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Da Varsavia

di Elvira Scognamiglio
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Pubblicato il 09/05/2009 17:48:04

1947, Varsavia

Entrò lentamente nell’aula e appese il copriabito all’attaccapanni. Sfilò il cappellino e lo appoggiò sulla cattedra. Guardò il silenzio di quei banchi scuri, gli uni accanto agli altri, squadrati come il tavolo di scacchi. Salì sulla pedana e sedette in attesa.
1, 2, 3.
Prese dalla borsa un libro e inforcò gli occhiali per la lettura, scegliendo la pagina da leggere. Se l’avessero beccata con quel libro, di certo l’avrebbero licenziata. Leggere le poesie di CZECHOWICZ in classe…? Doveva essere pazza. Dopo tutto quello che era accaduto, dopo la guerra, i morti, lei se ne stava in classe con un libro di un avanguardista? Tra poco sarebbero arrivati i ragazzi e tutto avrebbe preso una forma diversa. Avrebbe sillabato le consuete parole, avrebbe corretto i loro compiti e avrebbe fatto in modo da far leggere a ciascuno di loro un pezzetto di storia. Ma il tempo era pessimo e i ragazzi avrebbero sicuramente tardato. Si fermò a guardare il suo ombrello a pois che aveva lasciato a gocciolare all’entrata e pensò che, nonostante gli anni avanzati, continuava ad acquistare ombrelli da bambina. In quel mentre dalla fessura della porta intravide un’ombra. Forse il bidello. Forse il professore Schulmann. Forse qualche ragazzino idiota della classe affianco. Posò in silenzio il suo libro, cercando di camuffarlo tra le altre cose della sua borsa.
Entrò senza bussare. Si affrettò a togliersi gli occhiali e a guardarlo camminare per l’aula.
Cosa ci fai qui?
Infondo, Varsavia è anche la mia città.
No, dico.. cosa ci fai qui, adesso, nella mia classe! Tra poco inizierà la lezione.
Non rispose e si avvicinò alla finestra. Aveva l’aspetto di un uomo maturo. Se non l’avesse conosciuto, gli avrebbe dato almeno cinquant’anni. I capelli imbiancati, la fronte segnata dalle rughe, le mani rovinate dal freddo. Tolse il cappello in segno di rispetto, ma non osò appoggiarlo da nessuna parte. Né su un banco, né sulla cattedra, né sul ballatoio della finestra. Un rapido giro per l’aula e poi di nuovo, senza parlare, verso la finestra.
Che vista stupenda. Pensavo di aver dimenticato come fosse fatta Varsavia.
Si portò la mano destra al volto, come se stesse piangendo, mentre manteneva stretto con la sinistra il cappello. Varsavia era cambiata tanto. La guerra l’aveva massacrata, numerose vie erano interrotte e lo spettacolo che si vedeva da quella finestra era molto diverso rispetto a dieci anni prima. Lui era cambiato. Debole e fragile come sempre, ma grande e grosso come un orso. Lei era cambiata. Avrebbe pronunciato una freddura e avrebbe fatto partire una risata, come era suo solito, eppure lì, in quel momento, seduta a neppure dieci metri da quell’uomo, non ebbe neppure la forza di fiatare. Guardò la porta in attesa che qualche ragazzino giungesse in anticipo. Avrebbe desiderato che perfino il preside giungesse disatteso, in quel frangente. Avrebbe urlato a squarciagola di essere una sovversiva e se la sarebbe filata, pur di non dirgli niente altro, pur di non scambiare neppure uno sguardo con un uomo che aveva odiato per dieci anni di fila. Lentamente si aggiustò il bavero della giacca del tailleur scuro, in attesa del momento giusto per sgattaiolare fuori dall’aula, fuori dalla scuola, in giro, tra le rovine di Varsavia, nelle strade piene di miseria e morte. Avrebbe camminato a testa alta fino a casa, avrebbe chiuso con accuratezza il portone dietro le spalle e aperta la porta si sarebbe gettata sul letto soffocando in un urlo tutta la sua rabbia. Avrebbe aperto la porta del bagno e sciacquato il viso fino a farlo diventare rosso. Infine, avrebbe guardato il suo volto riflesso nello specchio e avrebbe chiuso gli occhi per dimenticare, cancellare, annientare nella sua mente tutto quello che era stato di lei in quei dieci anni.
E invece, era ancora lì. Guardava la sua spalla appoggiata al muro, ascoltava la sua stanchezza nei suoi sospiri.
Varsavia è cambiata moltissimo. Come fai a dire che questo paesaggio ti piace?
Non si voltò, ma dal vetro la vedeva ancora seduta alla cattedra. Lo guardava come se fosse stato un suo alunno monello, un ribelle in punizione in fondo all’aula.
1, 2, 3.
Con aria di rassegnazione, prese il libro dalla borsa, si alzò lentamente e si diresse verso la finestra. I suoi passi erano massacranti. Ogni passo una nota. Ogni passo un tonfo. Ogni passo una parola da prepararsi a dire. Sospirò per evitare di girarsi e ripensò alle sue scarpine nere, quelle che in quel giorno d’inverno rimasero incastrate nel fango dei giardini pubblici di Varsavia. La rivide a Londra, a mangiare beffardamente chocolate brownie davanti a lui e a ostentare le sue scarpine nere dondolare dallo sgabello del coffee.
Aprì il libro e mise gli occhiali.
Davvero non ci vedi più?
Stavolta davvero non ci vedo più.
Con gli occhiali era un’altra. La ricordò con le trecce dei suoi quindici anni, a correre dietro gli aquiloni nelle giornate primaverili. La ricordò con i suoi zigomi alti e i suoi vestiti rossi. Ricordò lo sguardo appannato dal sole e le sue battute caustiche. La rivedeva con la sua tuta da lavoro nella tipografia dei tempi che furono, quei foglietti caldi e la soddisfazione sul volto dei Compagni. Brindarono insieme, quel giorno. Tutto stava andando come volevano. Eppure qualcosa non quadrava. Qualcosa gli si era impigliato dentro, quel giorno. E ora se la ritrovava davanti. E non sapeva perché l’aveva cercata, non sapeva che dirle, non sapeva da dove iniziare, non sapeva più nulla. Varsavia era diversa, ma avrebbe tanto voluto vederla ancora così come l’aveva lasciata. Dieci anni prima.

la morte non sa più di nulla
con finestre e nera palpebra
colpisce ogni notte
dietro il fiume tranquillo
La vita è breve per andare a dormire
dice la voce dal lato destro
breve vita per andare a dormire
voce a sinistra
breve vita per andare a dormire
il terzo
una vergine terra
cerca il motivo per cui
i tuoi occhi non vadano oltre
l’ora in cui è nato Zem
come una scatola chiusa con dolore
dalla mano del morto Czechowicz

Chiuse il libro e guardò fuori dalla finestra per un attimo, come se avesse letto una poesia rivoluzionaria al suo allievo monello. E ora aspettava di essere licenziata.
Dorothy, la rivoluzione è finita. La guerra è finita. Tutto è finito ed è passato.
Ma non sembrava convinta. Abbassò gli occhi, si tolse gli occhiali e guardò le vie di Varsavia.
1, 2, 3.
Che cosa hai fatto in questi anni?
E finalmente si sciolse in un sorriso, guardandolo negli occhi. Attraverso il suo sguardo, avrebbe voluto restituirgli la Varsavia dei tempi che furono.



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