Siamo persi.
Abbiamo perso. Si dice: ‘abbiamo perso la partita’.
Avrebbe voluto aggiungere: ‘ accompagnami a casa, facciamo un pezzo di strada insieme’ . E poi il rumore della gente, il chiasso dei bambini, l’organizzazione rapida. Via. Ognuno era andato per la propria strada. Come quelle piante rampicanti i cui rami sono liberi di andare dove vogliono. Di certo quasi mai nella stessa direzione. Quanto sia importante incontrare l’altro lo imparava per la prima volta a trent’anni. Era rimasta a guardare la vita che passava davanti ai suoi occhi per troppo tempo. La gente le faceva paura. Il mondo le faceva paura. Gli uomini le facevano paura. La naturalezza della vita le faceva paura. E così la bellezza, le emozioni e le sensazioni forti. Eppure una vita adagiata sulle paure non è vera vita. Così ogni volta che i suoi occhi incrociavano quelli di Zamfir si rendeva conto che la paura non era mai abbastanza. Doveva salvarsi da quella ragnatela. Doveva cavarsela da trentenne innamorata della vita senza amare mai niente. Doveva piegarsi come un fiorellino al vento e tenere duro per evitare di sentire lo stelo spezzarsi dinanzi alla violenza della brutalità umana. Zamfir le faceva paura. Bello. Giovane. Straniero. Amante ideale. Tutto questo le era rimasto impresso nella sua mente sin dai primi momenti in cui l’aveva conosciuto. Quello che proprio non poteva sopportare era il suo strano modo, quanto mai italiano, di intrecciare rapporti, di vivere le amicizie, di sostenere lo sguardo di una donna. Tutto questo, imparato da anni di osservazione continua degli italiani e delle italiane, era esasperato in quell’estate rumena. Si era chiesta se quei continui commenti con gli amici non facessero parte di quella naturale bellezza che è la relazione tra gli uomini. Un teatrino di corte per prendere di mira il più forte e girarselo come un pollo arrosto. E lei era forte. Proprio forte. Un personaggio da baraccone. Troppo grande per starsene in mezzo ai ragazzini. Troppo piccola e insicura per vivere quell’esperienza come avrebbe dovuto. Quello sguardo basso, quel sorriso con la punta in giù. Cosa nascondeva quella donna? Quante storie per far divertire un gruppetto di giovanotti in calore.
E quella donna nascondeva uno, due, tre dolori. La sofferenza di una famiglia troppo apprensiva. La sofferenza di una famiglia mancata. La sofferenza di non essere perfetta, di essere presa di mira, di non passare inosservata. Era cresciuta in un paesino del napoletano divisa tra le braccia della madre e quelle della nonna. La sua infanzia era stata silenziosa, a guardare i bambini dietro le spalle del padre senza poter giocare per strada. Per non sporcarsi il vestito e non farsi male, come diceva la madre. Il suo sguardo impacciato le impediva di essere una bimba normale. Sembrava un’autistica. Sempre muta, alla ricerca di foglie, di pinoli, di animaletti con cui dividere un pezzo di vita. Non ricordava un momento felice della sua infanzia, eccetto quello in cui era salita su una grande altalena che le aveva donato un po’ di vento tra i capelli. Era stata una ragazzina cresciuta nel buio di una stanza. Sofferente per tutto quello che non riceveva dalla madre. Insofferente per tutto quello che la vita le negava ogni giorno. E il suo ricordo più bello era nel silenzio della sala d’attesa di un medico: mentre sua madre si confidava con il suo psicologo di fiducia, lei leggeva i quaderni delle figlie del dottore. E sognava di diventare come una di loro, un giorno. Perché sua madre sarebbe cambiata, sarebbe ‘guarita’, avrebbe restituito tutte quelle cose che proprio in quel periodo non riusciva a darle. Attenzione, affetto, calore umano. Invece dinanzi agli anni che passavano si ritrovava sempre nel buio della sua stanza a provare piacere per quelle poche parole ascoltate dal cantante del momento. La rivoluzione, la ribellione. Ma lei non avrebbe mai capito, non avrebbe mai avuto il coraggio. Degli anni del Liceo le rimanevano i pomeriggi sui libri o sul letto a guardare il sole al tramonto, dietro i vetri di una finestra. Le rimaneva il ricordo di quel primo amore e quel quaderno che le è tornato indietro a Sighet, sotto altre forme e in altri modi. Le rimaneva l’amaro di quella ragazza con l’orecchino di perla che le aveva rubato l’amore della sua vita. Le rimanevano le sere passate a guardare l’orologio, a temere l’ennesima strigliata per un ritardo di troppo. Doveva stare in casa per sempre, a sentire loro. Doveva evitare ogni tipo di contatto con l’esterno, perché il mondo è un mostro oscuro. La famiglia pensa al bene dei figli, gli altri pensano soltanto a fare del male. Perché gli altri non hanno interessi affinché tu stia bene. E infine lo scivolone della vita adulta. Una depressione mai curata. Un dolore che prendeva le vene delle mani e che si diffondeva per tutto il corpo tra lacrime e pianti di ogni tipologia. Un passo e un sospiro. Un silenzio e un pianto. La fede l’aveva salvata e lei neppure lo sapeva.
Perché non parlava? Perché non diceva che tutto quello che avrebbe voluto era rubargli un abbraccio. A lui che ne dispensava tanti in giro. Cosa gli costava un abbraccio. Gli avrebbe raccontato una storia che lui non avrebbe capito e si sarebbe accoccolata per dieci minuti sulla sua spalla.
E invece andava così. E lei camminava guardando indietro. Aspettando di vederselo piombare addosso. Aspettando che smettesse di giocare con altre donne per trascorrere dieci minuti con lei. Ma lui non lo avrebbe mai fatto. Perché di lei c’era soltanto da vergognarsi, come di quella bambola trascurata e triste che si aggirava per il Liceo qualche anno prima.
Allora avrebbe gridato che aveva ragione. E che non si dice ‘abbiamo perso una partita di pallone’, ma ‘siamo persi’. Perché la nostra anima è persa. Ogni minuto è perso. Ogni persona non incontrata è persa.
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