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Mare maestro

Argomento: Esperienze di vita

di Giovanni Avogadri
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Pubblicato il 05/12/2007

(riflessioni per una pedagogia della navigazione)
di Riccardo Bosi e Giovanni Avogadri

Tutti i guai e le pene che il navigare ci ha procurato vengono presto dimenticati, e non appena tornati in porto –e poi, magari al caldo di un camino, ci si asciuga dall’umidore salmastro del legno del vecchio scafo- ecco che già si progettano nuovi viaggi, si sognano nuove rotte, nuove circumnavigazioni, altre profili di isole, di falesie e di grotte. Come per gli innamorati, ogni difetto appare pregio, la lontananza procura nostalgia, saziati ancora si ha sete. E così appena asciutti già sogniamo di immergerci di nuovo, la pelle addolcita e finalmente calda già chiede sale e vento fresco.
La paura per una navigazione ardita, o l’aver corso un rischio reale affrontando un mare davvero troppo grosso per noi, o per te in solitario, ecco che diventa subito storia, risata liberatoria, piccola leggenda gelosamente custodita in segreto tra quella piccola ciurma di amici con cui hai condiviso il viaggio.

Navigare per mare -e non fatene una questione di lunghezza dell’imbarcazione e nemmeno di durata del viaggio, è piuttosto una faccenda d’anima- è la più limpida e pura forma di compiere un viaggio.
Prepararsi con cura, conoscere lo scafo e l’equipaggio, salpare, transitare navigando in acque sconosciute, affrontare nuove rotte, approdare in nuovi porti, e –finalmente- ritornare: nessun elemento è assente, ogni passo è denso di significato per la mente del viaggiatore di mare.
Ma la condizione perché questo si verifichi, perché il viaggio sia vero e il mare ti parli, è quello di guardarlo diritto negli occhi, affrontarlo con lealtà, ad armi pari. E allora, non sai nemmeno perché e per come, e non ricordi quando, il mare diventa per te un amico, un fratello maggiore, un grande pedagogo.
Misteriosamente, imprevedibilmente il mare comunica, interroga, crea pensieri, è esigente, insegna, sfida, purifica, ridimensiona, cura, lenisce, guarisce.
Un grande inaspettato maestro.
Ci vuole accuratezza nel prepararsi.
E non parlo qui del prepararsi a “saper andare per mare” in senso tecnico. Questo certo che deve esserci: proporzionato al mezzo che si usa, alle condizioni meteo-marine, alla capacità dell’equipaggio, alla rotta prevista, alla lunghezza e alla conoscenza del mare in cui si naviga. D’altronde ancora oggi la realtà del mare sa essere durissima, e ciò che qui viene detto non ha certo la pretesa di insegnare niente a chi di mare vive e muore per gli ancora innumerevoli naufragi. Casomai assoluto rispetto.
C’è una accuratezza nella preparazione del viaggio che nasce dall’amore.
Ogni gesto va fatto con attenzione, si controllano con apparente noncuranza quei mille particolari che altri non sanno, ma che possono fare la differenza in navigazione. Una cima di rispetto in più, i nodi ben fatti, una vela sicura, una pagaia controllata e ben assicurata allo scafo. Quando si è ancora a terra tutto è ancora possibile. Dopo, in navigazione, alcuni errori non si rimediano più. Non si dovrebbe mai partire con la fretta.
Lo scafo sarà la tua casa, e che affetto e cura può nascere per essa!
Ogni barca, ogni scafo ha inoltre la sua personalità, che va conosciuta e apprezzata. Si deve sapere cosa può fare e dove si è obbligati a fermarsi per non chiederle troppo.
Ci sono barche a vela, ad esempio, così ben equilibrate nelle quali si può fissare con una cima il timone e -se le vele sono ben a segno- la barca viaggia da sola, col suo timoniere fantasma. Oppure, alla “panna”, (e cioè con le due vele, il fiocco e la randa, ben controbilanciate) la barca si può fermare docile e, felice ed autonoma, ti concede tutti il tempo per mangiarti il tuo panino in santa pace, per leggere, per fare una riparazione.

Navigazioni

Ogni giorno occorre preparare con cura il necessario, controllare le giunture, gli attacchi, i nodi e gli intrecci…
Ogni giorno il corpo si riabitua alla fatica ed il dolore - lieve - è un liquore che si beve col cuore quieto.
Ogni giorno, con la regolarità dell’imprevisto, il vento va riconosciuto e salutato e occorre immaginare assieme a lui i nostri percorsi.
Ogni giorno il mare ributta le sue meduse, le sue alghe strappate dai temporali e i resti dei naufragi tornano a galla….
Così come ogni sera il vento stracca e con la calma di un piccolo porto torniamo a casa con una dolce tristezza piovuta in cuore da chissà dove…
Ogni nuovo giorno l’attenzione prepara l’attitudine al cambiamento, la possibilità d’ogni incontro, serissima spensieratezza e quasi senza sforzo si entra nel mistero e nella meraviglia: falesie bianche di vento, grotte di luce, fondali d’ombra e ristoro…

Finché un golfo ci accoglie, antichissimo come il tempo, in questo suo nuovo, sconosciuto, ritrovamento.

L’equipaggio

Prima di ogni cosa, ancor prima dello scafo, si deve essere sicuri di sé e si deve essere sicuri dei compagni. Della loro lealtà. E della tua lealtà verso di loro. Del loro coraggio e del tuo. Del loro senso di collaborazione e di “unità”, e del tuo. Perché se è vero che il mare “…è un Paese dalle leggi dure ma semplici, che non bara mai”· sappiamo bene che è altrettanto capace di riservarti avventure vere, rischi reali. Per questo, oltre alle rigorosissime leggi del mare e della marineria, che concede e prevede ad esempio un potere sovrano al Capitano, c’è una sorta di patto e di accordo non scritto tra naviganti che ha generato, nelle storia delle marineria, pagine commoventi di eroismo e lealtà. E questo può avvenire anche nel microcosmo del piccolo cabotaggio, se c’è vera intesa tra l’equipaggio.
Ci sono elementi del carattere che in mare acquistano una importanza che hanno perso nella normalità della vita terrestre. Il coraggio (che non vuol dire incoscienza, piuttosto capacità di accettare il rischio calcolandolo bene: non c’è uomo più prudente del vero marinaio), la lealtà, la trasparenza, la capacità di collaborazione, la predittività, la fiducia nell’altro e soprattutto il senso profondo di “appartenenza” all’equipaggio diventano vitali, riacquistano significato.
Perfino l’ordine e il senso dell’ armonia ritrovano il loro vero motivo, non solo “estetico”: una cima scambiata per un’altra, una manovra non in ordine, una vela che non si riesce a ridurre o a issare per tempo per l’incuria di chi l’ha riposta o preparata, possono essere fatali in una vera emergenza in mare.
Ci sono inoltre originalissime esperienze “terapeutiche” di scuole di vela e di navigazione d’altura per ragazzi con profondo disagio sociale, soprattutto nel nord- Europa. Ad ognuno di loro viene attribuito sull’imbarcazione un compito preciso, come nella vecchia marineria, che deve essere eseguito senza tante storie.
Nel corso di alcune settimane di navigazione si è apprezzato in queste esperienze un evidente cambiamento del comportamento dei ragazzi proprio per aver affidato la condotta dell’imbarcazione; chiedendo loro un senso molto alto di lealtà e di corresponsabilità -funzionale alla buona e sicura navigazione per sé e per gli altri compagni- la risposta è stata quella nella direzione di un recupero evidente di comportamenti pro-sociali.

Al gharb
Non è più
la luce immota
ma il vento
che mi fa penetrare
lo svelame del reale:
roccia sabbia
luce acqua
sono il loro nome,
volto e voce di bambino
casa aperta e porta frescheggiante
mensa e vino
soglia pesce tenda,
li balbetto con la voce,
li sorseggio con lo sguardo,
li solfeggio con le mani:
ogni gesto è creatore
e tutto sta,
aperto e chiuso,
nel tuo amore.

***
Il tuo volto dal sogno,
la tua voce
in una chiesa bianca
non è singhiozzo,
ma cammino:
un nodo che lega,
una passione vera
che crea spazio e luoghi,
una promessa umile,
una incerta verità,
una vigile attesa.




Il fascino del salpare

Salpare, e perciò affrontare una nuova navigazione, implica -anche se in sedicesimo- una precisa operazione culturale. Perché infatti quel brivido, quella malcelata eccitazione, quella gioia ineffabile che accompagna ogni partenza, che contagia l’equipaggio, che crea magari un po’ di timore nei non iniziati?
Navigare suppone, nell’atto di partire dal porto, l’abbandonare la fissità e la certezza dei riferimenti terrestri sicuri e certi per affrontare la fluidità, la mobilità, la non-stabilità. Si deve accettare di abbandonarsi alle leggi del vento e delle correnti. Si valica un impalpabile confine, e si entra nel grande regno del mare accettando la sua Signoria e le sue regole. Che possono essere –appunto- durissime.
Per questo ogni partenza per il mare è una vera partenza. Se si resiste e non ci si trascina dietro ogni sorta di mezzi di comunicazione che ci legano alla terraferma, (se non quelli previsti dalla sicurezza), si può, anche in tempi di mediatici cordoni ombelicali senza fine, sperimentare un distacco vero, reale. Perché al di là di quel confine possiamo anche noi, improvvisamente –senza esserne coscienti- ritrovarci nelle condizioni dei primi navigatori, quelli di due-tre millenni fa che, pur nelle navigazioni costiere, (le uniche permesse dalla primitività della tecnica e dagli scafi incerti e incapaci di risalire il vento), si sentivano bruscoli di fronte al mare, ricorrevano all’aiuto di dee benigne per contrastare Poseidone, innalzavano templi in cui lasciavano diligentemente i loro ex-voto.

La Maddalena

cambia il vento
ma non le case operaie di Moneta
verso il ponte di Caprera
le case antiche rosse sbiadite
l’unico bar – marinai e soldati
di fronte al primo “scherzo di terra”
d’una memoria troppo antica
per poter essere solo mia:
infatti sono i racconti della vecchia
e Giacomo che torna dalla guerra
per morire proprio qui…
Ma adesso, qui,
ci sono io….
E c’è ancora il maestrale
A spettinare l’asfodelo
Passando sulle rocce levigate
Cercando strade di terra battuta
Tra teorie di muri bianchi.

Ancora il sole ed il maestrale
A celebrare l’eternità frontale
Dell’isola che sorge dall’azzurro.

Il maestrale
Tra gli eucalipti ed i pini
Segno d’un altro soffio
Che gira le certezze
E rimescola destini:
adesso
me ne posso
davvero
andare.
Agosto 1999

Il linguaggio del mare

Pensando ai quei primi navigatori, senza carte nautiche né bussola né scafi affidabili, senza mezzi di comunicazione con la terraferma né predittività metereologica accettabile, bisogna poter immaginare il mare come “dilatato” nello spazio in modo oggi impensabile per noi.
Eppure, ancora oggi, se si accetta questo “patto” di lealtà col mare –anche fosse per gioco, per una breve navigazione di qualche giorno- allora esso torna a parlarci, e lo fa col linguaggio delle nubi, delle meccaniche degli astri, dei punti cardinali. Lo fa con il regime dei venti, così strano ai più eppure chiarissimo per chi sa. Lo esprime con le leggi della metereologia, con un mare lungo che preannuncia una qualche perturbazione, lo fa alonando il sole o la luna, o facendo brillare le stelle dicendoci così che “sta arrivando il vento forte”.
E’ un linguaggio non verbale, misterioso eppure preciso e leale nella sua “naturalezza”. Può essere sonoro più di un concerto se hai orecchie cuore e umiltà per ascoltarlo. Come tutti i linguaggi non verbali, come la musica, la danza, la gestualità, la bellezza, l’arte nel suo complesso, il linguaggio del navigare ha una vocazione altissima, è trans-culturale, è universale, esprime una cultura trasversale e antica quanto il mondo. Può, come il mare stesso, essere un grande unico e comune medium, un mezzo che lega, che unisce, che affratella.
E’ apparentemente primitivo nella sua sintassi, perché è un linguaggio elementare, che usa il fraseggio dei marinai, che parla la lingua dei semplici. Ma richiede e produce competenze che, sommate e integrate nei millenni, hanno prodotto una “cultura del mare” ricchissima. Se sei insicuro sul cosa fare della tua imbarcazione in quel mare che non conosci, chiedi sempre a un pescatore del posto. Guarda, osserva bene come ormeggia lui la barca, chiediti perché fissa una cima così e non in altro modo. Difficilmente sbaglierai. Probabilmente –anzi certamente- i suoi nodi d’ormeggio sono antichi di un paio di millenni.
Il linguaggio del mare è inoltre uguale in tutte le latitudini. La interazione tra vento, scafo, vele, correnti non è diversa nel Mediterraneo, alle isole Fiji o nell’’Oceano Indiano. I marinai di tutti i tempi e di ogni luogo si capiscono e si capirebbero perfettamente, proprio perché in possesso di una complessa e ricchissima lingua comune, una sorta di esperanto del mare, un sapere comune della navigazione. E se certamente nel tempo e nei vari luoghi si sono modificate le linee d’acqua, la forma delle prue, delle vele degli scafi e dei materiali, è affascinante sapere che non occorrerebbe più di tanto per un marinaio esperto passare a manovrare uno scafo piuttosto che un altro, e che due regalanti su una barca a vela possono anche non parlare la stessa lingua: probabilmente, se sono entrambi bravi, vinceranno la loro regata senza parlarsi, perché per gestire un imbarcazione non è necessario farlo se ognuno sa cosa deve fare lui e cosa l’altro.


Le grotte

Miriadi d’occhi sbigottiti
ci guardarono
pupille stupefatte
sbarrate al nostro passare
fiori immemori
che la tenebra nutrì
ed ora respirano
lambite dalle onde
vene viola tessuti rossastri
colate di grigio raggrumato
- segni oltre ogni significato -

Mi rivolgo indietro
e l’urlo stesso di Dioniso
è l’ultima luce di smeraldo
che ferisce il cuore dell’abisso.


La navigazione a vela

Navigare per mezzo di una vela, catturando l’energia del vento per avanzare sul mare, è di per sé un mondo a sé stante. La storia della vela è -di fatto- la storia stessa della navigazione, almeno fino alla fine del secolo scorso quando l’epoca dell’ elica, la potenza del motore hanno fatto irruzione mettendo a riposo la marineria a vela. Almeno per l’aspetto della navigazione per motivi di commercio, trasporto passeggeri o scopi militari.
Ma la vela si è presa la sua rivincita, non solo nella navigazione “per diporto” o sportiva, ma anche perché si è visto che l’arte –perché di una arte bella si tratta- del condurre uno scafo col solo aiuto del vento è ancora essenziale nella formazione di un marinaio, di un capitano, di un uomo di mare. Tanto che, per i cadetti delle Accademie che formano gli uomini di mare, una crociera su un veliero resta un passaggio obbligato.
Il fatto è che non esiste, credo, altra maggiore misteriosa sintonia, nessun altra intesa, nessun altro affascinante concerto così come quello tra scafo, vento e vele.
Il canto del vento sulle vele non si può dire, ma solo udire.
La vela abbraccia il vento, lo contiene, lo accoglie, lo fa scorrere lungo le sue nervature, lungo i ferzi della sua tela, ed il vento le dona la forza. Le dona l’energia, questa energia invisibile eppure così sonora, così evidente, così poderosa quando spinge, quando fa muovere lo scafo a cui trasmette il moto e la vita. Nel navigare a vela è come se due parti della stessa realtà si ritrovassero, si ricongiungessero. Per questo forse quella sensazione di essere, da parte del marinaio della marineria a vela, solo un attonito e stupito mediatore.
Se la vela è l’anima dello scafo, il vento è lo Spirito che chiede di essere da lei essere accolto. Il suo soffio può abbattere se troppo forte o se la vela non è bene a segno. Ma che motore, che equilibrio, che potenza se la sintonia c’è!
E’ suggestivo che “ànemos” sia radice sia di “anima, soffio vitale,” che di “vento”.


Vento di notte e di mare

La notte si sveglia fresca
Se il fremito del libeccio
trascorre le strade,
tutta la città ne è affaticata
-e tesa –
come una vela:
mi par di vederla,
leggermente inclinata,
verso un nord miracolosamente fermo…

Accertatomi della giusta navigazione
In pieno vento m’addormento.

Navigare è transitare fuori del tempo.
Se salpare suppone accettare le leggi del mare che parlano di spazi diversi, spazi che dicono infinito, navigare –se ciò dura per qualche giorno, o addirittura mesi come era frequente nella storia della antica marineria- può implicare una strana e insolita sensazione. Si comincia a sperimentare una condizione che chiamerei di “atemporalità”.

In navigazione ogni attimo c’è qualcosa da fare, una vela da mettere a segno, la rotta da controllare, la valutazione delle condizioni meteo, l’attenzione alla giusta direzione. Se si naviga su un kajak marino, c’è una pagaiata dopo l’altra da dare, ci sono i compagni con cui parlare, ci sono le mille meraviglie di coste ed anfratti e grotte da osservare, c’è comunque una direzione da tenere. Direzione che, come solo in mare può avvenire, è retta, è semplice, lineare.
Per chi sta al timone vivere “attimo dopo attimo”, attento al vento, all’onda che passa, alla rotta, non diventa più uno sforzo artificioso ma una condizione che il mare concede come per grazia. La barca naviga, tutto intorno muta continuamente in un eterno presente, ogni onda è sorella dell’altra eppure mai uguale. Il vento può mutare, cambia direzione, ma adattare al vento l’assetto delle vele è un lavoro che da gioia, richiede perizia e conoscenza, e alla fine è una questione che si risolve tra vela e vento.
L’uomo si sente un felicissimo mediatore tra vento, mare, natura e scafo, e quest’ultimo sembra avere vita propria.
La navigazione vuol dire anche: sorpresa, novità.
Delfini al largo magari, una buffa forma di una nuvola, un cargo all’orizzonte, l’incrocio con una altra barca, un banco di pesci che salta, grotte o torri saracene, una costa interessante, un saluto incrociando un’altra barca con cui subito ci si sente complici e un po’ fratelli.
Navigando cessano le ansie, ci si occupa ma non ci si preoccupa, e anche se si immagina un cambio di tempo, un rinforzo del vento è naturale -sì, “naturale”- attrezzarsi, prepararsi, ma non viene da agitarsi. Un buon marinaio prevede, lavora, è accorto, ma non ansioso. Ci si sente in una dinamica e parte di una forza che ci trascende, che spinge la nostra imbarcazione per una sorta di concessione del cielo.
Anche lo scorrere delle ore riprende il suo senso. Ogni ora ha il suo colore, la sua bellezza, la sua luce.
Oltre a questa sorta di atemporalità, è concessa al navigante un altra esperienza unica nel suo genere. Quella della piena e compiuta infinità.
Lontano dalle coste, l’orizzonte ottico si allarga fino a divenire totale. Al largo per 360 gradi si vede sempre e solo mare. Intorno non c’è altro. E questo si può esprimere con una sola parola, che solo parola non è perché archetipo struggente e numinoso, pieno di sostanza, categoria della mente e del cuore, emozione, respiro e bellezza. E si chiama infinito. Infinitezza. Come il cielo stellato (che in alto mare ha la stessa incomparabile bellezza del cielo di alta montagna), così anche il mare all’orizzonte dice infinito. Sempre, anche quando lo si contempla da una costa, l’orizzonte fa pensare: non vedo oltre non perché non posso, ma per la curvatura della terra, per la finitezza dell’atmosfera, ma potrei...
Al largo tutto ciò diventa assoluto e pieno, quando da ogni parte ti senti abbracciato sempre e solo da quell’infinita perfetta linea circolare che chiamiamo orizzonte.


Olhao

Sguardo spalancato a sud
pupilla di sabbia e azzurro
taglio orizzontale
che accoglie ogni luce
mentre l’anima
è condotta dal tempo:
e noi ci entriamo dentro.


Arrivare in porto. Approdare

Anche il “ritorno a terra”, l’approdo ha un sapore unico, diverso che il ritorno a casa via terra. Giungere “dal mare” in un porto produce una emozione particolare nella mente del navigatore. Ed è particolare anche la percezione di chi vede qualcuno “arrivare dal mare”: lo vede diverso, proveniente da un mondo a suo modo affascinante ma estraneo. Forse perché si sa da sempre che dal mare giunge la diversità, l’alterità, il non-conosciuto?
E perché quel sentimento struggente che si produce in chi arriva, che è un misto di gioia magari dopo navigazioni dure (“siamo giunti finalmente in porto”) ma anche di “paradiso perduto”? Forse per quella situazione di atemporalità relativa da cui si proviene?
L’ approdo “contiene” la navigazione appena fatta e la compie, chiude il cerchio che aveva avuto nel salpare la sua origine, ma non sazia la voglia di ripartire ancora. Forse che il navigare ci aveva reso transitoriamente immuni -come per un incanto- dalle ansie e dalle prosaiche leggi terrestri che tornano a spaventarci? Forse impalpabile arriva la paura di ricominciare la vita normale?
“Arrivare” ( a-rivare= giungere a riva) è una parola fiorita per la prima volta sulla bocca di un navigante.


Portimao

Ci entro controvento
in una pomeriggio di sole
e s’apre al passare
un porto orizzontale
placido eppur frizzante
di campane pescatori e sabbia.

Il vento di terra
scorre sulle cose e le leviga,
le lucida per l’occasione,
per un pomeriggio nuovo,
per la memoria bambina
pel gioco della poesia
che altro non sa fare:
è arte della memoria
ma non se ne fa imprigionare.


Mare davvero maestro?

Forse è vero che “il viaggio”, ogni viaggio, è icona della vita, perché è condizione umana per eccellenza quella di essere viator .
Contiene la navigazione quelle peculiarità che realmente possono fare del viaggio per mare l’icona del “viaggio perfetto”?

Per i suoi originali elementi di profonda distinzione tra le parti del viaggio (salpare, transitare, approdare) ma la loro altrettanto forte unitarietà.
Per l’assolutezza dell’ “orizzonte” a cui guardare che apre all’infinità.
Per la linearità del transito, della rotta, che educa alla dirittezza e alla semplicità.
Per l’incertezza del medium in cui si transita che obbliga al coraggio e abitua alla transitorietà.
Per l’esperienza di “tempo fuori del tempo” che insegna a vivere nel presente.
Per tutti questi elementi insieme che dicono libertà e insieme umiltà e senso di “piccolezza” e per quant’altro detto, credo si possa affermare che il mare e il navigare possono modificare la mente del “viaggiatore di mare” producendo originali strutture di personalità e potendo assumere così una forte valenza “pedagogica”.


18 luglio

Ci siamo accorti della massa enorme di granito che ci soverchiava soltanto dopo aver doppiato il capo.
La giornata era calda, ventilata da una forte brezza da sud.
La parte meridionale dell’isola è dominata da queste masse di roccia e da una vegetazione tipica di zone aride.
Solo gli oleandri, qua e là, spezzano il colore calcinato delle pietre.
Il mare è subito fondo, di quel blu scuro che soltanto luglio ed il vento di oggi sanno far risplendere.
Torniamo controvento e ri-doppiamo il capo, proveniamo da nord ovest e tagliamo le onde di traverso, più ci avviciniamo al capo più le chiglie vengono alzate e spostate dalle onde, mentre le nostre pagaie correggono la traiettoria quasi ad ogni colpo.
Il vento si è incaricato di incrociare questo doppio – in realtà molteplice – movimento spostando le greggi di nuvole addosso al monte ed ai massi calcinati che si innalzano verso la vetta di questo versante, fino a afrangiarsi, chissà, appena arrivate sul continente.

Solo ora ci penso, così mi piace vivere e vedere il mondo: contemplare il movimento muovendosi noi pure.

Solo questo ci avvicina un po’ alla meravigliosa e terribile avventura del reale.

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