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Basquiat - Autoriferimento e denuncia sociale

Argomento: Arte

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 09/08/2024 18:21:42

3)Basquiat: ritratto dell’artista di strada.

‘Autoriferimento’ e denuncia sociale.

Quando, si era nel 1976, Basquiat comincia a entrare nel mondo dell’arte con i graffiti, le sue opere riportavano la firma di un fantomatico SAMO (1). “Poesie di strada”, come furono definite dal Soho News, richiamavano veri e propri rebus, ma al tempo stesso si presentavano come proteste contro la società contemporanea e contro le forme classiche della rappresentazione del “fare arte”. Talvolta si trattava di vere e proprie dichiarazioni esistenziali, derivanti da un flusso di pensiero continuo, quasi filosofico, di una specie di guru, o nuovo predicatore che dir si voglia, anonimo in quanto sconosciuto.
Era facile che in un distretto newyorkese come la Manhattan di allora, il cronista si spingesse a cercare qualcosa cui fare riferimento e che fosse di attualità. Soprattutto che rispondesse alle tante domande della gente comune su chi erano i componenti di “quella risma di imbrattatori” che armati di bombolette spray sporcavano i muri cittadini. Dapprima odiati o mal sopportati dalla società, a seconda dei casi, finirono per essere accettati al suo interno, come portatori ‘insani’ di una nuova forma d’arte espressamente gratuita che, in qualche caso, copriva lo sporco e quanto di più triste appariva sui muri delle città.
Chi avrebbe mai pensato che ritrovarsi una saracinesca del proprio fatiscente negozio o una semplice firma (e più d’una) fra quelle che circolavano, avrebbe attirato un pubblico maggiore, se non addirittura i turisti che ne apprezzavano il contenuto? Per molti divenne una forma di visibilità che la pubblicità avrebbe reso ancor più fonte espositiva d’immagine. E c’era pure chi vi prendeva spunto per sollevare una ‘critica alla democrazia’, alla ‘politica inconcludente’, alla ‘falsa ideologia’, alla ‘religione che ti lava il cervello’, o addirittura come soluzione ‘alternativa al fare arte’, quella stessa arte che faceva tanto trendy fra i “radical-chic”, quando a farla era il finanziamento dei dollari di papà.
Magari, senza neppure accorgersi che intanto il ‘graffitismo’, almeno quello firmato Al Diaz (2), o Basquiat, alias SAMO acronimo di “SAMe Old Shit” (la solita vecchia m***a), e altre frasi criptiche e di protesta che apparivano al mattino sui muri o sulle lamiere dei vagoni metropolitani, si preparava a valicare i confini dell’arte detta ‘nuova avanguardia americana’ (3). In quel tempo Basquiat iniziava a vendere magliette dipinte e cartoline che egli stesso produceva con la tecnica del collage.
In un ristorante di Soho, Andy Warhol (4) acquistò una delle sue cartoline. In quello stesso anno il “Village voice” pubblicò un articolo su SAMO. Basquiat per una ricompensa in denaro, rivelò l’identità del misterioso predicatore, tra l’incredulità generale. Nessuno infatti aveva sospettato che dietro quel nome ci fossero due diciassettenni. E fu proprio a causa di quella rivelazione che il sodalizio con Al Diaz si sciolse e sui muri di Manhattan apparve l’annuncio “SAMO IS DEAD”. Da allora Basquiat non firmò mai più come ‘Samo’ le sue opere.
Successivamente, l’incontro con Diego Cortez avvenuto nel 1979 al “Mudd Club”, che divenne uno dei primi commercianti delle sue opere e che lo introdusse sulla scena dell’East Village, permise a Basquiat di entrare in contatto con l’influente critico d’arte Henry Geldzahler. L’anno dopo Jean-Michel partecipò al Time Square Show, una retrospettiva organizzata da un gruppo di artisti, alla quale parteciperà anche Keith Haring (5). Da questo evento presero forma le due ‘nuove avanguardie’ di quegli anni: la ‘downtown’ (neopop) e la ‘uptown’ (rap e graffiti) che spopolarono nella Grande Mela negli anni ’80, in cui Glenn O’Brian girò il film-documentario “New York Beat”, che uscì nelle sale solo nel 2001 con il nome di “Downtown 81”, dove Basquiat interpretava se stesso.
Nel 1981 Basquiat che non era più un artista sconosciuto, o come si diceva allora ‘di nicchia’, partecipò alla retrospettiva ‘New York/New Wave’, insieme agli artisti Keith Haring e Andy Warhol. Sempre quell’anno "Artforum" pubblicò un entusiastico articolo su Basquiat dal titolo "Radiant Child", a firma del poeta artista Renè Ricard. Cominciò così la sua ascesa nell’empireo degli artisti di successo: nel marzo del 1982 Basquiat è in Italia per la prima volta esposto in una personale a Modena (6) e, contemporaneamente, a New York nella galleria di Annina Nosei, raccogliendo commenti entusiastici di pubblico e critica. Nel giro di poco tempo, prima la Galerie Bischofberger in Svizzera, poi la Delta di Rotterdam ospitarono una sua retrospettiva. L'anno successivo produsse un disco Hip-hop (7).
Il resto è storia.
Pochi, in realtà, compresero la portata teorica ed ermeneutica della proposta dei ‘graffitari’ che dagli States si diffuse sui muri di tutta l’America e poi nel resto del mondo, spesso sconvolgendone l’immagine urbana. I muri delle strade, i vagoni delle metropolitane, gli edifici abbandonati, i ponti e i cavalcavia, ovunque ci fosse un superficie libera fu caricata di immagini e colori, graffiti e scritte d’ogni genere, talvolta anche volgari o inquietanti, quando pure inneggianti e diffamatorie, o razziste contro i ‘neri’ o i ‘bianchi’, i ‘normali’ e i ‘diversi’, e non solo.
Ancor meno furono quelli che intuirono la portata della complessa rete dei richiami, l’affinamento per certi aspetti straordinario, di quella che possiamo definire una ‘rivoluzione’ dell’immagine e dell’immaginario, solo apparentemente utilizzata come subdola arma d’aggressione. Tuttavia quello che più scosse una forte critica fu, certamente, la scelta fatta da Basquiat dell’utilizzo di un segno semplice, quasi primitivo, fuori da qualunque regola compositiva, come ad esempio l'assenza di prospettiva e la visione frontale, che l’aveva accompagnato fino a quel momento, e che molti vissero come una sfida intellettuale.
E che produsse in Basquiat una sorta di ribellione che lo indusse ad affermare: “Non sopporto paletti, i quadri io li disegno come quando ero bambino”, che si può ascoltare nel documentario “Shooting Star”. E ancora "Io non penso all'arte quando lavoro. Io tento di pensare alla vita". (8)
Occorrerà cercare ancora, andare a rileggere a distanza di tempo le sue opere, valutare il suo spessore artistico, ripercorrere il cammino successivo a quegli anni, per ‘comprendere’ chi è Basquiat e interpretare i momenti decisivi della sua alienazione. O forse no, basta quanto detto fin qui, per avere accesso infine alle sue ‘magnifiche presenze’, benché fantasmi, per comprendere, infine, il percorso enigmatico della sua denuncia sociale, allegorica e problematica quanto si vuole, ma che pure rimane sfuggevole, quando si accosta frontalmente alle tematiche della riflessione e del ruolo che Basquiat ha interpretato nell’arte contemporanea.
Ed è proprio su questa linea ‘On the road’ che Basquiat ancor più mette in gioco se stesso chiamando implicitamente in causa i suoi ‘archetipi’, i suoi ‘miti’, i suoi molteplici ‘ruoli’, e lo fa al di fuori del reticolo di sensi che compone e muove il suo essere specchio di una società in cui egli si riflette, quanto consciamente o inconsciamente non ci è dato sapere. Tuttavia è possibile affermare che Basquiat non sembra ricorrere all’arte come sterile testimone della sua creatività eclettica da utilizzare strumentalmente quale portatrice di informazioni e indicazioni conoscitive. Bensì come ‘stato di fusione’ esterna all’oltre-sé-stesso, piuttosto che nel senso lato del termine ‘artista’ ammesso dalla critica e dai criticismi moderni.
C’è in Basquiat una profonda passione narcisistica che adombra il suo senso artistico, lasciandosi spesso andare a un ‘oscuro enigmatico’, a uno stato di assoluta soggezione nei confronti d’ogni sua opera che, egli stesso trasforma da cosa inerte a oggetto vigoroso, facendosi così mediatore di un ‘messaggio’ che non può subire alcuna alterazione esterna, né limiti. Anche per questo le opere in mostra a Parigi, indistintamente l’una dall’altra, presentano caratteri ‘intimistici’ che sono propri della sua personalità. La sua forza, la sua permanenza nell’integra realtà che gli è propria, garantiscono la sua ‘contiguità’ e la sua ‘fragilità’ infinite.
Anche questa distanza, questa differenza tra il primo e l’ultimo Basquiat contribuiscono a delineare la dimensione ‘soggettiva’ dell’impianto pittorico lasciando che l’intenzione e l’eventuale interrogazione si raddoppino nel duplicarsi del soggetto, mai completamente uguale a un altro seppure nella mancanza d’essere che si lega alla natura illusoria dell’arte. Dovremmo stupirci per il fatto che la spontanea elaborazione pittorica delle sue opere, sebbene possano risultare per qualche verso naif, sembrano cercare una fonte di rinnovata energia nella ‘primitività’ che, lungi dall’essersi esaurita, pure attende di poter risorgere a condizione che noi impariamo a comprenderne il significato e a riconoscerne il valore.
Come è stato detto in precedenza, la linea, o meglio la ‘cifra’ di tendenza di Basquiat si traduce così in un richiamo alle profondità dell’inconscio, in cui non il sogno, bensì l’allucinazione si offre per un ritorno a quel ‘primitivismo’ inconfessato, impossibile da raggiungere, e che pure offre uno spettacolo singolare – non c’è che dire – delle reazioni del pubblico giovane che affolla le sale espositive della Mostra di Parigi, il cui vociare si sovrappone alla musica che verosimilmente si sprigiona dai quadri dedicati ai grandi interpreti del Jazz e altro. Il gioco di Basquiat dunque, non è affatto fortuito, bisogna coglierlo qua e là nei commenti, ed è come lo svelamento di un linguaggio segreto, un rito sussurrato, tra loro (i giovani) che Basquiat sembra mimare nell’incontenibile momento sorgivo della loro intesa, come di sollecitazione di creatività, o forse magia.
Improvvisamente le sale espositive non sono più ‘un luogo dell’arte’, bensì una soglia tra la terra e il cielo per certi versi temibile, che si espande sotto lo sguardo inscrutabile tra la finzione e la realtà che, tuttavia non incolpa, né giudica, perché in ognuno di loro, (i giovani), in fondo si nasconde un possibile Basquiat. Perché si attribuiscono un’identità illusoria, che s’annuncia come un ritorno all’unità cosmica, lì dove i contrari infine tendono a conciliarsi in un sincretismo mitico per cui l’artista Basquiat è assolutamente quella di un salvatore/diavolo come loro, al contrario si sentono angeli in attesa di cadere.
Sono incline a riconoscere un analogo valore simbolico a tutta l’opera di Basquiat, sebbene in essa si riscontri un’apparente barriera da valicare per riemergere al di là, in una nuova regione dell’essere, dove le interpretazioni simboliche potrebbero moltiplicarsi all’infinito, come accade per le ultime visioni dell’arte che non oso qui ulteriormente indagare. Anche per questo credo che bisogna guardarsi dagli stereotipi della modernità, e scegliere fra l’assenza di significato e la funzione stabilita di senso.
Tuttavia da quanto fin qui emerso affiora un’altra verità, cioè che il non-senso espresso da Basquiat ha valore di ‘messa in dubbio’, come dire, di sfida costante delle certezze. Non ci si affretti troppo, quindi, ad assegnare alle sue opere un ruolo, una funzione, un senso. Hanno bisogno di quella libertà, che già l’artista reclamava per sé, di “essere se stesse”, o “fini a se stesse”, libere di proseguire in un gioco che ai nostri occhi può anche sembrare insensato, vuoto: “esse hanno bisogno di un’immensa riserva di non-senso per poter trovare il loro senso” (9) per poter attraversare il reticolo fitto delle ‘relazioni significanti’.

Una contraddizione in termini? Forse.


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