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Pubblicato il 03/01/2009 10:38:55
SALVATORE SOLINAS
La mano sotto la lampada scialitica ha un pallore irreale. Come irreale è l’ambiente della sala dove giaccio sdraiato, coperto da panni cartacei. Il chirurgo, un piccoletto dai baffi brizzolati e gli occhi tristi mi ripete lentamente per l’ennesima volta che l’intervento che sta per farmi è altamente invalidante, che la sezione del nervo della mano renderà l’arto inutilizzabile. Mi ha fatto firmare parecchie carte ed una dichiarazione che acconsento all’operazione, anzi, ne richiedo insistentemente l’esecuzione. Ripete per l’ultima volta, prima di procedere all’anestesia locale, che non è sicuro della moralità di questo gesto chirurgico che, sezionando il nervo, farà della mano una propaggine senza alcuna capacità sensitiva e la priverà della meravigliosa proprietà conoscitiva tattile, non inferiore a quella dell’occhio e dell’orecchio. Ma se potesse sapere il motivo reale della mia determinazione, accetterebbe volentieri di denervarmi non solo la mano, ma il braccio intero. Gli dissi una volta che se non mi avesse liberato da questa sensazione perversa di formicolii, dolori sordi e soprattutto scosse di corrente elettrica, che sembrano correre per le dita fino a solleticarmi dolorosamente i polpastrelli, lo avrei autorizzato a tagliarmi la mano! Durante le visite, dovrei dire colloqui, perché tra noi s’è instaurata una certa confidenza, se non addirittura familiarità, lui mi ha proposto ripetutamente una visita psichiatrica: non perché mi credesse matto, diceva, ma per avere un profilo psicologico. Perché a volte lo psicologo (termine meno inquietante che sta per psichiatra) aiutava nella terapia. Di fronte al mio risoluto rifiuto si rassegnò acconsentendo ad un primo intervento di liberazione del nervo, che non sortì alcun effetto. Ma nell’attesa della puntura dell’anestesia, che io so dolorosissima, devo riprendere la storia dall’inizio. Tutto cominciò con un trasloco. Nel Dicembre dell’anno scorso morì mia madre. Così decisi di traslocare in un appartamento più piccolo. Dopo che mia sorella si sposò e lasciò la famiglia per farne una per proprio conto, ero rimasto con mia madre che da parecchi anni era vedova. Mi dispiaceva lasciarla tutta sola mentre s’ingrigiva nella vecchiaia. Ora era lei che mi lasciava solo e non potevo sopportare di vivere in quelle stanze così ricche di memorie. Ricordo che durante il funerale la morte d’Isotta mi risuonava in mente con la sua struggente, drammatica dolcezza. Quella musica non mi lasciò mai, almeno finché vissi in quella casa, rinnovando nel cuore il dolore della perdita di mia madre e l’inconfessata delusione per il suo tradimento, per avermi lasciato quando io avevo dedicato a lei i miei anni migliori. Già dalla prima infanzia amavo la musica e tutte le situazioni della vita s’accompagnavano, come al cinema, con una colonna sonora, che nell’adolescenza era rappresentata da musiche per clavicembalo vivaci e spensierate d’autori italiani. Erano allora giorni felici, confortati e protetti dall’amore di mia madre, che dipanava con la sua dolcezza gli inquietanti enigmi dell’adolescenza. Con l’inoltrarmi nella maturità, sonate più meditative e profonde d’autori tedeschi contrassegnavano la mia giornata. Per questo motivo ho studiato al conservatorio. Non essendo portato per alcuno strumento in particolare, scelsi di specializzarmi in storia della musica. Grazie ad alcune pubblicazioni ben riuscite sulla musica per clavicembalo sono considerato, lo dico senza falsa modestia, uno dei maggiori esperti in questo campo. Adottando la scusa che l’appartamento era troppo grande per viverci da solo, espressi il desiderio di trasferirmi in un’altro più piccolo di nostra proprietà, che proprio allora si rendeva sfitto. Mio cognato si offerse d’aiutarmi mettendo a disposizione il camioncino della sua ditta. Il marito di mia sorella commercia in acque minerali. E’ un uomo alto e grosso, così pure i suoi due figli che mi furono di valido aiuto nel trasportare i mobili. Portai via solo il minimo indispensabile con i numerosissimi libri che ho raccolto in tanti anni d’insegnamento e di solitudine. Fu nel caricare sul camioncino la scrivania in noce massiccio che accusai una fitta ai polsi che si propagò al palmo della mano e alle dita, provocando una dolorosa contrattura che durò per almeno due ore. Col riposo le mani ritornarono normali, ma qualche giorno dopo cominciai ad accusare formicolii e scosse elettriche alle dita, soprattutto di notte, quando nel silenzio perfetto potevo leggere ed ascoltare le mie musiche. Il medico mi diede degli antinfiammatori che presi con la stessa diligenza con cui sono solito compiere ogni mio dovere. Per alcuni giorni sembrava che il farmaco fosse efficace. Una notte ero seduto in poltrona a leggere, con Gaspare, il mio bel soriano, che sonnecchiava sulle ginocchia. Mentre accarezzavo il suo pelo morbido e liscio, lui faceva sommessamente le fusa. A un tratto s’accese nel cervello un brano dei salmi di Stravinsky ed un intenso prurito m’invase le mani. Nel salire dei toni della musica, il prurito si trasformò in piccole scosse che correvano sotto le unghie delle dita. Gaspare si svegliò e mi guardò con un’espressione di stupore mentre la mano gli si serrava alla gola. Aprì la bocca mostrando i denti aguzzi di felino e le zampe senza unghie inutilmente tentarono di graffiare la mano serrata come una morsa. Morì così il povero Gaspare. Stravinsky mi risuonò a lungo. Rimasi io e il piccolo corpo inutile. Sul far del giorno lo portai fuori in una busta di plastica e lo buttai nel cassonetto dei rifiuti. Quel gesto mi liberò dalle note che ormai disordinatamente, frammentariamente urlavano nel cervello e potei andare a dormire. Nei giorni che seguirono mi sentii guarito. Pensai che quella notte avevo avuto una crisi, come si usa dire quando i sintomi di una malattia aumentano drammaticamente per poi scomparire altrettanto rapidamente e il malato, che credeva di morire, celebra stupito i riti della guarigione: riprende a mangiare con gusto, si cura del proprio aspetto fisico, lascia per brevi periodi il letto per sedersi in poltrona, si concede perfino qualche passeggiata di pochi metri nel corridoio di casa. Un pomeriggio ero a casa di Mirella, la mia fidanzata, la mia semimetà come lei ama definirsi. Infatti, sebbene siamo insieme da parecchi anni, non siamo sposati, non conviviamo, perché io amo troppo la mia solitudine. C’incontriamo sul suo letto per consumare un rapporto a dire il vero alquanto sbrigativo, e qualche tenerezza. Lei mi ama, credo, moltissimo. Mi accetta così, finge d’essere lei pure una single irriducibile. Ma da certe espressioni, da certe occhiate sfuggite involontariamente dal recinto degli occhi capisco che lei mi sposerebbe volentieri. Vorrebbe condividere con me una casa borghese, dei figli, una vera famiglia. Formulavo pressappoco questi pensieri, mentre lei sonnecchiava dopo l’amore. Mozart mi cullava dentro con un adagio tenerissimo. Le accarezzavo i capelli neri e ricciuti con tutta la dolcezza di quella musica, quando una scossa incominciò ad impadronirsi delle mie mani. Le dita divennero insensibili e dure. Parevano rispondere ad un comando occulto, mentre scivolavano lungo il suo collo bianco e sottile. Mi ritrassi inorridito. La musica era divenuta un lamento, un pianto. Le mani serrate in una contrazione dolorosa. Mirella si svegliò, mi guardò stupita: “Cos’ hai, mi disse, hai una faccia!”. E veramente ero stravolto. “ Ho un dolore fortissimo alle mani, sto facendo una cura. Mi ero illuso d’essere guarito, ma domani tornerò dal dottore”. L’indomani andai dal mio medico, che mi prenotò una visita in ospedale. Dopo le solite trafile d’esami, fu deciso un intervento chirurgico di liberazione di un nervo della mano, che probabilmente era compresso in un canale. Sottolineo “probabilmente” perché mi dissero che in Medicina non c’é certezza, come del “diman” del Magnifico. Mi ritrovai così in questa stanza, sullo stesso letto dove ora giaccio. Il dottore, lo stesso che ora si appresta ad operarmi, mi assicurò che la puntura dell’anestesia sarebbe stata dolorosissima, ma dopo non avrei sentito nulla. In effetti, fu proprio così. Il dottore parlava lentamente, con voce tranquilla. O meglio, mi faceva parlare. Mi trascinò nel campo musicale. M’informò che l’infermiera che lo aiutava, di nome Alice, era appassionata di musica, che avrei dovuto sentirmi onorato di essere assistito da una delle migliori infermiere d’Europa. La ragazza dagli occhi vivaci e intelligenti (solo gli occhi potevo vedere, perché il resto del viso era coperto dalla cuffia e dalla maschera) protestò che “una delle migliori” non voleva dire niente. “ Una o é la migliore o non vuol dire niente!” e che il dottore diceva così di tutte. Accompagnando le parole con gesti che mi ricordavano certi direttori d’orchestra, che per sottolineare le frasi musicali, lavorano di braccia, quasi a comunicare la forza muscolare agli orchestrali perché la trasformino in energia sonora. Discorremmo di musica: condividevamo la passione per la musica Jazz. Le consigliai alcuni buoni autori poco noti. Quando il dottore terminò il lavoro, non potevo dire se era passata un’ora o un minuto. Sicuramente aveva usato una tecnica di suggestione ipnotica per alleviarmi l’ansia. L’operazione ebbe buon esito e un mese dopo mi sottoposi allo stesso trattamento all’altra mano. Passarono circa tre mesi. Una sera, uscivo dal cinema, vidi Elisa Manfredi che rincorreva inutilmente il bus sul ciglio del marciapiede. Elisa era una mia allieva, direi una delle migliori, aveva una prodigiosa abilità col violino. Sapevo che abitava in un paesino vicino. I suoi genitori erano contadini. La ragazza era timida e schiva. Tornava sui suoi passi delusa e preoccupata, poiché era quella l’ultima corsa. Quando mi offersi di accompagnarla a casa arrossì, fece qualche diniego, ma infine accettò. In principio ci fu un silenzio imbarazzato: la sua timidezza mi metteva a disagio. Tentai qualche domanda sulla scuola, sulle sue aspettative, i suoi progetti. Intendeva studiare composizione. Le dissi che sicuramente sarebbe divenuta primo violino, perché pensavo che era una delle migliori. Mi venne da sorridere ricordando che così si esprimeva il mio chirurgo. Piano piano mi riempiva le orecchie una dolce sonata di violini: Chopin. Sulla strada, appena rischiarata dai fari, una donna leggiadra correva, o meglio volava, ora precedendo, ora seguendo l’automobile, ora celandosi dietro un tiglio o una siepe. Presi la stradina che portava alla casa di Elisa. Mi fermai al cancello. “Bene, eccoci arrivati!” Il violino cantava nel mio cervello e nel mio cuore. La signora era scomparsa o ci osservava nascosta chissà dove. “Non scordarti la borsetta!” Gliela infilai fin su la spalla e le accarezzai i capelli morbidi. “Grazie professore” La musica era divenuta dolcemente insopportabile. Le accarezzai una gota e la mano scivolò alla gola. Erano riapparse le scosse e le dita si serravano implacabili. Invano Elisa m’afferrò il polso. Né io né lei potemmo staccare quella mano chiusa che lentamente la privava del bene del respiro. La bocca spalancata, negli occhi un’espressione di dolore, Elisa morì così, senza più dire, senza sapere perché. La sua vita di talento musicale era finita. La misi seduta ai piedi di una quercia e andai via. Il violino suonava. Il violino di Elisa, forse. Quella struggente dolorosa dolcezza non mi abbandonò per tutta la notte. Passarono due settimane di lavoro intenso. I giornali fecero un gran parlare di Elisa. Andarono a scavare nella sua vita d’adolescente: la famiglia, le amicizie. Fu sospettato un ragazzetto che pare la corteggiasse senza successo. La povera Elisa era sposata alla musica. Non aveva altra passione, altro piacere nella vita. Una Domenica, uno di quei pomeriggi di fine estate, così struggenti, così dolci, che vorresti versarli in una coppa per berli tutti, per goderli interamente come un vino delizioso, e invece come fiumi limpidi ti sfuggono tra le mani, non assaporati, non goduti, per andare a sfociare nell’immenso estuario della notte, mi ero recato al tennis in compagnia di un amico. Non pratico alcuno sport. Ogni tanto vado ai campi di tennis perché é piacevole sedersi al bar all’aperto, chiacchierare del più e del meno, gli sportivi sono maestri nei discorsi vacui, sorseggiare una bibita fresca. Tutto é fresco e piacevole. Nella mia testa c’é Bach, ci sono i giardini brandemburghesi. Godevo la spensieratezza dell’ora, la nitidezza dei colori, la vigoria gioiosa degli atleti, e perché no? la vista delle ragazze, i loro corpi traboccanti di salute. Fu allora che conobbi una signora quarantenne. Una bella signora dalla carnagione d’avorio, i capelli biondi con grandi boccoli che viravano al rosa. Un trucco discreto addolciva i lineamenti del viso un po' troppo marcati, donando ai suoi occhi azzurri e alle labbra rosa la luce di certi meriggi d’aprile, quando uno squarcio di cielo azzurro illumina e addolcisce l’aria ancora pregna d’acqua piovana. Era una signora simpatica, di carattere semplice e sereno, che neppure le disavventure della vita avevano potuto offuscare. Mi raccontò che era rimasta orfana all’età di dieci anni a causa di un incidente aereo in cui persero la vita i genitori. Per fortuna fu allevata da una zia. All’età di diciotto anni fu lasciata dal fidanzato allorché scoperse di essere incinta. Aveva allevato il figlio da sola rivelandosi una buona madre ed un’eccellente educatrice. Gestiva un negozio di biancheria intima in centro città. I suoi argomenti preferiti di conversazione, oltre le sue disgrazie, vertevano sui viaggi, soprattutto nei paradisi esotici, che io immaginavo con un certo disgusto violati, deturpati dal turismo di massa. La stavo ad ascoltare, o meglio osservavo il suo bel viso, mentre Vivaldi e Albinoni mi suonavano dentro. I suoi discorsi non m’interessavano affatto. Mi piaceva la mimica della sua bocca, lo stupore dei suoi occhi nel descrivere bellissimi tramonti nei mari del sud, che io pensavo specchiati da grattacieli di cemento e cristallo, sorti ai margini di bianchissime spiagge, che tanto tempo fa suscitarono lo stupore dei primi esploratori a causa della loro bellezza, ma che ora solerti spazzini a stento mantengono pulite dalle cartacce e dalle latine di Coca-cola. Una sera passeggiavo per il centro. Era l’ora di chiusura dei negozi. S’udiva ovunque lo sferragliare delle saracinesche abbassate e il cicaleccio delle commesse che si riversavano sulla strada. Osservavo quel rito quotidiano della nostra civiltà, quando lo sguardo andò a sbattere contro una vetrina dove finissime mutandine e reggiseno di pizzo facevano bella mostra di sé davanti a cartoni raffiguranti fanciulle seminude o con spumeggianti vestaglie da camera. Sull’uscio accanto c’era lei. Mi guardava divertita della mia assorta distrazione. La salutai con più allegria di quanta in verità la mimica del mio viso fosse capace di produrre normalmente. M’invitò ad entrare nel negozio. Era sola, mi disse, perchè la commessa era ancora in ferie. Le chiesi, per essere spiritoso, se aveva fatto buoni affari, e chi mai poteva indossare quelle strane mutande trasparenti che esibiva in vetrina. Mi rispose che quelle servivano per attirare gli sguardi, per invogliare ad entrare a curiosare. Quello era il primo passo, l’ouverture dell’opera, per fare un acquisto anche non proprio necessario. La seguii nel retrobottega: una stanzetta costipata da scaffali colmi di scatolette. Si sedette su una poltroncina per cambiarsi le scarpe. Le chiesi se fosse soddisfatta del suo lavoro. Mi guardò dal basso in alto con una dolce espressione mansueta, mentre trafficava con i lacci delle scarpe. Mendelssohn possente e tranquillo riempiva di note quel bugigattolo triste. Mi disse che non amava quel lavoro, ma era indispensabile perché le dava sicurezza. Mi disse che nella sua vita aveva riso assai di rado e non ricordava momenti veramente felici. Le misi le dita tra i boccoli. I suoi occhi erano diventati languidi, come se si preparassero ad un incontro d’amore. Le labbra semichiuse parevano respirare l’aria lentamente come per assaporare meglio il bacio dell’amante. La mia mano in preda a scosse tremende era corsa alla gola morbida. Le sue pupille si dilatarono quando le dita si serrarono intorno alla glottide che scricchiolò come un guscio d’uovo infranto. La lasciai seduta sulla poltroncina di vimini, con ai piedi le scarpe di vernice slacciate e le pantofole comode da lavoro posate per terra. Uscii avendo cura che nessuno mi vedesse. La musica riempì quel bel tramonto che indorava il cielo oltre i ponti del fiume. Credo che fosse l’ultimo tramonto di quell’estate cui seguirono giorni e giorni di pioggia torrenziale. Comparve sul giornale due giorni dopo. La bionda signora, di cui non ricordo il nome, fu trovata a tarda sera da un metronotte insospettito dall’insolito orario di chiusura del negozio. Fu trovata seduta tra le scatolette di mutande, con le sue tristi storie stampate sul bel viso. Il delitto fu messo in relazione con quello di Elisa. Si parlava di un mostro che s’aggirava per le strade tranquille della nostra città. V’era pure un identikit che non m’assomigliava affatto. C’era un testimone che aveva visto da lontano un uomo uscire dal negozio. Il classico coperchio che il diavolo pentolaio non fa mai, per cui tutti i malandrini prima o poi sono acciuffati. Ero dunque un mostro. Questa parola mi risuonò in testa per tutta la giornata. Ebbi orrore di me stesso, delle mie mani che ritenevo responsabili di quelle azioni terribili. In esse, solo in esse era la forza occulta che si serrava attorno al collo di quelle povere creature spezzandone l’esile stelo della vita. Telefonai al mio chirurgo e domandai una visita urgentissima. Mi ricevette quel pomeriggio stesso. Gli dissi che l’intervento era completamente fallito, che i sintomi erano tornati uguali, anzi peggiori di prima. Lessi sul suo viso la meraviglia e la frustrazione. Mi fece ripetere un EMG, una TAC, una RMN e un’encefalografia. Tutti gli esami risultarono negativi. Il mio chirurgo pareva procedere tentoni nel buio, sprofondare in un calmo pantano di considerazioni scientifiche, d’ipotesi fantasiose. Gli dissi che volevo fortemente che mi tagliasse i nervi delle mani perché quel dolore m’era diventato insopportabile. Sapeva che mentivo. Lambiva con gli occhi i lobi dove nascevano i miei pensieri, con i suoi discorsi tra il serio e il faceto esplorava le circonvoluzioni, le cisterne del mio cervello alla ricerca di una verità inconfessabile. Mi propose ancora una visita psichiatrica che io rifiutai protestando la mia totale sfiducia in quella branca della medicina. Alla fine acconsentì leggendo in me una sincera disperazione. Uscivo dall’ospedale dopo l’ultimo colloquio in cui fissammo la data dell’operazione, era sera, pioveva. La città era tutta fradicia. Era come se l’avessero appena ripescata dal fiume col suo bel abito di seta antico inzuppato d’acqua. Vidi al margine del marciapiede una ragazza che mi guardava con insistenza. Era Alice, l’infermiera. Il suo viso antico di ragazza, in tutto somigliante a quello della Madonna di Rubens nella celebre Visitazione, mi sorrideva dagli occhi sprizzanti schegge di luce e d’allegria. Aspettava l’autobus per andare a casa. Accettò un passaggio: era una di quelle ormai rare persone intellettuali che disdegnano di guidare l’automobile. Mi chiese come stavo. Le dissi che le mie mani stavano bene. Proprio come le macchine quando le porti dal meccanico, da diversi giorni c’era stata una completa remissione della sintomatologia. Nel mio pellegrinaggio da un padiglione all’altro dell’ospedale, per tutte le analisi ed esami, avevo assorbito il linguaggio dei dottori costituito di frasi fatte il cui significato non m’era sempre completamente chiaro. E proprio per questo n’ero affascinato. Parlammo di musica, dei padri dello Jazz, di cui Alice era appassionata. Arrivammo dinanzi alla sua casa, in una stradina della città vecchia, male illuminata da una lampada quasi del tutto esaurita. Ci demmo la mano per salutarci. Mi disse che avrebbe assistito volentieri all’operazione. Pioveva a dirotto, ad ogni passaggio del tergicristallo compariva la strada lucida e nera, attorno le sagome delle case vecchie come grigi fantasmi. Le sfiorai con le dita un’orecchia elogiando gli orecchini d’argento in cui era incastonata una pietra verde, o un pezzo di plastica, non saprei. Nel cervello s’era accesa la cavalcata delle Valchirie. Le domandai se amava Wagner. Le scosse e i formicolii s’erano impadroniti di tutta la mano che si serrava attorno al suo collo. Invano cercò di liberarsi. Nei suoi occhi splendeva una fievole luce dolorosa, un rivolo di saliva sgorgò da un angolo della bocca. La tragicità potente di Wagner risuonava insieme al battito implacabile della pioggia e al ritmo affannoso dei tergicristalli. Spensi il motore ed uscii dalla macchina. Passeggiai per la città vecchia incurante della pioggia. Alice era morta, la mia mano l’aveva uccisa! Questo pensiero serpeggiava tra le pause della musica. Riparai in un cinema. Dopo mezz’ora ero di nuovo in strada. La pioggia era divenuta sottile e calma. Entrai in una trattoria. Cenai svogliatamente. Le Valchirie nel mio cervello, la morte d’Alice, il mostro. Tornai alla macchina. Era l’una, aprii la portiera di destra, afferrai Alice per le ascelle e la tirai fuori. Lo sforzo fu enorme. Il corpo di un morto dovrebbe pesare meno di quello di uno vivo, almeno per quel flatus animae. Ma chi mai ha pesato l’anima? La misi seduta accanto al muro di casa. Pure da morta destava simpatia. Ora sono qui, sul tavolo operatorio. Ho stretto i denti al dolore della puntura dell’anestesia. Il dottore mi presenta la nuova infermiera che sostituisce la povera Alice scomparsa in quel modo incredibile. Una ragazza, da quello che posso vedere, con due grandi occhi azzurri, luminosi. Il dottore m’informa che é una delle migliori ferriste. “ Sì, proprio una delle migliori, dice la ragazza, perché Alice é sempre la Migliore” E due grandi lacrime, splendenti come due gocce di cristallo, sgorgano sotto le lunghe ciglia, giù per le gote, fino ad inzuppare la mascherina di carta che le cela il viso.
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