[ Recensione di Francesco di Ciaccia ]
Dal punto di vista della scrittura e dello stile, colpisce innanzitutto la concisione laconica dell’eloquio. Si tratta, secondo la mia percezione, non solo di una qualità formale: questa stringatezza veicola uno scavo concettuale di contenuti che aprono, a volte nel nascosto, al mistero (come ad esempio in quel: “a dire d’ogni ascensione il sangue”, L’entrata). A volte la parola si fa essa stessa mistero, nascondendo – per svelare – una verità che è difficile, o forse inopportuno, dipanare secondo i canoni espressivi del linguaggio quotidiano (come ad esempio in quel: “nel fremito dello squarcio e di tutti i perdoni.”, Lunedì dopo le Palme).
Il discorso può anche essere costruito secondo la formula dell’immediato e diretto riferimento del significante al significato, per cui tutte le parole risultano denotative, come in questo incipit di San Carlo ai Catinari: “Quello che è male – contro / me, contro gli altri – / ai Tuoi occhi io l’ho fatto”. Le terzine immediatamente successive ripresentano subito, però, il registro espressivo adattato alla dimensione del mistero, quel mistero in cui, nei giorni della passione e della morte – cui riconduce quell’annuncio iniziale (“Quello che è male”, ecc. -), la “parola” è incrostata (per rifarmi al verso “Ma scrosta la parola”) e solo a Pasqua “saprò con Maddalena”, solo dopo la Risurrezione capiremo. Capiremo tutto.
Sul piano del pensiero io trovo – sempre in base alla mia sensibilità – una concezione di fondo che coniuga il sacro all’interno della naturalità, in particolare di quella umanità che vive e soffre, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, nelle condizioni di povertà e di modestia esistenziale, e forse anche sociale. È forte – io credo – quella foto icastica del popolo acclamante, del popolo che si accalca intorno al Gesù di Nazareth, nel cosiddetto – poiché lo diciamo noi – giorno delle Palme: “[…] annunciando / il Paradiso coi somari” (L’entrata). La glorificazione è calata nell’umiltà del popolo (poiché “Il Verbo appare ai semplici”, 16 Aprile, Mercoledì), nella condizione di gente che non ha in testa scenari di trionfalismo regale ma che segue Gesù e lo acclama nelle modalità di tutti i giorni, “coi somari”: il che è un dato oggettivo ma soggettivamente è significante, poiché connota, appunto, la semplicità popolare. Altrettanto è significativa la puntualizzazione contrappositiva tra “olivo” e “palme” (“l’olivo non le palme”, ibidem), che esprime, quasi esplicitamente grazie alle immagini universalmente espressive, il concetto che il cammino redentivo passa attraverso l’umiltà e la pace e non attraverso la gloria e la potenza.
Un pensiero che credo fondamentale in questa raccolta lirica di Gian Piero Stefanoni è il suono della voce che desta, della voce che si ascolta nel silenzio, della voce che risuona dal sepolcro. E dall’apertura del sepolcro. È il Risorto che si rivela: “E Tu risuoni / nel vuoto del sepolcro / rompendo d’ognuno la veglia” (Gesù Nazareno, a Largo Argentina). Qui è l’esortazione a non “guardare al passato” – secondo le parole dell’Angelo -: è il futuro l’orizzonte di chi crede.
Una presenza, poi, importante in questa raccolta è quella di Maria, madre di Gesù. Ella è presente nei giorni e nella sfera della passione di suo figlio, quale “Madre dei dolori”, poi soprattutto nella continuità indefettibile della storia salvata, nella quale ella è, sì, la “Regina”, ma lo è “senza corona”, e per questo “Santissima”. Si staglia dunque sulla Madre la santità del Figlio, quella santità che, come già all’inizio abbiamo indicato, si nutre di umiltà interiore – o di kenosi, per dirla con Paolo Apostolo -, e di umiltà, ancor più esattamente, nella partecipazione alla vita degli umili, dei “poveri uomini”.