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Un oceano in mare
Se qualcuno le avesse chiesto di cambiare vita, quel giorno, lei lo avrebbe fatto. Sarebbe partita di nuovo, qualche giorno dopo. Per inseguire un sogno, per appagare la sua ansia di fare del bene agli altri, per la curiosità di guardare ancora una volta lo sguardo malandrino di quel rumeno. È incredibile quanto un ragazzino problematico possa –con una sola occhiata- entrarti nel cuore e fare un simile massacro. Con tutti questi pensieri cercava di concentrarsi sull’ultimo libro di Baricco. Niente di che, pensava. La consueta prosa minimalista che tante volte aveva cercato di scimmiottare a fatica e con risultati scarni. Il rischio era quello di consentire all’assenza di parole e di punteggiatura di prendere il sopravvento sul contenuto e sull’efficacia del senso. La retorica così terribilmente svilita scompone l’arte del racconto in una semplice parodia del dire e non dire, del detto e frainteso. Un oceano che si getta nel mare. A intervalli regolari alzava gli occhiali con l’indice destro e stendeva le occhiaie, come per cancellare la stanchezza e la tristezza di quei giorni natalizi. Davanti a sé scaffali su scaffali. Colori sfavillanti e gente dappertutto. Soltanto a Natale si vendono libri, pensava, stringendo la caviglia sinistra sotto la gamba destra, mentre sorseggiava il the delle undici. Non ci posso credere che tu davvero stia qui, leggendo il libro di Baricco con un the al latte e la caviglia sinistra sotto la coscia destra… Tolse gli occhiali e tentò di rispondere senza riuscirci. Tagliava il suo silenzio con un sorriso. Poi una lenta risata. Sganciò la gamba, come qualcuno che è pronto per andare via, ma il the era ancora caldo e non aveva alcuna intenzione di farsi rovinare le vacanze di Natale da chi non faceva più parte della sua vita da troppo tempo. Sono contento di rivederti. Erano anni che mi chiedevo se mai fossi riuscito a sedermi dinanzi a te e guardarti ancora una volta negli occhi. Eppure i suoi occhi non si erano spostati dal libro e neppure dal tavolino. Accettava la sua presenza, non era il caso di comunicarsi altro con lo sguardo. Il silenzio indicava il suo disagio. Lei. Un mondo di parole e sguardi. E ora era con gli occhi bassi e senza parole. Mi dispiace, non volevo farti del male. Me ne vado, ti lascio al tuo libro. E al tuo the. Era una frase che sapeva di dover pronunciare, se non altro per evitare di raccontare balle a se stesso e al mondo intero che in quel momento, quel 23 dicembre, lo sapeva e lo voleva altrove. In giro per shopping. In compagnia di un amico. Perché aveva deciso di scrivere una pagina di quel racconto? Se lo chiedeva, mentre la guardava incurvata sul libro accarezzare le parole di Baricco. Che perversione. Che malefica tentazione di entrare in quel videogioco per morirci dentro fino alla scritta game over. Ti aspettavo. E aspettavo quel che mi devi… Parlava. Non era diventata muta. E non aveva mai sentito nella sua voce, per quanto potesse ricordarla, quella determinazione. La vita l’aveva cambiata e i suoi occhi lo dimostravano. L’aveva lasciata una ragazzina capricciosa e caparbia. La ritrovava donna matura e fatale. Quanti occhi le erano passati davanti, quante braccia, quante labbra. A guardarla bene sembrava tatuata del dolore di ogni perdita, di ogni sconfitta, di ogni rivincita, di ogni sofferenza procurata. Stai tranquillo, sembro triste, ma sono felice. Sono in partenza per la Romania. Vado a trovare qualche amico zingaro. E vado a cercare gli occhi di uomo che non ho potuto dimenticare. Come vedi, sono ancora folle, esattamente come qualche anno fa. Cambiano i protagonisti delle storie, eppure non smetto mai di affondare il coltello nella piaga e rivoltarlo fino a quando non mi faccio del male. Prendiamo un the insieme… Soltanto se mi parli ancora dei tuoi viaggi. Te lo prometto. Allora di certo mi parlerai di altro. Non hai mai mantenuto le promesse. Quale promessa feci e non mantenni? Ti mando l’elenco via mail. E una risata fragorosa esplose dalle sue labbra. Si era già alzato per andare a prendere il suo the, quando pensò di girarsi ancora una volta. Sarebbe scappata via, immaginava. Conoscendola, non avrebbe retto fino alla fine del the. O, seppure lo avesse fatto, avrebbe manifestato l’acredine di un passato che probabilmente bussava ancora alla sua porta, ogni tanto. Lo si capiva nei suoi gesti, nei suoi occhi bassi, nel suo feroce imbarazzo. Ordinava e non le toglieva gli occhi di dosso, come se dovesse controllarla, come se non dovesse andar via. Non prima di averle dato quell’ultima pagina. Ci aveva lavorato un’ora. Forse due. Non le sarebbe piaciuta. I suoi gusti erano così impregnati di quella letteratura romanticheggiante infarcita di stacchi continui, pause di lettura e doppi sensi. L’aveva stampata e riletta in fretta, prima di uscire. Doveva andarci a quell’appuntamento, ammesso che quello fosse un appuntamento. Sono contenta di rivederti. Mi dispiace di non essere dell’umore giusto, ma è stato un anno terribile. Un matrimonio saltato, un licenziamento da firmare, scelte importanti da compiere. Il mondo mi massacra, ogni giorno che passa. E io scrivo. Capisci? Non riesco a fare altro che scrivere. Così tirò fuori qualche foglio A4 dalla tasca dei pantaloni. Sembrava un documento importante, come un atto di vendita o di separazione. Questa è la tua pagina. Ho cercato di… entrare in punta di piedi nella tua prosa. Leggila per me. Aggiustò gli occhiali sul naso e si voltò imbarazzato intorno, ma non esitò a leggere ad alta voce per lei. Leggeva. Leggeva piano, parola dopo parola. Senza interrompersi dinanzi al rumore della gente in festa. Senza alzare mai lo sguardo. Senza tornare indietro sui termini. Leggeva. Prendeva fiato a ogni pausa e sottolineava con la voce le espressioni più belle. Ed era felice. Mai come in quel momento era stato tanto felice. Al punto finale sospirò, alzò la testa e cercò il suo sguardo. Annuì senza battere ciglio. E gli sembrò che una carezza gli arrivasse piano sulla guancia destra, lì in mezzo alla barba. È tempo di andare… Grazie per avermi letto la tua pagina. Grazie di essere stato qui. Si alzò e scivolò via, lasciando sul tavolo la copia del racconto. Come se l’avesse ricevuta, ma non l’avesse desiderata abbastanza. Come se fosse stata scritta per il mondo intero e non soltanto per lei.
Id: 1613 Data: 10/09/2012 15:47:57
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Bello, giovane e straniero
Siamo persi. Abbiamo perso. Si dice: ‘abbiamo perso la partita’. Avrebbe voluto aggiungere: ‘ accompagnami a casa, facciamo un pezzo di strada insieme’ . E poi il rumore della gente, il chiasso dei bambini, l’organizzazione rapida. Via. Ognuno era andato per la propria strada. Come quelle piante rampicanti i cui rami sono liberi di andare dove vogliono. Di certo quasi mai nella stessa direzione. Quanto sia importante incontrare l’altro lo imparava per la prima volta a trent’anni. Era rimasta a guardare la vita che passava davanti ai suoi occhi per troppo tempo. La gente le faceva paura. Il mondo le faceva paura. Gli uomini le facevano paura. La naturalezza della vita le faceva paura. E così la bellezza, le emozioni e le sensazioni forti. Eppure una vita adagiata sulle paure non è vera vita. Così ogni volta che i suoi occhi incrociavano quelli di Zamfir si rendeva conto che la paura non era mai abbastanza. Doveva salvarsi da quella ragnatela. Doveva cavarsela da trentenne innamorata della vita senza amare mai niente. Doveva piegarsi come un fiorellino al vento e tenere duro per evitare di sentire lo stelo spezzarsi dinanzi alla violenza della brutalità umana. Zamfir le faceva paura. Bello. Giovane. Straniero. Amante ideale. Tutto questo le era rimasto impresso nella sua mente sin dai primi momenti in cui l’aveva conosciuto. Quello che proprio non poteva sopportare era il suo strano modo, quanto mai italiano, di intrecciare rapporti, di vivere le amicizie, di sostenere lo sguardo di una donna. Tutto questo, imparato da anni di osservazione continua degli italiani e delle italiane, era esasperato in quell’estate rumena. Si era chiesta se quei continui commenti con gli amici non facessero parte di quella naturale bellezza che è la relazione tra gli uomini. Un teatrino di corte per prendere di mira il più forte e girarselo come un pollo arrosto. E lei era forte. Proprio forte. Un personaggio da baraccone. Troppo grande per starsene in mezzo ai ragazzini. Troppo piccola e insicura per vivere quell’esperienza come avrebbe dovuto. Quello sguardo basso, quel sorriso con la punta in giù. Cosa nascondeva quella donna? Quante storie per far divertire un gruppetto di giovanotti in calore. E quella donna nascondeva uno, due, tre dolori. La sofferenza di una famiglia troppo apprensiva. La sofferenza di una famiglia mancata. La sofferenza di non essere perfetta, di essere presa di mira, di non passare inosservata. Era cresciuta in un paesino del napoletano divisa tra le braccia della madre e quelle della nonna. La sua infanzia era stata silenziosa, a guardare i bambini dietro le spalle del padre senza poter giocare per strada. Per non sporcarsi il vestito e non farsi male, come diceva la madre. Il suo sguardo impacciato le impediva di essere una bimba normale. Sembrava un’autistica. Sempre muta, alla ricerca di foglie, di pinoli, di animaletti con cui dividere un pezzo di vita. Non ricordava un momento felice della sua infanzia, eccetto quello in cui era salita su una grande altalena che le aveva donato un po’ di vento tra i capelli. Era stata una ragazzina cresciuta nel buio di una stanza. Sofferente per tutto quello che non riceveva dalla madre. Insofferente per tutto quello che la vita le negava ogni giorno. E il suo ricordo più bello era nel silenzio della sala d’attesa di un medico: mentre sua madre si confidava con il suo psicologo di fiducia, lei leggeva i quaderni delle figlie del dottore. E sognava di diventare come una di loro, un giorno. Perché sua madre sarebbe cambiata, sarebbe ‘guarita’, avrebbe restituito tutte quelle cose che proprio in quel periodo non riusciva a darle. Attenzione, affetto, calore umano. Invece dinanzi agli anni che passavano si ritrovava sempre nel buio della sua stanza a provare piacere per quelle poche parole ascoltate dal cantante del momento. La rivoluzione, la ribellione. Ma lei non avrebbe mai capito, non avrebbe mai avuto il coraggio. Degli anni del Liceo le rimanevano i pomeriggi sui libri o sul letto a guardare il sole al tramonto, dietro i vetri di una finestra. Le rimaneva il ricordo di quel primo amore e quel quaderno che le è tornato indietro a Sighet, sotto altre forme e in altri modi. Le rimaneva l’amaro di quella ragazza con l’orecchino di perla che le aveva rubato l’amore della sua vita. Le rimanevano le sere passate a guardare l’orologio, a temere l’ennesima strigliata per un ritardo di troppo. Doveva stare in casa per sempre, a sentire loro. Doveva evitare ogni tipo di contatto con l’esterno, perché il mondo è un mostro oscuro. La famiglia pensa al bene dei figli, gli altri pensano soltanto a fare del male. Perché gli altri non hanno interessi affinché tu stia bene. E infine lo scivolone della vita adulta. Una depressione mai curata. Un dolore che prendeva le vene delle mani e che si diffondeva per tutto il corpo tra lacrime e pianti di ogni tipologia. Un passo e un sospiro. Un silenzio e un pianto. La fede l’aveva salvata e lei neppure lo sapeva. Perché non parlava? Perché non diceva che tutto quello che avrebbe voluto era rubargli un abbraccio. A lui che ne dispensava tanti in giro. Cosa gli costava un abbraccio. Gli avrebbe raccontato una storia che lui non avrebbe capito e si sarebbe accoccolata per dieci minuti sulla sua spalla. E invece andava così. E lei camminava guardando indietro. Aspettando di vederselo piombare addosso. Aspettando che smettesse di giocare con altre donne per trascorrere dieci minuti con lei. Ma lui non lo avrebbe mai fatto. Perché di lei c’era soltanto da vergognarsi, come di quella bambola trascurata e triste che si aggirava per il Liceo qualche anno prima. Allora avrebbe gridato che aveva ragione. E che non si dice ‘abbiamo perso una partita di pallone’, ma ‘siamo persi’. Perché la nostra anima è persa. Ogni minuto è perso. Ogni persona non incontrata è persa.
Id: 1591 Data: 04/09/2012 22:29:49
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E le parole solleticano
Resto qui per sempre. Aveva pronunciato con fermezza. Il dito sul bicchiere di vino, lo sguardo nel vetro, il piede penzoloni dalla sedia. Il sorriso smunto. Quanto tempo aveva aspettato di sentirsi dire che qualcuno sarebbe rimasto per sempre. Così il trillo del forno aveva interrotto qualcosa di inaspettatamente nuovo. Una sensazione di sazietà e irrequietezza. Se non fosse vero. Se stesse scherzando. Se tutto scoppiasse in un momento. Se adesso il vino cadesse e se lui andasse via per sempre. E invece era lì e alzava i suoi occhi neri per cercare altri occhi, per chiedere un martello per rompere quel silenzio. Perfino il pollo nella pirofila urlava nel silenzio di quella notte. Aprì di botto il forno e tirò fuori le patatine sorridenti. Fece finta di scottarsi e le scaraventò sul piano cottura. Ma colse anche l’occasione per rompere l’unione di quegli occhi senza altre parole. Quante parole in quello sguardo. Quante volte gli avrebbe detto: ‘resta qui per sempre’. Quante volte gli avrebbe detto: ‘Sono felice anche di guardarti soltanto per un altro giorno’. Quante volte avrebbe accarezzato la sua barba. Quante volte avrebbe toccato il naso col suo dito. Mi versi del vino? Ma non hai sentito? Resto qui per sempre. Il rossore le bagnava le gote. Tuffava le sue parole nella Divina Commedia, nelle indecisioni e nelle insicurezze di tutta la sua vita. Eppure altre parole non uscivano. Un’insolita rabbia tramutò una bella frase in qualcosa di terribilmente fastidioso. Le faceva piacere, ma non lo voleva dare a vedere. Perché temeva di essere troppo fragile, di sentirsi nel pugno nelle mani di qualcuno che avrebbe potuto schiacciare le sue emozioni da un momento all’altro. Preferiva nascondersi, correre dietro ad aquiloni inutili di parole e rimanere indietro. Sempre indietro. Sempre alle spalle di qualcuno. Coprirsi. Senza puntare in alto. Guardando in basso, vivendo sullo scivolo appollaiata invece che lanciarsi col vento tra i capelli. Aveva passato la sua vita seduta su una moto che non era mai partita. Così il pollo si bagnò delle sue lacrime. Tentò di soffocare il respiro nel grembiule e un abbraccio la colse impreparata. Quell’abbraccio che aveva amato. Quell’abbraccio che aveva sognato. Per tutta la vita. Mi devi scusare, parlo così tanto che poi dimentico le parole quando sono felice. Chiacchierava tanto. Così tanto che proprio non la tollerava. Aveva imparato a guardarla negli occhi senza impegnarsi a comprendere quello che diceva. Si divertiva a vedere quella luce che zampillava dalla pupilla alla cornea. Sarebbe rimasto ore a puntarle gli occhi negli occhi per vederla spaventata distogliere lo sguardo per non fargli capire quanto fosse innamorata di lui. Non sapeva cosa voleva nella sua vita, ma avrebbe fatto di tutto per non eliminarla dai suoi giorni e dalla sua geografia. Lo sapeva da anni. Lo sapeva da sempre. E non avrebbe fatto niente altro che tenerla stretta per ore, mentre la curva della sua schiena diventava sempre più tonda e lanciava sbuffi e lacrime che scivolavano sulle guance rosse. Nessuno dei due si era posto problema dell’esagerazione delle loro parole, delle loro scelte. E quelle lacrime erano soltanto il retaggio di quella struttura mentale che si chiama razionalità. Domani sarebbero giunti in fila i ‘come’, i ‘perché, i ‘ma’.. Ma in quell’istante quella frase risuonava come un grido d’allarme, un canto di libertà dietro le sbarre. Cadde a terra a ginocchioni. I singhiozzi erano troppo forti, le emozioni erano diventate terribili pezzi di vetro ficcati nel suo cuore. Non poteva essere vero. Era il solito incapace. Non comprendeva il senso di quelle parole in italiano e le buttava fuori così, tanto per parlare. Eppure entravano dritte per quella via che era proprio la strada della sua felicità, dei suoi desideri e delle sue aspettative. Impossibile. Nella vita nulla è così semplice. Non si pronunciano le cose e ci si sente felici. Non poteva essere così vicina la felicità. E una risatina beffarda le solleticava l’orecchio destro. Rideva. Rideva di lei. Una carezza le arrivava al seno e risaliva fino ad asciugarle quella impertinente lacrima che scendeva silenziosa e fredda dall’occhio sinistro. Conosci la mia storia. Non potrei stare in nessun’altra parte del mondo. Perché piangi tanto? Pensi ancora che io ti prendo in giro? L’uso del congiuntivo era troppo difficile per lui. Aveva smesso di piangere, aspettava soltanto che la morsa dei singhiozzi andasse via definitivamente. Tuttavia manteneva la testa bassa e stringeva la mano che le accarezzava piano il viso. Era un bimbo. Un adorabile bambino con gli occhi scuri e la carnagione del colore del pane ben cotto. Un piccolo uomo eternamente bisticciato con la lingua italiana.
Id: 1584 Data: 26/08/2012 14:35:56
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La danza delle parole, dal diario di Lea
Ogni età è quella giusta per scrivere. E le parole indicano sempre qualcosa di nuovo e inaspettato. Ciò che mi piace fare è solitamente un gioco: mi concentro su una parola e associo almeno tre pensieri per ogni parola, uno per ogni età della vita. Un pensiero della Lea di dieci anni, un pensiero della donna di trent’ anni e un pensiero della signora di ottant’anni. Alla mia età ormai abbraccio un’epoca, inglobo generazioni di figli e nipoti, posso ricordare e usare le parole a mio gusto e piacere. Facciamo qualche esempio. Arcobaleno Lea10. Il maestro mi ha spiegato come si forma un arcobaleno. Questo esperimento mi è piaciuto molto, vorrei tanto riprovarlo a casa con calma ma temo che la mamma non sarà d’accordo. “Il disordine è il presupposto di un lavoro maggiore” mi ripete il babbo molto spesso. Ed io credo proprio che una bacinella d’acqua potrebbe essere disordine nella mia camera. Lea30. E’ incredibile ritrovare dopo dieci anni di matrimonio quel magnifico biglietto d’auguri. “I tuoi occhi sono per me l’arcobaleno”. Dopo qualche mese chiese la mia mano. La storia d’amore che stiamo vivendo, i figli, i dispiaceri, tutto il resto, è stato scatenato dalle lacrime che versai nel leggere quel biglietto. Lea80. L’arcobaleno coi suoi colori già da un po’ di tempo lascia il passo nella mia vita a due sole tinte percepibili. Il bianco e il nero. A volte li mescolo, altre volte faccio in modo che il mondo abbia un solo colore invece che due. Allora la vita è tutta nera. Oppure, in altri giorni, la vita è tutta bianca. Soltanto l’altro giorno mi sembrato di nuovo di vedere tutti i colori, quando mia nipote Lea è salita in camera mia e ha aperto le sue mani mostrandomi il sole nei suoi occhi. Il suo bagliore mi è rimbombato dentro come un fascio di luce dopo tanta pioggia. E fu l’arcobaleno nel gelo del mio cuore. Ecco il mio gioco preferito. D’altronde chi ascolterebbe più le parole di una povera vecchia? Oggi è tutto così semplice. Le parole scorrono via sui tasti del computer, volano in internet velocemente e tutti possono leggerti dove vogliono e quando vogliono. Al contrario io ho imparato a leggere e scrivere macchiando il quaderno. Preghiera Lea10. Stamattina il parroco mi ha rimproverata perché non ricordavo la preghiera del mattino. Caspita. Non mi venivano proprio le parole, mi sono vergognata così tanto. Gli altri bambini mi guardavano ed io rimanevo zitta in silenzio e non riuscivo a pronunciare l’inizio del verso seguente. Mi sono fatta tutta rossa quando Padre Luigi mi ha detto che non avrei potuto fare la prima comunione se non imparavo tutte le preghiere. Sto aspettando da tanto tempo il giorno in cui avrei indossato l’abito da principessa che ha preparato la zia Lucia per me. Mi ha anche detto che mi avrebbe messo una coroncina di fiorellini nei capelli perché quel giorno sarei stata una vera principessa, una piccola sposina. E invece stamattina ho dimenticato la preghiera e me ne stavo tutta zitta, impalata, davanti a tutti. La suora mi incitava, ma a me proprio non venivano le parole. Non so come ho fatto a dimenticarla così velocemente, eppure mamma me la ricorda sempre. Ogni sera dice che è importante pregare perché così si va in paradiso. Io non ho ancora ben capito cosa sia il Paradiso. Pare che lì sia andato il mio cane Bar quando non lo trovavo più. Spero proprio che sia un posto dove andrò presto così lo rivedrò e staremo ancora tanto tempo insieme a giocare. Lea30. Ho avuto il coraggio dopo tanti anni di entrare in Chiesa. Era già da un po’ di tempo che ci pensavo, eppure ogni volta che passavo qui davanti, avanzavo la camminata come se il Signore non potesse vedermi, sentirmi o chiamarmi. Il problema è che io avevo bisogno di fare ordine dentro me prima di parlare con qualsiasi sacerdote, prima di entrare in Chiesa e inginocchiarmi alla sua presenza. Così ho compiuto tante e tante volte lo stesso gesto: rallentavo la camminata, mi fermavo a sbirciare dentro, mettevo il primo piede sul gradino, poi un dettaglio, un particolare, un quid qualsiasi, anche un rumore, mi distoglieva dall’intento. Così proseguivo la passeggiata verso la scuola, verso casa, verso qualsiasi altra meta che non fosse la Chiesa. Ma stamattina no. Non ho avuto il coraggio di passare oltre e il mio piede sul gradino ha avuto la forza di salire e portare con sé l’altro. E così ho fatto tutto d’un fiato la scalinata fino all’ingresso. L’orologio toccava le nove del mattino e Lulù già era a scuola da circa un’ora. La immaginavo tra i suoi quaderni, con i suoi capelli color del fuoco, con gli occhietti concentrati sull’ennesima poesia di Petrarca. Da qualche mese l’aiutavo nei compiti e ogni volta era esilarante vederla cercare accuratamente il significato di ogni singola parola delle liriche di Petrarca per poi chiedersi ad alta voce cosa volesse dire quella poesia o quell’altra. Mi bastava guardarla per comprendere che senza di lei la mia vita sarebbe stata terribilmente triste, monotona, insignificante. Mi bastava specchiare i miei occhi nei suoi per cogliere la stessa volontà di essere una persona diversa dalla folla, il desiderio sfrenato di distinguersi semplicemente per il caratterino disarmante e il musetto inquietante che mostrava in giro. Così ho spinto con leggerezza la porta e ho guardato furtivamente all’interno. Sono stata investita dalla consueta aria silenziosa della mia parrocchia, quella stessa chiesa che frequento da quando ero piccina. Ho segnato la mia fronte col segno della croce, ho abbassato gli occhi e ho cercato conforto nel crocifisso che vedevo stamattina come per la prima volta. Lo guardavo e gli dicevo che in fondo tutto il mondo è paese e la mia posizione non era tanto distante dalla Sua. Poi ho preso posto dinanzi all’altare e guardandomi intorno mi sentivo osservata da tutti i santi e le madonne che mi giacevano da un lato e dall’altro. In silenzio. Ho cercato il rosario nella mia borsa e ho fatto appena in tempo a concentrarmi sulle prime cinque ave maria quando mi sono detta che era giunta l’ora e avrei dovuto fare ciò che volevo fare da un po’ di tempo. Confessarmi. All’angolo destro della Chiesa c’era una piccola fila di vecchiette che attendevano il loro turno affinchè il vecchio Padre Vincenzo desse loro l’assoluzione dopo aver fatto finta di aver ascoltato i loro peccati. Mi sono avvicinata con discrezione, giusto per non perdere il turno e uscire dalla Chiesa senza aver ottenuto il perdono. E così piuttosto che pensare alle parole che avrei utilizzato, ai dieci comandamenti, alla richiesta di perdono che avrei dovuto fare, mi concentravo sulle signore e pensavo che probabilmente avrebbero confessato di non aver preso parte all’ultima celebrazione eucaristica. Oppure avrebbero detto di quel litigio con la signora del piano di sotto. Giusto per pulire la loro anima e presentarsi tutte baldanzose la settimana seguente dinanzi all’altare per prendere il pane del perdono. Il pane quotidiano. Nel frattempo si sono alternate almeno cinque o forse sei anziane donne che poi, uscite dal confessionale, si sono inginocchiate nella parte della Chiesa destinata alla penitenza e hanno pregato per ringraziare il Signore di aver cancellato i loro peccati. Io ancora ero in attesa. Finalmente è arrivato il mio turno. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ho tradito mio marito. E continuo a farlo, ogni fine settimana. E via con le mie confessioni. Il tempo sembrava fermo agli istanti precedenti, come se nel confessionale non ci fosse la necessità di far rintoccare le lancette dell’orologio poiché il tempo interiore è ben diverso da qualsiasi tempo esteriore. Il Signore assolva i tuoi peccati. Pronuncia un atto di dolore e ripeti per penitenza dieci volte la Salve Regina. Il peso dei peccati non era andato via. Sebbene io avessi pronunciato in poche parole quello che da mesi continuava a tormentare i miei pensieri, notte e giorno, i miei peccati non si erano volatilizzati trasformandoli in parole. Ero pienamente convinta che avrei di nuovo commesso gli stessi errori e di nuovo avrei peccato. Avrei tradito. Avrei continuato a farlo, anche perché ormai ero perdutamente innamorata di un uomo che non era mio marito. Così seduta e incurvata sulla panca della zona penitenza della Chiesa ho provato a pronunciare con convinzione l’atto di dolore. E poi sono passata alla Salve Regina. L’unico problema è che non ero mai stata in grado di imparare quella preghiera a memoria. Provavo a ripetere a bassa voce le prime parole e poi mi fermavo. Alla fine non sono riuscita a pronunciare tutta la penitenza. La preghiera, quella preghiera, non l’ho mai imparata. Lea80 – Di lunedì aspetto che arrivi presto la domenica poiché allora mio figlio verrà a trovarmi, mi troverà già pronta e improfumata e mi accompagnerà fuori. Non vado molto lontano perché mio figlio deve rientrare per l’ora di pranzo a casa. Mi accompagna in Chiesa. Gli ho fatto credere che non riesco a camminare in modo autonomo per arrivare fino alla Chiesa e così lo costringo a darmi il suo braccio e a passeggiare lentamente in modo da far durare circa venti minuti un percorso che a stento dovrebbe durarne dieci. Ma è l’unico modo per avere qualcosa per me, per sentirmi ancora amata e stimata. A volte mio figlio ha da fare e non riesce a liberarsi per uscire con me, allora mi metto con il naso attaccato ai vetri della finestra e penso che è davvero brutto diventare vecchi. La debolezza delle ossa ti toglie perfino la voglia di pregare che è sopraggiunta con l’avanzare del tempo, come se le parole potessero allungare i nostri giorni. Se non mi va di uscire, mio figlio viene lo stesso, prende posto accanto a me e guarda fuori dalla finestra, mentre continua a chiedermi se deve chiamare il dottore, cosa mi sento e così via. Che sciocco. Se non mi va di uscire, non è detto che io non stia bene. Semplicemente ho dormito male, non ho la foza di prepararmi per camminare oppure ho litigato con Dio e non voglio parlargli. Ciclamino Lea10 – Oggi ho accompagnato la nonna al cimitero perché dovevamo andare a trovare il nonno. Non ho mai capito il motivo per cui bisogna andare a trovare i morti, se sono morti. Eppure la nonna ci tiene così tanto! Si veste di tutto punto di nero per l’occasione e tira fuori il cappellino dall’armadio. Poi mi aggiusta il fiocco tra i capelli e finge di riabbottonarmi il cappotto che io so chiudere benissimo. Prima di uscire mi fa tutte le raccomandazioni del caso e mi affida qualche soldino per comprare dei fiorellini da appoggiare sulla tomba del nonno. Scegliere i fiori per un morto è davvero una tortura per me. A me piacciono i colori accesi e comprerei rose rosse, tulipani gialli e garofani colorati. E invece finisce sempre che devo comprare certi fiori bianchicci-giallognoli che non sanno di niente. Il nonno sarà veramente triste, penso ogni volta che esco dal magazzino. Come si può regalare a un nonno un mazzetto di fiori così brutti e senza neppure un briciolo di profumo? Anche oggi la scenetta si è svolta allo stesso modo. Ho tentato di indicare i fiori che più mi piacevano, ho puntano ben bene il ditino e contato i soldini nella mano destra. A quel punto ho sentito lo strattone della nonna e la mano dei fioraio prendere il consueto mazzolino di crisantemi bianchicci-giallognoli. Ho pagato a malincuore e mi sono avviata all’uscita. L’ha fatta franca anche stavolta, ho pensato. Tra una chiacchiera della nonna, un saluto al signor Giacomino e un mio sbuffo, siamo arrivati dinanzi alla foto del nonnino. Gli avevano scelto quella bella foto in cui sorrideva perché io avevo compiuto un anno e non volevo spegnere le candeline. La nonna fa un giro di perlustrazione. A me tocca il compito di stare in piedi ad aspettare che termini la loro conversazione di amorosi sensi per toccare la foto del nonnino e dirgli che mi manca tanto. Forse gli dirò anche che sto studiando e leggendo, così come lui mi diceva sempre di fare. E che proprio la matematica non è il mio forte, e che se ci fosse ancora lui, probabilmente anche le scienze sarebbero uno spasso. Così, mentre mi fingo pensierosa, non posso fare a meno di scorgere un particolare. A destra, proprio accanto alla lapide del nonno, nel terriccio umido per la pioggia della notte, è cresciuto un ciclamino fucsia. La nonna non ci ha potuto fare niente e il fiorellino è cresciuto più forte che mai. E sembra proprio che stia lì per rincuorare il nonno e per dirgli che la natura è contenta che lui sia lì e che è pronta a colorargli un pezzo di morte, visto che la moglie vorrebbe fargli vedere tutto bianchiccio-giallognolo. Sono contenta anche io e abbozzo un sorriso. Prima che mi veda la nonna. Lea30 – Così la mia vita si è tinta di ciclamino. ho preso mio figlio per la mano e l’ho accompagnato in un campo di fiori. Non potevo immaginare che un giorno tutto mi sarebbe stato rovesciato addosso come un tubetto di colori a tempera. Camminavo lentamente tenendo il passo e concentrando tutto il mio pensiero su di lui perché lui è da molto tempo l’unica persona che riesce sul serio ad amarmi e su cui riverso ogni giorno il mio profondo amore. Stanotte non sono riuscita a dormire. Ieri notte non sono riuscita a dormire. Sono settimane in cui dormo poche ore per notte. La chiamano insonnia. La curano con ceri farmaci strani. Pare che debbano rilassare i pensieri e farti addormentare. Cosa strana. Io non dormo. Non ci riesco più. Perché ho bisogno di vegliare, di non regalare neppure un momento di tregua a tutte le mie ansie. Galleggio nelle mie nuvolose occhiaie e corro dietro alle mie parole farfugliate. Dove vado. Da dove vengo. Annaspo nei miei pensieri. Cosa volevo da lui. Cosa voleva da me. Tutto è già scritto. Ma finalmente ho preso mio figlio per mano e l’ho portato nel campo di fiori, dove tutto ha un senso, dove tutto si è colorato di ciclamino. Ho specchiato i miei occhi in quelli del mio bambino e i nostri colori erano gli stessi. I miei pensieri erano i suoi. I suoi non pensieri erano miei. Ed erano di colore ciclamino. Lea80 – L’altro giorno è venuto mio figlio per portarmi in Chiesa. Ha usato con me le stesse parole di sempre, gli stessi gesti, le stesse ampollosità. Quelle smancerie che io per prima gli ho insegnato e che mio marito ha apprezzato in me. Eppure nel suo guardo qualcosa mi sfuggiva. Così all’uscita della Chiesa, dopo la Santa Messa, mi ha riaccompagnato a casa e io gli ho offerto la solita tazza di caffè. Mamma, domani vengo di nuovo a prenderti. Prepariamo una borsa perché ho intenzione di farti visitare da un professore di Milano. Ma non voglio uscire anche domani. Non si può rimandare la visita alla settimana prossima? Così forse questi disturbi verranno meno. Non andranno via. Sono mesi che non vanno via ed è giunto il momento che qualcuno si prenda cura di te seriamente. Io riesco ancora a prendermi cura di me stessa, tesoro mio. Cosa stai dicendo? Questo non è realistico. Stai dimagrendo soltanto a vederti. Forse non mangi e non riesci neppure più a prepararti il pranzo e la cena. Ti trovo sempre scompigliata e questo non è da te. Ti impressioni. Semplicemente mi sento un po’ più stanca del previsto. Farò una cura di ferro e mi riprenderò. Domani tornerò e ti accompagnerò al Ciclamino. Ho già preso appuntamento, non è possibile rimandare oltre. Presto dovrò partire per NY e voglio essere tranquillo che sarai in mani sicure.
Id: 1438 Data: 28/03/2012 20:29:44
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Rosso, come quel libro
Pupazzi di neve, nuvole di cartapesta Del colore godono il piacere, il gusto prelibato di non esistere mai più Chiunque abbia conosciuto Lucio non ricorda il suo aspetto fisico, ha dimenticato le parole scambiate con lui, non ha memoria neppure di un episodio simpatico che lo ritragga perché quest’uomo né alto né basso, né vecchio né giovane, né magro né grasso, nella realtà e per la realtà non esiste. È una scheggia di disordine in un mondo soltanto apparentemente ordinato. Oggi Ore 14. Al suono della campanella i ragazzi raggiungono il cortile saltellando come grilli d’estate, si diramano ognuno verso la propria casa mentre, seduto sul muretto, Ignazio aspetta quella ragazza dai colori del mare. Il sorriso le si infrange come un onda sugli scogli quando lo vede e sbatte le ciglia facendo smuovere una chioma bionda come il sole. Nella confusione della gente e nei rumori della città scende per le scale in silenzio un opaco alone di trasparenza, passante senza sosta, visitatore inatteso del gomitolo di strade attraverso le quali cammina ogni giorno fino alla solitudine della sua casa. Un saluto al portiere, uno sguardo allo specchio nell’ascensore, un giro di serratura e un tonfo sul divano. Poca cosa è il pranzo che la madre gli fa trovare pronto ogni giorno in cucina. La sua mente è impregnata di un senso di frustrazione e desiderio di rivincita che la sua condizione non gli consente di trovare. La sua mente è frastagliata, come i suoi pensieri. Le sue parole inesistenti. La sua comunicazione assente. La sua figura è vetrata. Tra un boccone e l’altro, tra una riflessione e una telefonata, tra il clacson della macchina del vicino di casa e la televisione che rumoreggia perfino spenta, Lucio si addormenta con la testa appoggiata sull’avambraccio. Nel frattempo il mondo gira intorno. Si risveglia, si riaddormenta, è ormai l’ora del tè. Afferra l’ombrello, scende per le scale e passeggia facendo attenzione a non urtare i passanti per non infastidire la gente, affinché il suo passaggio trascorra inosservato. Siede su una panchina e sbriciola a terra un biscotto in attesa dell’arrivo dei piccioni e, quando si accorge che l’ultimo granello è stato divorato e che l’universo intero sembra intento in altro, tira dalla tasca un libretto dalla copertina rossa e lo apre alla prima pagina. Perché vi sia sempre più gioia nel dare che nel ricevere… Annota in alto a destra con una grafia pulita e chiara come quella di ogni professore. Ieri Per la scuola vagava con le mani penzoloni, gli occhi bassi, il sorriso smunto come chi doveva vergognarsi di qualcosa, di qualcuno. Vergognarsi di essere, esistere. Lucio aveva sempre lo zaino pieno di libri poiché – strano a dirsi per un ragazzo di quindici anni – adorava leggere: ascoltare le lezioni quotidiane era diventato così tanto un peso che, non appena i suoi prof iniziavano a spiegare, di nascosto prendeva il libro del momento e iniziava a far volare la sua mente altrove, dove nessuno lo avrebbe mai potuto raggiungere. Il suo compagno di banco era ormai abituato ai continui rimproveri, agli strattoni dinanzi all’ennesimo richiamo della prof di latino e ai pizzicotti sulle gambe per un suggerimento nell’ora di matematica, eppure Lucio di tutto questo non aveva la benché minima preoccupazione poiché riteneva più utile estraniarsi piuttosto che infangare la sua mente con le sozzerie spiegate in aula. I compagni lo conoscevano e lo rispettavano perché, in fondo, tutto sommato, dal profondo silenzio del suo mondo, Lucio non faceva del male a nessuno, anche se non riuscivano a trattenere lo sbadiglio quando interveniva per scambiare qualche opinione con il prof di religione. Un diverso ieri Via Toledo. Paul aveva uno sguardo sicuro. Si muoveva veloce tra la gente con le mani nelle tasche dei pantaloncini. I riccioli scuri incorniciavano un volto con lentiggini che qualcuno gli disse appartenute a un tale Rosso Malpelo e una borsa di pelle nera a tracolla gli pendeva su una spalla. Di fare quanto gli aveva detto la madre non aveva alcuna voglia. Chiesa, scuola, barbiere: luoghi che malvolentieri il ragazzo frequentava, ma che tuttavia la madre gli imponeva come la frutta a fine pasto o la verdura almeno tre volte a settimana. Circoletto, baretto, amici: queste erano le cose preferite da Paul, ma da cui la madre tentava in ogni modo di allontanarlo. Avrebbe speso tutti i suoi risparmi in partite a bigliardino, bibite fresche al bancone e proibiti sigari cubani. Il suo mondo a colori si spegneva di ritorno alla sua vecchia casa, nei continui litigi con un padre troppo assente e fratelli troppo rumorosi. A Paul tuttavia il rumore non infastidiva, anzi esaltava il suo spirito libero, la sua estasiante voglia di sentirsi primo fra tutti, unico tra la folla. Nelle sue giornate di libertà non poteva proprio sopportare il Maestro, quello che per forza gli imponeva di vedere la vita in bianco e nero, come i suoi capelli, la sua barba, come quelle lettere che necessariamente doveva imparare a leggere e scrivere su fogli bianchi. Roba da gente ordinata. Roba da trasparenti, non da ragazzi colorati come lui, come tanti. Il nuovo oggi Scaccia un piccione con la mano sinistra mentre stringe il giornale sotto il braccio destro. Il pomeriggio è appena iniziato, ma di colorato fino ad ora ha visto soltanto il rossetto sulle labbra della segretaria dell’ennesimo figlio di puttana che lo ha messo alla porta pronunciando una consueta ordinatissima frase. È difficile ottenere una vita ordinata per chi, come lui, aveva trascorso giorni, mesi e anni nel pieno disordine, eppure colpisce cartacce per la strada con il suo destro imitando un calciatore e pensa che non consentirà mai e poi mai a nessuno di rendere i suoi giorni in bianco e nero. Così torna a casa con la bocca impastata di nuove bugie, gli sembra che il mondo non sia mai stato di un colore diverso di quel rosso che spicca sulla panchina di Piazza Municipio, come una goccia di sangue in un mare di acqua.
Id: 1384 Data: 21/02/2012 11:06:27
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I compagni
1947, Varsavia Si ritrovarono a camminare per la stessa via, quel giorno. Ascoltò la sua lezione in silenzio, seduto all’ultimo banco. Dalla cattedra dirigeva il suo consueto gioco, quel gioco che l’aveva portata a diventare una fallita. Infondo, aveva trascorso tutta la sua vita a cercare di convincere gli altri di possedere una sicurezza che, in realtà, non aveva. Guardava con aria da attrice i singoli ragazzi, batteva la piccola mano sulla cattedra a ogni errore di lettura, leggeva inforcando gli occhiali le parole sul libro Nazionale. Si alzò lentamente dalla cattedra e si avvicinò al ragazzino del terzo banco. Aprì il suo quaderno e si accorse che, per l’ennesima volta, aveva lasciato il foglio in bianco. Da tempo aveva capito che quel ragazzino dal vestito logoro non aveva né il tempo né la voglia di studiare. Frequentava la scuola per volere del padre, perché un giorno suo figlio sapesse almeno leggere il giornale di Varsavia. Girava per le strade del centro e vendeva la frutta al mercato. Si raccontava a Varsavia che una decina di anni prima fosse nato sotto il bancone della frutta, mentre la madre urlava all’impazzata alla ricerca di aiuto, in un mare di sangue. La trovarono così, con le gambe aperte, con gli occhi tramortiti per il dolore e un bambino che urlava tra le sue braccia. Era sopravvissuto a quella prima esperienza di vita e aveva compreso sin dal primo istante che avrebbe dovuto lottare con tutto se stesso per poter campare al meglio. Si sedette nel banchetto davanti a lui e gli restituì il quaderno. Impregnò il pennino di inchiostro e glielo mise in mano. Il ragazzo appoggiò il pennino al foglio bianco e lo macchiò. Il suo sguardo assente, il suo volto muto, la sua falsa morte. Non voglio scrivere. Alzati in piedi! Si avvicinò alla cattedra e tirò fuori dal cassetto in basso a destra una bacchetta di legno. Corse incontro al ragazzo e gli intimò di alzare le mani e di metterle con il palmo rivolto verso il basso. Fred chiuse gli occhi per non sentire il dolore, mentre alzava alta la bacchetta. Da oggi sei eletto capoclasse. Avrai la responsabilità di segnare sulla mia agenda il nome di quelli che non fanno in compiti a casa e stabilire la punizione più giusta, a parer tuo. I ragazzi la guardarono incredula. Che fosse matta, lo dicevano tutti a Varsavia. Sapeva leggere e conosceva molte cose strane, ma non avrebbero mai pensato che potesse affidare a Fred, il più discolo della classe, l’alunno che meno degli altri sapeva leggere e scrivere, il compito di capoclasse. Suonò la campana e i ragazzi uscirono a fiotto dall’aula. Era ancora lì. Si avvicinò alla cattedra e ripose i suoi libri nella borsa. Si alzò e uscì lentamente dall’aula, come un alunno. Il solo Fred fece per uscire, ma poi girò lo sguardo verso di lei. Perché? Perché no? Infondo, sarà un buon modo per esercitarti a scrivere qualcosa. Aveva capito tutto. Lei aveva capito tutto e aveva dato tempo, laddove altri non vedevano altro che noncuranza. Gli sorrise e tentò di accarezzargli il volto con la mano. Aveva sempre desiderato un figlio ribelle come lui, ma da tempo non credeva di essere capace di gestire qualcuno che fosse al di fuori di se stessa. Fosse pure un ragazzino. Si trovò in strada a camminargli accanto. Come al solito, pensi che io sia una stupida. Non ho mai pensato che tu lo fossi. Al contrario.. Lascia perdere, stai parlando troppo e la cosa non mi piace. Sorrise ancora una volta in modo beffardo. Portava la borsa sul braccio destro e cercava di stringere con le mani il cappotto per coprirsi dall’inverno di Varsavia. La piuma sul cappellino dondolava veloce sulla sua testa e prima che fossero passate le due del pomeriggio si ritrovarono dinanzi al portone di casa sua. 1, 2, 3. Dorothy, ho una cosa da chiederti. Finalmente siamo giunti al motivo della tua visita. Mi sembrava strano che non tu non avessi un buon motivo.. Voglio vedere i Compagni. Il suo volto si pietrificò. I Compagni. Erano anni che non sentiva quella dicitura. Appoggiò la mano sul portone e spinse rapidamente la chiave nella serratura. Ricordò il suo vestitino rosso a pieghe e la piccola cintura in metallo che le cingeva i fianchi. Aveva ben chiaro nella mente quel locale di vetro, quei tavoli col marmo bianco e quell’odore di fumo. Ridevano tutti insieme, quel giorno. Brindavano e bevevano, mentre i ragazzi volontariamente urtavano le ginocchia delle ragazze sotto il tavolino. E dopo l’ennesimo bicchierino, Josez si alzò in piedi e barcollando pronunciò quel discorso che le avrebbe segnato la vita. Oggi, ragazzi, è un grande giorno. Da questo momento in poi, qui, in questo lurido locale, dinanzi a questo schifoso whisky –e infatti, presto andremo via senza pagare!- con queste splendide ragazze al nostro fianco, d’ora in avanti voglio essere per voi un Compagno. E voi tutti, e voi tutte, sarete per me Compagni! Perché il viaggio fatto fin qui non sia solo di redenzione per noi stessi, ma per la Nazione tutta. Perché gli estremismi non abbiano seguito e la libertà trionfi! Sorridevano, i ragazzi. Sorridevano, le ragazze. Nessuno avrebbe potuto immaginare che di lì a qualche mese la Polonia sarebbe stata invasa. E ora, Compagno Theodor, vai al pianoforte e suonicchia qualcosa delle tue, cosicchè io possa ballare con la Compagna Dorothy. Era ubriaco. Erano tutti ubriachi. Si alzò senza batter ciglio dal tavolino, dopo aver spostato la gamba della ragazza che gli stava accanto, e si avvicinò al pianoforte. Accarezzò lentamente i tasti e prese a suonare un jazz che aveva sentito per radio il giorno prima. L’atmosfera si rallegrò in un colpo d’occhio. Josez prese Dorothy per mano e la condusse al centro della sala, mentre gli altri continuavano a bere e a ridere tra loro. Sorridevano e si guardavano compiaciuti. Lui le appoggiò la mano sulla schiena e tra un passo di danza e l’altro cercava di accarezzarle i fianchi, mentre si dimenava. La lotta divenne buffa, fino a quando la musica non finì e lasciò nel fiatone entrambi. Dorothy si avvicinò al pianoforte e sorrise radiosa. Infondo, Theodor era sempre stato il suo preferito, lo sapevano tutti. Vicini di casa, erano cresciuti insieme, scambiandosi messaggi in codice da una finestra all’altra, lottando per una caramella e dividendo i biscotti che riuscivano a rubare dalla cucina. Si capirono con uno sguardo. Theodor intonò quella musica che sarebbe rimasta nelle orecchie di Dorothy per tutta la vita. http://www.youtube.com/watch?v=KP8O8Lgjkiw Scosse la testa e chiuse gli occhi. Infine, smosse il vestitino e iniziò a cantare portando il tempo con la mano.. Si guardarono negli occhi e sorrisero. E tutta la sala intonò la stessa canzone. Annebbiò il suo volto e chiuse ancora una volta gli occhi. Poi si girò e fece in modo di dimostrargli tutto il suo disprezzo attraverso uno sguardo. Si sentì confuso e insicuro, come se non avesse fatto bene a ritornare a Varsavia, a cercarla, ad ascoltare la sua lezione, a seguirla per strada e ad accompagnarla fin sotto il suo portone. E a farle quella richiesta. Non hai alcun diritto di chiamarci ancora così. Abbassò lo sguardo, accusando il colpo. Non li vedeva da anni, ma li aveva tutti ben chiari nella memoria, come in quei giorni d’estate in cui aspettavano l’alba con il cuore in gola. Erano passati dieci anni, è vero. E una guerra, è vero anche questo. Ma nella sua memoria i Compagni erano troppo forti per essersi fatti abbindolare da una banda di tedeschi. Tu non puoi… E i suoi occhi si bagnarono di lacrime. Tirò fuori la chiave dalla serratura e cambiò strada. Senza alcuna parola capì che doveva seguirla. E si trovarono a camminare ancora una volta l’uno accanto all’altra, come quando da ragazzini andavano a scuola per la stessa via e si fermavano a parlare ora dei fiori ora dei frutti, ora dell’amico di banco ora del professore insopportabile. Quel giorno non dissero parola. Camminarono l’uno accanto all’altra in religioso silenzio. Come chi sa di dover scoprire qualcosa che è stato coperto dalla polvere per anni.
Id: 376 Data: 20/05/2009 22:25:24
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A chocolate brownie
1946, Londra.
Sedeva su uno sgabello, sorseggiando un caffè, mentre il sole tramontava lentamente dall’altra parte del vetro. Lo sguardo sul libro, la mano destra sulla tazza. Alzò la testa per un attimo e ascoltò a occhi chiusi la pioggia contro i vetri del locale. Da anni ormai giocava cercando di disegnare su un pentagramma i rumori che sentiva nel mondo. I passi di una persona, il cinguettio di un uccello su un albero, il vicino di casa alle sette del mattino, la macchina da scrivere dell’impiegato dell’ufficio affianco al suo: rumori che lo rendevano parte integrante di un mondo apparentemente vuoto, una scatola di latta contro cui tutti cercavano di procurare rumore con ogni mezzo. Tutti tranne lui. Aveva sempre vissuto pensando di poter usufruire del rumore altrui, del fracasso della strada, della rivoluzione dello stupido del momento. Si aggiustò gli occhiali sul naso, ma era ancora troppo presto per andar via. Sarebbe tornato a casa e si sarebbe ritrovato negli occhi della sua donna, le avrebbe dedicato un pezzo di Chopin, avrebbe versato un bicchiere di vino da tenere sul pianoforte e avrebbe lavorato su quel pezzo fino al giorno dopo. Come ogni sera, le avrebbe accarezzato la fronte e l’avrebbe coperta con il suo cappotto sorridendo in silenzio, dopo che per l’ennesima volta si era addormentata sul divano accanto al pianoforte. Alzò gli occhiali e si strofinò gli occhi. Cercava di concentrarsi sul via vai della gente, sui loro ombrelli scuri, sulla ragazza dietro al bancone dei dolci, su quel pezzo di torta al cioccolato che proprio avrebbe voluto avere sul suo tavolo. Mi scusi signore, posso sedermi qui? Sorrideva. Non l’aveva vista entrare, non l’aveva vista scegliere accuratamente la sua cioccolata calda, non aveva sentito la sua richiesta di doppia panna, non aveva visto neppure che quella fetta di chocolate brownie era finita proprio lì, sul suo piatto. E ora sul suo tavolo. E gli rideva in faccia. 1, 2, 3. Prego. Non era donna da gesti cortesi. Prima del suo consenso, aveva appoggiato piatto e tazza sul tavolo e si era arrampicata su quello sgabello troppo alto. Era troppo tardi per imbarazzarsi, per guardarsi intorno e cercare via di fuga. Era lì e doveva finire il suo caffè prima che tramontasse il sole. Prima possibile. Ho letto il tuo racconto. Spezzettò la fetta di torta e ne mise un pezzo in bocca. Che beffa. Se soltanto si fosse alzato e avesse chiesto quel pezzo di torta, probabilmente l’avrebbe vista di sfuggita e avrebbe deciso di mangiare altrove, senza avere la rottura di palle di dover tenere un chocolate brownie sotto il naso e non chiederne un morso. Con lei davanti. All’improvviso, guardò il suo dito affogare nella panna e arricciare il naso per l’imbarazzo. Mi è piaciuto tanto. 1, 2, 3. Il tuo racconto, dico. Mi è piaciuto tanto. Alzò lo sguardo dalla tazza e gli sorrise con aria beffarda, mentre il dito sporco di panna le dondolava davanti al naso. Erano anni che non la guardava negli occhi. Sentiva gli occhiali scendergli sul naso, ma non aveva il coraggio di rompere l’idillio del suo silenzio. Deglutì per non chiederle di poter assaggiare la sua torta. Infondo, l’avrebbe mangiata domani. No, stasera. Sì, meglio stasera, altrove. Non lì. Non ora. Un veloce sorso di caffè e l’avrebbe salutata in un baleno. 1, 2, 3. Ti vedo invecchiato… La vita lo aveva corrugato. Le responsabilità, le notti al night club, il freddo e la fame lo avevano reso una persona diversa, ma non pensava di doverle spiegazioni. Il suo sorriso lo indispettiva. Il suo finto imbarazzo determinava in lui una rabbia tale che avrebbe fatto finta di urtare fatalmente il tavolo per vedere il suo vestitino bianco sporcarsi di cioccolata. I suoi capelli legati a onda, la sua collana di perle, il suo orologio d’oro, le sue scarpine nere. La vita non l’aveva cambiata. L’aveva trasformata, ma lei era ancora quella di un tempo. Buffa e insensibile. Furba e sagace. 1, 2, 3. Insomma, che ci fai qui? Vedi di tornartene a Varsavia quanto prima. Ma io sono a Varsavia…! E sorrise ancora, abbassando gli occhi nella tazza. Si coprì la testa con le mani con un gesto di rassegnazione. Non aveva che dire, non sapeva cosa fare, ma capì che avrebbe dovuto trovare una soluzione in pochi istanti. Aggiustò i capelli come uno che stava per fare un grande discorso, e in quel momento si accorse di essere rimasto solo al tavolo. La tazza scomparsa. La torta sfumata. Lei. Lei non c’era più. Si girò di scatto per guardarsi intorno. Tutto era come prima. Prima della tazza, prima della sua risata, prima dell’imbarazzo. Prima di lei. Si sentì stralunato, ma aveva ben chiara la sua serata. Si aggiustò la giacca e si mosse per uscire, mentre una bambina spezzettava in braccio alla mamma quell’ultima fetta di chocolate brownie.
Id: 372 Data: 10/05/2009 10:21:52
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Da Varsavia
1947, Varsavia
Entrò lentamente nell’aula e appese il copriabito all’attaccapanni. Sfilò il cappellino e lo appoggiò sulla cattedra. Guardò il silenzio di quei banchi scuri, gli uni accanto agli altri, squadrati come il tavolo di scacchi. Salì sulla pedana e sedette in attesa. 1, 2, 3. Prese dalla borsa un libro e inforcò gli occhiali per la lettura, scegliendo la pagina da leggere. Se l’avessero beccata con quel libro, di certo l’avrebbero licenziata. Leggere le poesie di CZECHOWICZ in classe…? Doveva essere pazza. Dopo tutto quello che era accaduto, dopo la guerra, i morti, lei se ne stava in classe con un libro di un avanguardista? Tra poco sarebbero arrivati i ragazzi e tutto avrebbe preso una forma diversa. Avrebbe sillabato le consuete parole, avrebbe corretto i loro compiti e avrebbe fatto in modo da far leggere a ciascuno di loro un pezzetto di storia. Ma il tempo era pessimo e i ragazzi avrebbero sicuramente tardato. Si fermò a guardare il suo ombrello a pois che aveva lasciato a gocciolare all’entrata e pensò che, nonostante gli anni avanzati, continuava ad acquistare ombrelli da bambina. In quel mentre dalla fessura della porta intravide un’ombra. Forse il bidello. Forse il professore Schulmann. Forse qualche ragazzino idiota della classe affianco. Posò in silenzio il suo libro, cercando di camuffarlo tra le altre cose della sua borsa. Entrò senza bussare. Si affrettò a togliersi gli occhiali e a guardarlo camminare per l’aula. Cosa ci fai qui? Infondo, Varsavia è anche la mia città. No, dico.. cosa ci fai qui, adesso, nella mia classe! Tra poco inizierà la lezione. Non rispose e si avvicinò alla finestra. Aveva l’aspetto di un uomo maturo. Se non l’avesse conosciuto, gli avrebbe dato almeno cinquant’anni. I capelli imbiancati, la fronte segnata dalle rughe, le mani rovinate dal freddo. Tolse il cappello in segno di rispetto, ma non osò appoggiarlo da nessuna parte. Né su un banco, né sulla cattedra, né sul ballatoio della finestra. Un rapido giro per l’aula e poi di nuovo, senza parlare, verso la finestra. Che vista stupenda. Pensavo di aver dimenticato come fosse fatta Varsavia. Si portò la mano destra al volto, come se stesse piangendo, mentre manteneva stretto con la sinistra il cappello. Varsavia era cambiata tanto. La guerra l’aveva massacrata, numerose vie erano interrotte e lo spettacolo che si vedeva da quella finestra era molto diverso rispetto a dieci anni prima. Lui era cambiato. Debole e fragile come sempre, ma grande e grosso come un orso. Lei era cambiata. Avrebbe pronunciato una freddura e avrebbe fatto partire una risata, come era suo solito, eppure lì, in quel momento, seduta a neppure dieci metri da quell’uomo, non ebbe neppure la forza di fiatare. Guardò la porta in attesa che qualche ragazzino giungesse in anticipo. Avrebbe desiderato che perfino il preside giungesse disatteso, in quel frangente. Avrebbe urlato a squarciagola di essere una sovversiva e se la sarebbe filata, pur di non dirgli niente altro, pur di non scambiare neppure uno sguardo con un uomo che aveva odiato per dieci anni di fila. Lentamente si aggiustò il bavero della giacca del tailleur scuro, in attesa del momento giusto per sgattaiolare fuori dall’aula, fuori dalla scuola, in giro, tra le rovine di Varsavia, nelle strade piene di miseria e morte. Avrebbe camminato a testa alta fino a casa, avrebbe chiuso con accuratezza il portone dietro le spalle e aperta la porta si sarebbe gettata sul letto soffocando in un urlo tutta la sua rabbia. Avrebbe aperto la porta del bagno e sciacquato il viso fino a farlo diventare rosso. Infine, avrebbe guardato il suo volto riflesso nello specchio e avrebbe chiuso gli occhi per dimenticare, cancellare, annientare nella sua mente tutto quello che era stato di lei in quei dieci anni. E invece, era ancora lì. Guardava la sua spalla appoggiata al muro, ascoltava la sua stanchezza nei suoi sospiri. Varsavia è cambiata moltissimo. Come fai a dire che questo paesaggio ti piace? Non si voltò, ma dal vetro la vedeva ancora seduta alla cattedra. Lo guardava come se fosse stato un suo alunno monello, un ribelle in punizione in fondo all’aula. 1, 2, 3. Con aria di rassegnazione, prese il libro dalla borsa, si alzò lentamente e si diresse verso la finestra. I suoi passi erano massacranti. Ogni passo una nota. Ogni passo un tonfo. Ogni passo una parola da prepararsi a dire. Sospirò per evitare di girarsi e ripensò alle sue scarpine nere, quelle che in quel giorno d’inverno rimasero incastrate nel fango dei giardini pubblici di Varsavia. La rivide a Londra, a mangiare beffardamente chocolate brownie davanti a lui e a ostentare le sue scarpine nere dondolare dallo sgabello del coffee. Aprì il libro e mise gli occhiali. Davvero non ci vedi più? Stavolta davvero non ci vedo più. Con gli occhiali era un’altra. La ricordò con le trecce dei suoi quindici anni, a correre dietro gli aquiloni nelle giornate primaverili. La ricordò con i suoi zigomi alti e i suoi vestiti rossi. Ricordò lo sguardo appannato dal sole e le sue battute caustiche. La rivedeva con la sua tuta da lavoro nella tipografia dei tempi che furono, quei foglietti caldi e la soddisfazione sul volto dei Compagni. Brindarono insieme, quel giorno. Tutto stava andando come volevano. Eppure qualcosa non quadrava. Qualcosa gli si era impigliato dentro, quel giorno. E ora se la ritrovava davanti. E non sapeva perché l’aveva cercata, non sapeva che dirle, non sapeva da dove iniziare, non sapeva più nulla. Varsavia era diversa, ma avrebbe tanto voluto vederla ancora così come l’aveva lasciata. Dieci anni prima.
la morte non sa più di nulla con finestre e nera palpebra colpisce ogni notte dietro il fiume tranquillo La vita è breve per andare a dormire dice la voce dal lato destro breve vita per andare a dormire voce a sinistra breve vita per andare a dormire il terzo una vergine terra cerca il motivo per cui i tuoi occhi non vadano oltre l’ora in cui è nato Zem come una scatola chiusa con dolore dalla mano del morto Czechowicz
Chiuse il libro e guardò fuori dalla finestra per un attimo, come se avesse letto una poesia rivoluzionaria al suo allievo monello. E ora aspettava di essere licenziata. Dorothy, la rivoluzione è finita. La guerra è finita. Tutto è finito ed è passato. Ma non sembrava convinta. Abbassò gli occhi, si tolse gli occhiali e guardò le vie di Varsavia. 1, 2, 3. Che cosa hai fatto in questi anni? E finalmente si sciolse in un sorriso, guardandolo negli occhi. Attraverso il suo sguardo, avrebbe voluto restituirgli la Varsavia dei tempi che furono.
Id: 370 Data: 09/05/2009 17:48:04
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