Pubblicato il 05/12/2007
L’altra sera all’Auditorium, in compagnia del sempre più catarroso e tossicchiante turno B di Santa Cecilia, ho assistito al concerto per violino ed orchestra di Ligeti. Orchestra, o mezza orchestra: gli archi erano ridotti, tre violini, di cui uno, il primo, scordato; due viole di cui una scordata, un contrabbasso, fiati e percussioni – tante – tra cui xilofono, vibrafono, marimbas, glockenspiel e quattro ocarine, semplici strumenti popolari che, con la loro umiltà, si sono affacciate tra la ieratica compagine degli strumenti più nobili. Una composizione, quella di Ligeti, che si può definire straziante per come ha completamente messo a nudo i dolori del nostro tempo, strappando il velo delle convenzioni armoniche, l’autore ci ha mostrato i palpiti della natura rinchiusa nel grigio delle città moderne attraverso brividi di archi troncati dalle percussioni; il violino solista con dei pizzicati virtuosistici ci ha fatto sentire come le ali dell’umanità, già ferite dalle atrocità della Grande Guerra, non riescono più a librarsi, lo xilofono e le campane chiudevano la via ad ogni tentativo di volo, come chiodi conficcati. Si sono sentiti uragani neri e lontani avvicinarsi con la loro sferzante pioggia di lacrime, irrisi dai flauti a coulisse, come a rappresentare lo scherno dell’umanità di fronte a nature troppo sensibili. Il violino solista mai richiamato dall’orchestra, o l’orchestra stessa che non rispondeva al violino: quanto dolore nel non essere ascoltati; ma anche sospiri fragorosi di timpani e grancassa spinti verso l’alto dai fiati finché nuove lacerazioni spostavano, frenandola la direzione dell’anima. In questo ribollire di fuoco e sangue, passione e dannazione, le quattro ocarine hanno alzato al cielo il loro canto, ma la natura beffarda del loro essere strumenti corti, con poco fiato e risonanza le ha tenute rinchiuse nella creatura di suoni, vibrazioni e silenzi di Ligeti. La speranza è giunta nel controfinale a fiati, come uno strappo di vento azzurro prima dell’ultimo lamento del violino, al termine, quando ormai tutti gli strumenti erano silenti una vibrazione ha continuato a percorrere la sala sino a spegnersi lontano, nel luogo dove si infrangono i sogni. In questo tessuto elastico e lacerato un grande Pappano teneva ben saldi nelle sue mani i fili di questi moti interiori con una forza quasi diabolica, sia nei movimenti ma soprattutto con una specie di ipnosi con cui conduceva, senza altra possibilità che la sua volontà, gli orchestrali.
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