cavalleresco dedicato alle avventure di Sacripante. Una volta ne lessi un paio di ottave a mio padre chiedendo: "Che poeta è?" e mi inorgoglii molto quando ottenni la risposta desiderata: «Ariosto». C'erano poi i quadernini in cui annotavo pensieri e poesie, i temi che scrivevo per la scuola con buon successo, le lettere che inviavo a qualche corrispondente, i diari in cui registravo gite, viaggi, eclissi di sole, nascite di gattini, film visti, libri letti: tutto insomma contribuiva a farmi passare buona parte del mio tempo con la penna in mano, tanto che avevo un callo sul dito medio nel punto in cui poggiava. Nessuno dei miei familiari mostrava una simile passione, eppure, anche se non me ne rendevo conto, quel mio irresistibile impulso a scrivere era in parte un'eredità biologica, come si vedrà dai capitoli seguenti.


*Anticipo su "La Recherche", per saggiarne la tenuta presso un pubblico di amanti della lettura e della scrittura, un capitolo dedicato a questi due aspetti, che fa parte di uno scritto con memorie personali e familiari a cui attendo da anni.

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