UN ROMANZO FILOSOFICO:
L’ESORDIO IN NARRATIVA DI NINNJ DI STEFANO BUSĂ
Si direbbe un punto d’incontro, un coniugale convegno di più storie d’amore il romanzo d’esordio di Ninnj Di Stefano Busà. E lo è, indubbiamente, ma non è sufficiente ritenerlo tale per entrare davvero nel vivo, per calarsi in profondità nel dissertare: voglio dire che non è limitandosi alla considerazione del narrato che si possono cogliere gli aspetti più rilevanti dell’opera.
In Soltanto una vita non è la trama che conta; sono le riflessioni di carattere filosofico-esistenziale, le conclusioni alle quali giungono - per l’autrice - i protagonisti, le esperienze che in loro maturano a creare l’intelaiatura che sostiene ciascuna vicenda. Sotto questo punto di vista, allora, la storia diventa - mi viene da dire - quasi un pretesto, una favorevole congiuntura perché possano essere indagate questioni da sempre presenti nella mente e nell’animo della misteriosa creatura uomo. Uno strumento di ricerca, dunque, che tenta l’universale tramite un processo induttivo (mi si passi il termine) che, una volta approdato al generale, non abbandona il particolare in quanto, esso stesso, espressione dell’assoluto. Così, gli episodi che si succedono di capitolo in capitolo altro non sono che manifestazioni della Vita, dei suoi alti e bassi, del suo naturale incedere: spesso contraddittorio, a volte (ma solo apparentemente) illogico, irrazionale, e però - o, meglio, proprio per questo - costantemente volto a tutelare il bene supremo che, in fin dei conti, è il miracolo più grande, ciò che perpetua l’esistenza stessa.
Di quale inestimabile ricchezza si sta parlando? Ma certo, dell’Amore; di cos’altro se no? Di quello di dantesca memoria. Ecco: se la nuova fatica della nota scrittrice e poetessa si può, a giusto titolo, annoverare nella letteratura d’amore; ciò nondimeno questo va fatto con estremo riguardo, per non costringere il romanzo a vivere in ambiti che gli sarebbero inadeguati, per non dire estranei.
Per rendere ancora più esplicito il pensiero, desidero riportare alcuni passi delle conclusioni cui Julie (personaggio centrale) giunge esperendo su se stessa la maternità. Le sue riflessioni (riportate in corsivo a pag. 61); sono così intense “da sembrare filosofia” - sostiene l’autrice -, a testimonianza di quanto sopra andavo asserendo sulla tipologia della presente scrittura. “L’amore è una tessitura sapiente, un’elevazione salvifica, sublimativa di un percorso che vuole penetrare il mistero dell’essere […] L’elemento amoroso dà all’eteronomia individuale la forza eternante della temporaneità, che rompe le catene della finitudine mortale, per evocare l’assoluto […] Ma è nella messa in gioco di un rischio fascinoso e sorprendente, che si compendia lo straordinario di un’avventura irripetibile: la ‘natività’, che è vita nella sua forma di elevazione pura. . .”. Senza dimenticare lo stupore che coglie la neo mamma al termine delle osservazioni: “non è utopistica la sua fantasia né immaginativa! È solo motivata da un bene che si autentica da sé, dalla discrezione primordiale di un bisogno che è stato l’inizio della vita.”.
Mi sono dilungato perché mi piacerebbe che il lettore fosse orientato a recepire prioritariamente le implicazioni sottese alla storia più che lo stesso racconto; intendiamoci: non che la narrazione non abbia la sua importanza - lo stile, tra l’altro, possiede un timbro peculiare e piena padronanza dei mezzi espressivi - ma sono convinto che le pulsazioni provengono dal cuore, da tutto quello che dalla trama stilla come resina che cola lungo i rami.
Anche se l’amore resta il momento topico, l’ambra dorata che colora le pagine, un discorso analogo va e deve essere sostenuto quando sono i luoghi, i paesaggi ad essere rappresentati con cura e dovizia di particolari: “Attraverso un descrittivismo naturalistico di rara perizia, che è anch’esso poesia, si snoda la storia dei protagonisti, la sagra dei sentimenti senza tempo. . .”. Ĕ quanto si legge nel risvolto di quarta: un’ulteriore conferma alle mie supposizioni; d’altro canto, è sufficiente prendere a modello alcuni brani incentrati sulla bellezza naturale per averne chiara percezione.
Desidero, sinteticamente, riportare qualche breve stralcio della poetica descrizione dell’isolotto (a 3 km dalla costa) dove Gorge propone di recarsi per visitare, tra l’altro, le vestigia di un antichissimo agglomerato degli Incas: “. . . In quel luogo, tutto è un coro alla filosofia del creato […] Di colpo si sentono immersi in un’altra dimensione, la pace e il senso mistico della natura li prende, regalando loro momenti di cultura primitiva, di regole fatte a iniziazione del mondo, senza. . . i vizi e le corruzioni delle grandi metropoli […] Forse si tratta di una forma di atarassia […] Ha estremo bisogno l’uomo di oggi di vivere senza le scorie avvelenate di una eterodossia moderna che compromette il suo spirito.”. Per ovvie ragioni non posso citare oltre ma queste parole (pag. 161), mi appaiono importanti e sapide per intendere la portata umanistica del romanzo (“un’opera che va certamente controcorrente considerando i disvalori che, spesso, vengono propinati dalle letture di poca pregevolezza prese in considerazioni da case editrici cosiddette ‘grandi’”, osserva acutamente Nazario Pardini nella sua prefazione).
Si tratta, dunque - per tornare agli aspetti descrittivi della narrazione - di un’esposizione non fine a se stessa, idilliaca o paradisiaca, bensì di un dire che mira a ben altri propositi, che ha intenzione d’immergersi nell’anima del mondo per penetrare, così, anche nell’animo umano.
L’erotismo stesso è portato - se si vuole - su di un piano sublimativo che tiene ad evidenziare l’essenza del rapporto sessuale quale perfetta fusione tra carne e spirito; ed ancora, è molto interessante notare come, persino nei momenti di tanto piena beatitudine, venga riservata estrema attenzione ai sommovimenti improvvisi e contrastanti dell’animo, sollecitato dalla forza delle emozioni, dall’intensità del coinvolgimento.
Esemplificativo ciò che si legge all’inizio di pag. 138 relativamente allo sgomento di Julie di fronte all’andamento altalenante del destino: ella teme - con saggezza primitiva, mi si lasci dire - la troppa felicità, perché l’esperienza le ha spesso dimostrato “che non prelude a nulla di buono”: una sorta di contrappasso cui è difficilissimo abituarsi ma che resta, pur sempre, legge universale, legge di natura.
“Credere nella vita / vuol dire accettare anche il peso del suo dolore: / la vita è la distanza tra il grido e la ferita.”: con questo esergo la scrittrice apre, in un certo senso, l’opera. E come poteva chiuderla se non con un altro aforistico pensiero: “Siamo in fondo soltanto una vita, nient’altro”. In mezzo, oltre duecento pagine, nelle quali ritrovarsi, nelle quali ognuno di noi, per traslato, può riconoscere - pur nella diversità - la propria storia.
Sandro Angelucci
Ninnj Di Stefano Busà. Soltanto una vita. Kairόs Edizioni. Napoli. 2014. Pp.230. € 14,00
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