Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell'Olocausto. È stato così designato dalla risoluzione 60/7 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005, durante la 42ª riunione plenaria. La risoluzione fu preceduta da una sessione speciale tenuta il 24 gennaio 2005 durante la quale l'Assemblea generale delle Nazioni Unite celebrò il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti e la fine dell'Olocausto.
Si è stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe dell'Armata Rossa, impegnate nella offensiva Vistola-Oder in direzione della Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. [...]
Dove si nasconde il sole quando l’ombra feroce assale incupendoil cielo ed ingoiando altrui spazi? Perché in quei cruenti eventi l’umana ragione s’è lasciata traviaresciupando la dolcezza d’ingenui canti e la certezza del sole che nascee le speranze d’un viver quotidiano?Non c’ero io in quei giorni non vissi quell’inferno.Non vittima, non aguzzino!E non certo per immunità, o per qualsivoglia merito o perché esista altrui colpa solo il caso fu determinantegiacché breve è il passo che separa un piede dall’abisso.Mucchi di cenere lasciati qua e làvoci sine tempore soffocate da un silenzio rimbombante.Lasciami vivere ancora.Anche me! Ora!Due occhi, un respiro asperso nell’aria di marmo,un’anima che languementre abietta s’allunga quella manocome una falce a tranciare sine causa ogni “reo” ramo.Non è forse un diritto innato il vivere?Ma tutto è già accaduto! ed incombe l’onta sua aberrante lasciando oggi qui sgomenti.E ora che è un passato mai passato risuona la sua eco e lascia incredulità.Dov’era la luce? Dove l’Uomo allora?Dove l’Uomo oggi?Ma il sole è risorto ancora e diffonde su ciascuno il suo calore.
*Poesia rivisitata e rivista con l’apporto di modifiche da parte dell’autrice, Franca Colozzo.
A mio padre #GiornoMemoria
Padre, sarà la sera o la malinconia
per la pioggia che scende leggera,
dei tuoi racconti sulla prigionia
tedesca or mi sovviene…
Aspri e concisi come la memoria
rovente d’angoscia e d’amarezza.
Ora capisco… E il tempo
ch’è passato dalla tua morte,
son già quasi trent’anni,
mi copre d’un velo di tristezza.
Dolore è inciso nella mia memoria,
di sevizie flebile un lamento
giunge a me da lontano assai:
muto un canto stringe
parvenze d’uomini invano.
Ora che un pugno d’ossa
sei nell’urna,
piango sulle tue ceneri,
penso alla croce
che ti posi addosso,
quando la tua salma
fu calata nel fosso.
Infelice m’appare ora la vita
or che le tue parole più non odo
e delle preci solo voce mesta
nella mia mente desolata resta.
To my Father - #Memorial Day
Father, it will be the evening or melancholy for the light rain that falls, of your stories about the German prison now it occurs to me ...
Harsh and concise like memory sad with anguish and bitterness. Now I understand ... And the time that has passed since your death, over thirty years, covers me with a veil of sadness.
Pain is etched in my memory, of your ache only a faint wail comes to me from far away: silent a song tightens appearances of men in vain.
Now that's a fistful of bones you are in the urn, I cry over your ashes, I think of the cross that I placed on yourself, when your body was lowered into the ditch.
Life now appears unhappy to me now that I no longer hear your words. Only prayers in my desolate mind, just a sad voice now remains. By Franca Colozzo
Venivano su le prime azzeruole e tu, tu arrivasti alla stazione. Credevano fossi morto, Tonino.
La vita smette di morire se ricordi il sapore dei frutti dimenticati, del melo che sa di limone, l’odore del rosmarino, della cotogna, del sorbo, la buccia vellutata di una susina. Non dimentico, quando perdesti gli occhiali, i più antichi ghiacciai nel mare degli occhi.
Nessuno è distante- se scrivi- ovunque protegge qualcuno le case svuotate, i boschi,le piazze, se qui tutto è minuscolo a un grammo dagli occhi trafitti.
rs, gennaio 2013 Testo pubblicato in Post Scripta n.1 (2013) - Magazine di narrativa, poesia e concorsi letterari di Scripta Volant -Edizioni Aliantide
Mio padre Giovanni Colozzo, ufficiale della Marina Italiana, fu catturato dai nazisti, dopo l'Armistizio dell'8 settembre 1943, perché non voleva arruolarsi nella repubblica di Salò. Dopo più di un anno in diversi campi di concentramento in Polonia e in Germania, fu liberato dai russi. Morì in Italia all'età di 67 anni nel 1990 a causa di enfisema polmonare, in seguito alle sofferenze subite nei campi, al gelo, etc.
Solo un anno fa ha avuto la medaglia alla memoria che sono riuscita, grazie all'aiuto di un caro amico ed alle sue ricerche in archivi tedeschi per ricostruire l'iter della sua prigionia, a fargli ottenere dal Presidente della Repubblica Italiana.
Ecco la mia poesia, che rappresenta il mio tributo a lui e a tutte le vittime della follia umana!
PENSO A TE, PADRE…
Giorno della Memoria
Penso a te, padre, e più non vedo luce…
Oltre la siepe che conduce al campo,
s’alza sommessa voce come pianto
e s’incamminan ombre nel mattino.
Desolato fu quel giorno sì lontano!
Tu patisti per la prigionia
colpe non tue, ma rifiuto al soldato
di celebrare ancora un rito ingrato.
Non guerra, ma sorrisi dalla vita
chiedevi in quell’età che arride
al tempo gaio della primavera,
copiosa di messi e fioriture.
Uomini, donne, vecchi e infanti…
Numeri in coda di poveri fantocci,
dall’ignominia umana messi al bando,
sfilano in processione come morti.
Esser nazisti oggi suona strano…
Eppur ritorna ancora integra l’onta
quando si nega anche un tozzo di pane
al migrante respinto all’altra sponda.
*
* Free translation n English and French
Thinking of my father ... DAY OF MEMORY
I THINK OF YOU, O FATHER...
I think of you, o father, and I see no more light... Beyond the hedge that leads to the field, A soft voice rises like weeping. And in the morning, shadows are walking...
Desolate was that day so far away! Thou didst suffer for captivity Faults not your own, but refusal to the coup d'etat To celebrate again an ungrateful rite.
Not war, but smiles from life You asked in that age that comes to the gay time of spring, copious with harvests and blossoms.
Men, women, old men, and children... Numbers in the queue of poor puppets, banished by human ignominy, parade in procession like the dead.
To be a Nazi today sounds strange... And yet the shame still returns intact when even a piece of bread is denied to the migrant rejected on the other side.
***
JE PENSE À TOI, PÈRE...
Je pense à toi, ô père, et je ne vois plus de lumière... Au-delà de la haie qui mène au champ, Une voix douce s'élève comme un pleur.
Et, au matin, les ombres marchent...
Désolée, cette journée si lointaine ! Tu as souffert pour la captivité Des fautes qui ne sont pas les tiennes,
mais le refus de l'orpailleur Pour célébrer encore un rite ingrat.
Non pas la guerre, mais les sourires de la vie Tu as demandé à cet âge qui vient à l'époque joyeuse du printemps, riche en récoltes et en fleurs.
Hommes, femmes, vieillards et nourrissons... Des numéros dans la file d'attente des pauvres marionnettes, bannis par l'ignominie humaine, défilent en procession comme des morts.
Être nazi aujourd'hui, c'est étrange... Et pourtant, la honte revient intacte quand même un morceau de pain est refusé au migrant rejeté de l'autre côté.
Franca Colozzo
My father Giovanni Colozzo, an officer of the Italian Navy, was captured by the Nazis, after the Armistice of September 8, 1943, because he did not want to continue to fight for the Republic of Salò.
After many months in different Nazi camps, he was freed from the Russians, but died prematurely in Italy due to lung emphysema, following the suffering suffered in concentration camps, in the frost, etc. Only a year ago he had the medal in memory that I managed, thanks to the help of a dear friend, to let him get from the President of the Italian Republic. This poem of mine represents my tribute to him and to all the victims of human folly!
Dimmi perché è difficile tenere le redini del mezzo carro condurre il centro delle cose al punto nel quale un uomo incontra l'altro doppio di se stesso uguale contrario a ogni fanatica presa di posizione. Mi prende la tristezza nei social network di globi bianchi contro neri mondi viceversa da battaglia a suon di stupratori terroristi in gara le dimensioni dei mostri. Ce l'ha più grosso il babau o l'ego d'italica memoria appesa in piazza? Sul patibolo innalzerò una picca nera signora d'arcano maggiore vita che nel dubbio perenne culla il nostro Sé carbonio universale. Carpe Diem gioco a Memento Mori.
(poesia finalista al Secondo Premio Alda Merini, 2018)
Non sono sopravvissuto al mio sgomento né allo sguardo di bambino che ha segnato di sangue e di paura i giorni di un tempo destinato a gioia.
Ho giocato tra le ombre di morte che gravavano i respiri, ho fantasticato giochi rovistando tempo tra la degradazione dell'uomo ad animale. Un labile confine divise gli uni dagli altri: le vittime dai carnefici; uniformi diverse annientarono per sempre un'originaria similitudine, violentarono e uccisero corpi e dignità, fummo ancora una volta eredi di Caino e Abele.
Se fossi sopravvissuto, anch'io vi avrei consegnata la Memoria, come per Hiroshima, come per Nagasaki; ma non dimenticatela: essa precede i passi del vostro futuro.
Quando guardo e ascolto certe persone temo che potrebbero riproporre l’Olocausto.
Nelle fotografie imbarazza
la calma che pervade
le SS a bordo campo
ritratte in un momento di relax –
oltre la recinzione
c’è il luogo del loro lavoro.
Disturba constatare
che dentro il riquadro delle fotografie
siano capaci di sorrisi e benevolenza
e che il sole risplenda
e nel suo tepore proclami la primavera
nonostante oltre il filo spinato
vi sia lo sterminio –
ma non si vedono le persone
che giungono fino a qui
da tutta Europa per farsi ossa
e poi cenere per mano loro.
Aleggia un’intollerabile disumanità –
c’è lorrore di Baer Mengele Kramer
Hoess Höcker.
Il tic-tac della morte
scansiona indifferentemente
i corpi dall’una e dall’altra parte
perché il male in fondo
è imparziale ma sorride sempre
e solo in una bocca –
si sposta tra le SS e gli oltraggiati
senza differenza alcuna –
non gl’importa dove stia il dolore
ma che ci sia e sia caustico.
È agghiacciante l’analisi spietata
dei corpi spostati a sinistra o a destra
nel fumo o nel tormento
prima o dopo il relax.
L’avambraccio marchiato
che Sami Modiano mi pone sotto agli occhi
fa rabbrividire – getta un ponte
sul passato e rende tutto reale:
ciò ch’è stato è ancora.
Offro il mio braccio alla sua mano
e lo accompagno:
la memoria deve continuare.
Nota: Le fotografie a cui ci si riferisce sono quelle dell’Album Höcker, furono scattate fra il maggio e il dicembre del 1944 da Karl Höcker, aiutante di Richard Baer, a capo del campo, nel ritiro di Solahütte, un piccolo resort costruito dagli stessi prigionieri del campo.
Sami Modiano è un deportato italiano ebreo, superstite dell’Olocausto, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz, l’autore ha avuto la fortuna di incontrarlo e di ascoltarlo.
Ero felice per quella coperta. Un soldato dell'armata rossa mi aveva regalato la sua. Oltre il filo spinato i miei occhi scintillavano di gioia, lacrime miste a sangue coprivano il mio volto. Sentivo lieve un tepore sulla pelle, una pelle che non conosceva più carezze, che copriva solo uno scheletro vagante nel nulla.
L'umanità si stava risvegliando in me. Guardavo il soldato con una riconoscenza immensa: lui mi ha regalato un sorriso, un sorriso e qualche scatoletta.
Dio era tornato tra i poveri, tra gli umiliati, tra gli oppressi. Si era ricordato finalmente di noi, di noi che eravamo ormai solo un numero, un'entità senza nome.
Tristemente la scritta “Il lavoro rende liberi” ondeggiava nel buio della sera.
Chiedo ora di apprendere il perdono dalla terra che offre alla luce la sua ferita e di non temere nulla mai com’è naturale al più piccolo fiore. Chiedo ora di assomigliare un poco al cielo che accoglie il volo del falco e della mosca e serba il millenario segreto della farfalla. Chiedo di piovere e di fare arcobaleno. Chiedo di imparare dal vento come passare tra gli uomini senza ferire come lui fa tra i rami del mandorlo. Chiedo di poter sempre guardare gli uomini negli occhi e di vedere nell’iride di chi temo l’amore che cammina come un dio sulla superficie della mia paura. Chiedo di poter sorridere nella notte e mettere come fossero orecchini le ciliegie alle orecchie della morte.
Vorrei dire qualcosa ma forse non ne sono capace perché mi esplode dentro e, nel furore dell’esplosione, le parole non mi escono.
Si sta avvicinando di soppiatto il giorno della memoria e adesso, guarda caso adesso, in questo momento della vita mi viene in mente che, più di tutto più dell’odio e della follia la Shoah è stata creata semplicemente dall‘indifferenza dell’uomo per l’uomo.
Così ogni volta che la sofferenza di qualcuno, più debole o indifeso, viene ignorata o, peggio, calpestata allora è come se tutto l’orrore ritornasse all’improvviso e l’ombra della Shoah oscura di nuovo la Terra.
Questo vorrei dire ma non sono affatto sicuro di averlo detto quindi vogliate perdonare perché non sono poi così certo di esserne stato capace!
Il male è un virus molto resistente. Anche quando si crede di averlo sconfitto egli rimane latente nell’organismo dell’umanità. Continua a nutrirsi finché un giorno, per un pretesto qualsiasi, si palesa sotto una nuova forma. Ecco dove fallisce la scienza: nel non poter trovare un vaccino che preservi cuore e mente da esso!
Questo racconto è tratto dal libro dell’omonimo concorso: Scrivi con lo scrittore indetto dalla casa editrice Giraldi Editore di Bologna per il quale, alcuni scrittori fornirono degli incipit e di cui scelsi questo riportato all’inizio del racconto in corsivo. Incipit di Stefano Chiesa Mazzanti.
Dedicato ai martiri della Shoah. Affinché non si dimentichino le persone che sono morte innocenti per un reato inesistente . ____________
Quando riaprii gli occhi, mi ritrovai dinanzi ad uno spettacolo unico. Un immenso prato verde si disperdeva all’orizzonte, strani esseri, mai visti in vita mia, mi fissavano incuriositi.
Ero là, i miei occhi avevano dimenticato com’era fatta una distesa verde come quella che riempiva il mio sguardo e poi c’erano loro. Stavano in piedi, mi guardavano come se io fossi stata una cavia da laboratorio. Avevano tutte le sembianze dell’essere umano, ma qualcosa che non riuscivo a decifrare nel loro sguardo, m'immergeva nel dubbio totale. Ero in uno stato d’apparente quiete, ma la confusione mi fuorviava, non riuscivo a ricordare perché ero lì, stesa sull’erba. C’erano dei fiori gialli che sembravano tanti piccoli soli caduti in quel prato, avevo l’impressione di sognare, quei fiori mi erano sconosciuti, ma così belli! Pensai che mi trovassi in paradiso o in un altro luogo che non riuscivo ad immaginare. La mia vista era offuscata, mi sentivo come stordita. Nel muovermi mi accorsi che un dolore fortissimo s’impadronì di me, facendomi riprendere coscienza. Quegli esseri strani che due minuti prima non avevo riconosciuto erano dei soldati tedeschi, le SS. Dei flash di memoria mi accompagnavano mentre loro continuavano a guardarmi e a ridere lasciandosi sfuggire commenti odiosi, come: Volevi fuggire piccolo escremento della razza umana, ma devi soffrire prima di morire; con la tua pelle faremo fogli di pergamena, con le tue ossa bottoni. Il loro sorriso era pieno di cattiveria mista a sadismo. E mentre continuavano a girarmi intorno, presi coscienza di tutto, di dove mi trovavo, di come tutto fosse iniziato. Ricordai improvvisamente le mie origini rom, l’arresto di mio padre in Austria avvenuto verso la fine del 1940…
Bussarono alla porta della nostra umile dimora, stavo dormendo, le grida risuonarono nel silenzio della notte come la paura che invase il mio cuore che batteva forte, lo pressavo con la mano destra perché facesse silenzio, quasi a soffocarlo. Udii colpire col calcio del mitra, mio padre, era la Gestapo. Si dibatteva contro di loro, ma inutilmente. Fu preso di forza, stordito dai calci, fu scaraventato in una delle loro camionette grigioverde, in cui anche altri rom furono deportati per una destinazione incognita. Avevo tredici anni, quando rimasi sola con mia madre e i miei sei fratelli e sorelle, ma fu per breve tempo. Dopo dieci giorni vennero a prendere anche noi, gli stessi uomini, tutti uguali se non per il loro aspetto fisico, quanto per il loro sguardo gelido e senza espressione e il tono della loro voce che li accomunava nell’impartire ordini perentori, che ancora ora risuonano nella mia mente:SCHNELL, eins, zwei, drei, vier, fünf… e così, ad uno ad uno, ci contavano mentre salivamo di forza sul camion; buttati come sacchi di spazzatura, gli uni sugli altri, senza distinzione, donne, bambini, vecchi, tutti sul camion, si soffocava. Ci trattavano come bestie da macello, non sapevamo dove eravamo diretti e neppure il perché di un tale viaggio. Dopo una notte passata nella paura, ci fecero salire su un treno merci e, rinchiusi, stipati, senza aria, giungemmo stremati dopo due giorni in un posto che non si può e non si deve dimenticare:Auschwitz.
Al di là dalla barriera di filo spinato ad alta tensione, uomini prigionieri sorvegliati a vista ci guardavano con occhi disperati, frustati, obbligati a correre scalzi su vetri sbriciolati. Dopo due giorni non tardai a conoscere la loro stessa sorte. I soldati ci spinsero giù dal treno su cui ci avevano obbligato a salire, i vecchi e i bambini dovevano saltare anche se no ne avevano le forze. Cadendo, le loro ginocchia si fracassavano sulle pietre vive e appuntite della strada ferrata, causandogli un atroce supplizio. Un’infinità di strutture tutte uguali s’innalzavano alle spalle di quegli uomini che stavano dietro il filo spinato; le guardie con i mitra pronti a colpire vigilavano dalle torrette. I miei occhi faticavano a sostenere gli sguardi di quei prigionieri, quando una voce a me cara s’alzò dalla massa umana… era mio padre, gridò il nome di mia madre:Zara!. Mi voltai e cercai di scorgere il suo viso, ma non ebbi il tempo di gridare il suo nome, che insieme a mia madre e mia sorella, lo vedemmo cadere sotto il fuoco dei mitra. Abbracciai mia madre, mentre un soldato ci divise strattonandoci e spingendoci dentro il capannone insieme con gli altri. Giunte al blocco 26, una SS intimò a tutti di spogliarsi, vidi mia madre arrossire, mentre le lacrime uscivano da sole dagli occhi scuri e profondi, la guardai e mi vergognai. Ci avevano divise e davanti a noi tante persone avanzavano per due, chissà cosa dovevamo sopportare? Poi me ne resi conto. Alle donne come ai bambini e agli anziani, gli rasavano la testa come pecore indifese. Sentii gridare l’odioso:SCHNELL! Era il mio turno, non volevo che mi tagliassero i capelli, ma subito sentii scivolare il rasoio sul cranio, l’abilità con la quale privavano le teste delle chiome, mi fece capire che avevano molta esperienza. In pochi minuti ero nuda dalla testa ai piedi. Toccai con la mano la sommità del cranio, avevo perso con i miei capelli non solo la libertà ma la dignità umana. Guardai da lontano mia madre e il dolore misto a vergogna era l’unico vestito di cui si copriva e mi coprivo. Fui spinta ad entrare insieme con gli altri nei così detti bagni, tra botte e grida di chi si ribellava, quando l’acqua troppo calda o troppo fredda cadeva addosso. Fui spinta ancora una volta con il calcio del mitra, che sentii entrare nella schiena affinché avanzassi. Uscii all’aperto in pieno dicembre, mi misi in fila dietro gli altri durante l'attesa per avere un’uniforme a righe, che ricevetti appena giunto il mio turno. Vi entravo due volte, sporca e lacera, l’indossai in silenzio guadando mia sorella Sonia, di appena dieci anni, che a sua volta mi guardò e si mise a piangere. Aveva freddo, era ancora nuda nell'attesa di un’uniforme, ma dall’altro lato mia madre ci fece cenno con gli occhi affinché non la guardassimo e ci fece capire di restare tranquille. Lessi nel suo sguardo la preoccupazione, forse era meglio ignorarci per non farci dividere del tutto. Feci cenno a mia sorella di non piangere, mi sentivo invecchiata in poche ore di almeno dieci anni. La paura mi attanagliava lo stomaco e il cuore batteva fortissimo ogni volta che le SS impartivano un ordine. Mi resi subito conto d’essere giunta all’inferno, quando vidi mio padre morire senza una vera ragione. L’essere stata divisa da mia madre, aver subito l’umiliazione di spogliarmi davanti a tutti ferendo la mia dignità, continuando a dover fare una lunga ed estenuante fila al freddo e con lo stomaco che gridava fame, e tutto ciò per tatuarci un numero sul braccio. Nell’attesa del mio turno capii quanto contava poco appartenere alla razza umana, per quegli uomini che ci trattavano come bestie; fui marchiata con un numero che definiva la mia identità al posto del mio nome. Da quel momento ero soltanto un numero fra tanti altri. Ci portarono in un campo, lo stesso in cui era stato ucciso mio padre.
Trascorsero circa otto settimane dal nostro arrivo, era il posto in cui tutti dovevano dimostrare la loro tenacia, era il campo designato per la quarantena, un vero tormento senza sosta. Era un campo in cui fui sottoposta a sevizie corporali e mentali. Ci passavano pochissimo cibo e dovevamo sostenere tanti sforzi fisici sotto le incessanti botte delle SS che avevano il compito di ridurre l’essere umano in larva, sia dal punto di vista fisico che mentale, con il solo scopo di vedere se eravamo idonei per sostenere il lavoro che ci spettava. Il loro motto forgiato sul cancello dell’entrata di Auschwitz, per l’appunto si riferiva al lavoro:Arbeit macht frei, Il lavoro rende liberi, una beffa ai danni dell’umanità, come per dire lavorando sarete liberati da questo inferno con la morte.
Uscii dalla quarantena stremata, la sola cosa piacevole fu il viso di mia madre che intravidi con quello di mia sorella. Fu un grande sollievo vedere che anche loro erano sopravvissute alla quarantena. Iniziai a lavorare da subito. Il lavoro consisteva nel dovere spogliare i morti dei loro beni. Entrando in quel luogo mi si raggelò il sangue nelle vene. Le mura erano altissime tre, forse quattro metri, per la metà l’enorme capannone era pieno di corpi ammucchiati che formavano cumuli alti due metri; cadaveri mutilati, già nudi, ad alcuni mancavano i capezzoli dei seni, altri corpi squarciati, privi d'organi, privi dei loro denti, mutilazioni fatte su corpi scheletrici, l’orrore era nei miei occhi. Una donna che poteva essere mia madre, per la sua età e per lo stesso aspetto forte, mi prese la mano e mi fece girare la testa per non guardare tanta disumana crudeltà. Quelle montagne di corpi inermi e mutilati devastarono la mia mente, c’era da impazzire e terrorizzata, mi domandavo perché? Che cosa avevamo fatto per meritare un tale castigo? Presto mi resi conto che non era altro che l’inizio della nostra fine.
Seminuda ero distesa su quel prato e ormai mi era chiara la ragione del dolore che sentivo. Era un dolore dovuto alle percosse ricevute dopo la mia tentata fuga dal campo di Auschwitz, dove avevo approfittato della distrazione di una guardia e mi ero infilata in una cassa di legno piena di vestiti che dovevano essere portati via dai soldati. La cassa fu caricata sul camion e quando il cancello si aprì sentii una stretta al cuore ed una gioia che mi pervase. Ero riuscita ad uscire dal campo, dovevo tirarmi fuori da quella cassa, ma non sapevo come fare poiché c’erano i soldati. Colsi un momento propizio per uscire dalla cassa, quando il camion si fermò bruscamente; profittai del fatto che i soldati erano scesi dal camion. La ruota anteriore destra si era forata, saltai dal camion rotolando giù per la scarpata, ma un soldato mi vide e subito chiamò gli altri… Erano gli stessi che mi guardavano in quel momento, dopo avermi massacrata di botte ridevano malignamente. Avrebbero fatto meglio se mi avessero uccisa. Erano troppe le cose di cui mi ricordavo e che mi facevano male più delle ferite: mia madre che rubava le cinture, qualche scarpa di cuoio ai corpi seviziati da esperimenti disumani di dottori sadici. Il cuoio racimolato da mia madre che masticava per ammorbidirlo, lo riduceva poi in briciole e di nascosto ci diceva di mangiarlo se non volevamo morire di fame, così pure, trafugava pezzetti di stoffa in cotone riducendoli in fili che spezzettava, era il nostro pasto, l’inghiottivamo sotto il suo sguardo vigile ed amorevole se pur lontano. Quanti orrori l’essere umano ha commesso, che di umano aveva solo le parvenze, come quelle bestie che stavano a me intorno. Uno di loro mi disse d’alzarmi. Sentivo che non ce la facevo, ma ci provai, il dolore era insopportabile e crollai di nuovo sull’erba quei fiori mi guardavano, erano l’unica cosa bella che mi era capitata di vedere, da quando ero entrata nel campo…
Un calcio mi giunse forte colpendomi all’anca già dolorante, cercai di rialzarmi riunendo tutte le mie forze ormai inesistenti. Pensai a mio padre, mia madre, al loro coraggio, e con un urlo atroce mi tirai su barcollando, uno di loro gridò ancora una volta:SCHNELL! Sempre lo stesso ordine. Con piccoli passi traboccanti da una zolla all’altra fui spinta sul loro camion e portata a Birkenau. Mi divisero da mia madre e mia sorella; gli altri fratelli, erano stati sin dall’inizio deportati in altri campi di concentramento e di loro non avevamo saputo più nulla. Quando arrivai al campo fui scaraventata giù dal camion con i miei vestiti in brandelli e le ferite ed ecchimosi su tutto il corpo; due prigionieri vennero a raccogliermi, ero a pezzi. Cercarono di disinfettare le mie ferite con la mia stessa urina, passai più giorni abbandonata a me stessa su di uno straccio di coperta, tra la vita e la morte a causa delle infezioni, al freddo delle notti, nutrita da qualche tozzo di pane che Sara, una donna ebrea, divideva con me quel poco che riceveva in cambio del lavoro da lei svolto nel campo di Auschwitz che distava tre chilometri da Birkenau, dove si trovavano mia madre e mia sorella.
Sara, mi raccontò che erano stati buoni con me perché i prigionieri che tentavano l’evasione, erano puniti con la morte, forse era stata la mia età che li aveva frenati, ero giovane e dovevo lavorare. Ogni sera dopo la ronda Sara strisciava a terra per raggiungere il mio giaciglio e mi portava notizie di mia madre e mia sorella. Una mattina doveva andare a lavorare, ma due guardie vennero e la prelevarono, da allora non ebbi più sue notizie, seppi solo che dopo pochi giorni dovetti sostituirla. Il dispiacere di non vederla più però fu rimpiazzato dal piacere di rivedere mia madre e mia sorella. Il lavoro che mi fu affidato fu quello di curare le aiuole che il Führer aveva ordinato, ai suoi uomini, d’intrattenere. Egli era amante della natura, incredibile, gli piaceva ammirare i fiori e le piante nei loro colori e forme. Ogni giorno annaffiavo e curavo quelle aiuole, vicino ai campi di sterminio, da un lato c’erano i fiori e dall’altro la porta che conduceva alle docce della morte. Tutto doveva sembrare bello…le guardie ogni mattina venivano a vedere se tutto fosse in ordine, se avevo zappato e ripulito il terreno dalle cattive erbe, ma su tutto se avevo annaffiato bene le piante tenere. Una giovane betulla sovrastava con i suoi rami il giardino era quella preferita dal Führer . Da parte dei soldati, c’era come una morbosa attenzione per quelle piante, di cui non conoscevo il nome, c’erano anche i fiori che mi avevano vista giacere nel campo, quando ero stata catturata dopo la fuga. Sì, proprio loro, i piccoli soli gialli che avevo così battezzato perché avevano la corolla come le margherite e che somigliavano tanto al sole in un cielo verde e che mi avevano regalato un senso di libertà anche se solo per un breve istante. Che strano! Pensai che comunque, gli fosse stato riservato quello spazio esiguo e come dei prigionieri privilegiati del Führer, anch’essi, fossero stati privati della loro libertà. Mi guardavano, ma non più con la stessa bellezza di quando ancora liberi stavano come me nel campo immenso color speranza, non avevano lo stesso colore oro di cui si fregiavano e fieri mostravano i loro petali come piccoli raggi di sole, forse era solo una mia impressione, ma percepivo la loro tristezza che era anche la mia. Stavo ripulendo il terreno dalle erbacce e la mia mente dai pensieri cattivi, quando udii gridare mia madre, due soldati l’avevano presa per deportarla in un altro campo di concentramento,Treblinka e di cui nessuno conosceva la vera funzione di quel campo. Lasciai gli attrezzi e corsi lei incontro, mi aggrappai alla sua gonna lacera, i due soldati mi presero e mi staccarono da lei con violenza facendomi cadere sulla ghiaia ai bordi del reticolato di filo spinato ad alta tensione, restai lì per terra, tramortita dal colpo ricevuto e vidi allontanarsi per sempre mia madre insieme alle sue grida. Alzai pian piano lo sguardo e dalle aiuole a me vicino facevano capolino i fiori, forse era destino, ma stavano guardandomi ancora una volta, come per dirmi: Coraggio, rialzati e vieni a curarci, tu sola puoi capirci. Mi alzai piangendo e ripresi il lavoro poiché lo sguardo della sentinella già pesava su di me ed era pronto per lanciarmi il suo:SCHNELL! Le lacrime cadevano come fiumi, bagnai i fiori del mio pianto, dovevo stare attenta che non morissero ne valeva della mia vita, se vita poteva chiamarsi. Il sole era da poco tramontato e la sera triste avanzava, e le mie mani sudice di terra aggiustavano le ultime zolle intorno ai fiori da poco nati, purtroppo avevo le mani stanche e per sbaglio spezzai il gambo di uno di quei fiori e per non farlo vedere lo raccolsi e lo nascosi nella tasca del grembiule. Il gesto fu notato da una guardia che mi ordinò di mostrare cosa avevo messo in tasca. Purtroppo dovetti estrarre il fiore dalla tasca che, poverino, s’era già afflosciato. Per il mio gesto, dovetti pagare. Quella notte la passai in un buco scavato nella terra sovrastato da una grata di ferro pesante. Portai con me il fiore che avevo spezzato e ricordo che la sola cosa che feci, fu quella di stringerlo sul mio cuore, come una coperta per tenermi caldo in quella notte fredda e scura. Il mio piccolo sole, un fiore di cui ignoravo il nome, ma che occupò un posto nella mia vita regalandomi un po’ di colore in un mondo fatto d’oscurità e violenza. Un mondo in cui gli esseri umani erano solo numeri ed i fiori creature da rispettare.
Prima di ogni altra considerazione, riteniamo utile prevenire ogni “reazione” dettata da ideologismi vari, affermando che celebrare il Giorno della Memoria non è decretare che esiste il “primato” di un popolo sugli altri o stilare una sorta di graduatoria dei genocidi: questa ricorrenza non è in contrapposizione, per rifarsi a eccidi appartenenti a uno stesso periodo storico che hanno segnato il nostro popolo, rispetto alla condanna dei brutali massacri delle Foibe che, a breve, il 10 febbraio, verranno riproposti come monito nel Giorno del Ricordo.
Va, però, riconosciuta l’unicità di questo capitolo orrendo della Storia mondiale e, in particolare, europea nonché italiana dato il coinvolgimento della dittatura fascista nei fatti che condussero, grazie all’introduzione delle leggi razziali, a quello che viene definito l’Olocausto (totalmente arso) o più correttamente Shoah (catastrofe, distruzione). Basti pensare che la stessa parola “genocidio” fu coniata a seguito di tale atrocità.
Ciò che ha connotato la Shoah, è stata la pianificazione e la sistematicità, supportata da ricerche e scoperte scientifiche e da impianti tecnologici di morte progettati e creati all’uopo, con le quali la Germania Nazista, facilitata dai suoi alleati, ha perseguito l’annientamento degli ebrei in Europa e con essi di qualunque cittadino, proprio o appartenente ai territori conquistati, che non rispondesse a precisi dettami razziali, religiosi, politici, di genere e, persino, fisiologici. Chiunque fosse considerato, in particolare ebrei e comunisti, un “nemico interno” era incluso nelle liste dei condannati all’estinzione ma anche quanti definiti “non ariani”, “bastardi” “subumani”, “deboli”. Infatti, la Catastrofe colpì la popolazione di religione ebraica ma, con essa, anche specifiche altre etnie e tipologie di persone:
- Secondi, per “quantità”, agli ebrei furono i prigionieri di guerra russi. I sovietici ebbero un numero di vittime, per mano della Germania nazista pari a circa due milioni di internati su 3,3 milioni che erano. Furono così tante le fucilazioni di massa che gli abitanti dei paesi limitrofi a Mauthausen denunciarono di non poter utilizzare l’acqua dei fiumi perché resa rossa dal loro sangue. Altri furono fatti lavorare mentre li nutrivano esclusivamente con un brodo d’erba e sale, causandone la morte.
- i Rom, i Sinti e gli Jenisch (quelli che i nazisti chiamavano zingari bianchi) furono internati, a partire dal ‘43 e su decreto di Himmler, in una sezione speciale di Auschwitz detta Zigeuner e Mengele li scelse come cavie umane per i suoi atroci esperimenti prediligendo i bambini, in particolare, i gemelli: molti vennero infettati con germi e virus patogeni, altri obbligati a ingerire acqua salata fino alla morte. Il campo fu attivo fino all’agosto del 1944, quando tutti gli internati, stimati fra i 250-500.000, ebbero compiuto il previsto “passaggio per il camino”. La loro Shoah la chiamano Porrajmos che in romanì significa il grande divoramento”.
- Untermenschen (subumani): le popolazioni slave e dell’Est furono oggetto di un preciso piano che le voleva sterminate. Solo per i polacchi fu previsto un progetto più elaborato e finalizzato alla crescita della Germania: ne dovevano rimanere in vita, entro una data stimata nel 1952, 4 milioni utilizzati come manodopera: raggiunto il numero programmato e lo scopo, li avrebbero sterilizzati e privati di cure mediche così da “terminare” l’opera di annientamento.
- I “Bastardi di Renania”, cioè i meticci, che tanto disgustavano il Führer: nati dopo la Prima Guerra Mondiale, con l’unione tra donne tedesche e soldati francesi delle colonie, erano un attentato inammissibile alla purezza della razza ariana ordito, secondo quanto scritto da Hitler stesso, dagli ebrei che proditoriamente avevano complottato per “bastardizzare” la Germania portando i “negri” in Renania.
- Disabili e malati di mente. Anche questa fragile categoria fu inclusa tra i subumani. Per loro fu decretato l’Ausmerzen. Mette i brividi la scelta del termine, dato che descriveva la pratica che adottavano i pastori in primavera, prima di portare le greggi in transumanza: si uccidevano tutti gli agnelli e i capretti deboli, dato che non avrebbero retto le fatiche della marcia. Si conta che, dal 1939 e in base al programma Aktion T4 finalizzato all’annientamento dei disabili entro la Soluzione Finale, ne furono uccisi 250mila tra i quali cinquemila bimbi, quasi tutti per mano di medici, infermieri e, persino, suore. Farmaci letali, sperimentazioni o morte per fame furono gli strumenti preferiti adottati da chi avrebbe dovuto accudirli e curarli.
- I triangoli viola, internati a motivo delle fede religiosa: in particolare Testimoni di Geova che il 1° aprile del 1935, vennero dichiarati fuori legge. Nei campi di concentramento ne furono internati oltre 10 mila: a morire furono tra le 3 e le 5 mila persone. Dalla ricostruzione di William Shulman dell’Holocaust Resource Center and Archives di New York sappiamo che gli furono tolti i figli, già espulsi dalle scuole, per essere rinchiusi in orfanatrofi, i più fortunati allevati da famiglie naziste secondo un modello che l’Argentina ripropose con i figli dei desaparecidos. I Pentecostali, invece, furono perseguitati e assimilati ai malati di mente a causa del loro parlare lingue sconosciute. Molti altri, fra cristiani e cattolici, in quanto dissidenti e socialmente pericolosi.
- Comunisti, socialisti e sindacalisti. Furono condannati dai tribunali nazisti per “crimini politici” a centinaia. È impossibile dire quanti furono, data la tipologia di “delitto” ascrittagli: di fatto, chiunque fosse, fosse stato o venisse additato come tale, anche solo perché non collaborazionista.
- Molto prima di altre categorie, sin dal 1933, ebbe inizio il cosiddetto “Omocausto”. Gli omosessuali e i transessuali o ritenuti tali, quasi tutti tedeschi, vennero rinchiusi nei campi di concentramento. Per loro un triangolo rosa cucito sul “pigiama”, ogni tipo di umiliazione e tortura; molti furono oggetto di esperimenti che conducevano inevitabilmente alla morte. Quello che contraddistinse questa categoria di predestinati fu la distinzione di genere (le lesbiche furono più spesso catalogate quali elementi asociali) e l’effetto stigma che condusse i sopravvissuti a dichiararsi, anche dopo l’apertura dei campi, delinquenti comuni, e a reintegrarsi continuando a celare la propria identità, spesso contraendo matrimoni che dissipassero ogni dubbio. Il film di Giovanni Coda, “Il Rosa Nudo” (https://youtu.be/kzy2V-pMo7U) narra la storia di Pierre Seel, l’uomo costretto ad assistere all’assassinio del compagno fatto sbranare dai cani. Il trauma lo portò a sposarsi e avere figli, a tacere per cinquant’anni sino a quando, nel 1982, costernato dalle dichiarazioni del Vescovo di Strasburgo (città presso la quale era situato il campo che fu scenario di quello sconvolgente episodio) che bollavano l’omosessualità quale una “malattia”, sentì di non poter più tacere. Solo nel 2014, in Israele, un parco di Tel Aviv ha visto la posa di una stele con tre triangoli rosa che ricorda i 15mila morti per il loro orientamento sessuale tra gli anni trenta e quaranta del novecento. Alcune fonti dimezzano il numero, riferendosi agli identificati nei campi ma, aggiungendo i gasati negli autocarri della morte, i fucilati e i non dichiarati si arriva a raddoppiare il numero delle vittime. E la componente femminile? Abbiamo appena accennato al fatto che le lesbiche erano associate al gruppo eterogeneo degli “inaccettabili” a livello sociale. Ci fu un campo destinato a sole donne: Ravensbrück diverso da Auschwitz, Dachau o Bergen-Belsen. L’assenza di immagini filmate alla chiusura dei campi e l’oblio al quale sembrava destinato, data la scarsità degli studi a riguardo, hanno trovato riscatto nell’opera di Sarah Helm, giornalista britannica: autrice di una lunga ricerca, spulciando gli archivi e intervistando le anziane sopravvissute, ha condensato informazioni e racconti in un libro pubblicato nel 2015: Ravensbrück: Life and Death in Hitler’s Concentration Camp for Women. Nel campo istituito da Heinrich Himmler, c’erano solo donne: 130.000, venti Paesi diversi, solo il venti per cento ebree. Più di centomila erano colpevoli di comportamenti “devianti”, figlie di quel liberismo che aveva contraddistinto l’epoca della Weimar e che il nazismo annientò perché nocivo all’ordine e lesivo dei patrii valori: lesbiche, prostitute, socialiste, comuniste, abortiste, rom, testimoni di Geova. Donne sorvegliate da donne, kapò spesso scelte anch’esse in quanto lesbiche. Furono denutrite e fatte oggetto di massacranti turni di lavoro, orride mutilazioni, esperimenti per testare gli effetti di virus e, come gli altri, affamate sino alla morte. L’ultimo oltraggio: Himmler, quando cercò una pace separata con gli alleati, le propose addirittura come derrata di scambio.
Ci si chiede come sia potuto accadere e la condanna è universale: eppure la Storia spiega bene come e perché accadde ma anche come l’Occidente, che ogni anno commemora le vittime della Shoah, abbia rifiutato i rifugiati. Usa, Canada, Gran Bretagna e altri Paesi avrebbero potuto accettare i profughi ebrei già alla fine degli anni Trenta, ma li respinsero. Nel 1938, trentadue Paesi presero parte alla conferenza sugli esuli ebrei che si tenne a Evian-les-Bains, in Francia. Nessuno, tranne la Repubblica Dominicana e la Bolivia, ridefinì le proprie quote d’immigrazione. Una colpa onerosa, che il Centro Simon Wiesenthal, organizzazione ebraica internazionale per i diritti umani, oggi imputa loro. Non basta: nel 1939, 900 ebrei, tra cui molti bambini, partirono da Amburgo sul transatlantico St Louis alla volta di Cuba, sperando di raggiungere così gli Stati Uniti. Giunti all’Havana, furono rispediti in Europa. Almeno 250 di loro sono morti nell’Olocausto.
La lista delle “altre” vittime soprariportata e rinvenibile ovunque su internet o nei “Bignami” di Storia, non è che un parziale e misero resoconto di ciò che è stata la Shoah: Catastrofe è il termine più giusto. Catastrofe per un popolo, quello ebraico, per tutte le nazioni europee e per il Mondo intero che ancora ne porta non solo i segni ma, purtroppo, ne incuba anche il più letale fra i suoi prodotti di morte: l’odio per il “diverso”, per il “non allineato”, nutrito ad arte al fine di tutelare specifici interessi economici.
Ora, sappiamo che al di là della proclamazione dell’ONU, il giorno della memoria è istituito in Italia tramite la legge 211 del 20 luglio 2000, non solo secondo gli intenti che accomunano tutti i Paesi che hanno fatte proprie le dichiarazioni delle Nazioni Unite ma con scopo di commemorare le vittime del nazismo insieme a quelle delle leggi razziali fasciste nonché tutti coloro che si opposero al regime e sacrificarono lo misero a repentaglio le proprie vite per tentare di sottrarre le vittime al loro destino e contrastare fattivamente l’ideologia nazifascista.
Come Redazione de LaRecherche.it ci chiediamo, dunque, cosa voglia dire celebrare il Giorno della Memoria in un Paese che permette manifestazioni accompagnate da emblemi nazifascisti e dai saluti romani di massa di quanti hanno rispolverando l’epiteto di “camerata”, il cui governo ospita Ministri che promulgano decreti con politiche di genere esplicitamente omofobe, chiudono i porti, limitano l’immigrazione e sanciscono il primato italiano sui diritti degli stranieri, il cui Governo si pone quale alleato delle nazioni europee più retrograde e meno democratiche.
Cosa significa Memoria per una società in cui vengono tollerati o, al massimo, deprecati con un tweet cori razzisti negli stadi considerati manifestazioni goliardiche, profanazione di luoghi e simboli ebraici, atti vandalici contro targhe o istallazioni che celebrano l’antifascismo… una società che accetta o, peggio, sostiene decisioni di giunte comunali che annullano i programmi ministeriali di contrasto al bullismo, all’intolleranza e alle discriminazioni di genere e orientamento in nome di un’inesistente teoria gender e di un fantomatico complotto per l’omosessualizzazione delle giovani generazioni, che riversa con odio e coprolalia messaggi razzisti e, persino, negazionisti dell’Olocausto come fatto storico, che si dimostra ogni giorno più chiusa, a dir poco campanilista, che improvvisamente si riveste di un cattolicesimo di maniera ma insulta il Papa se parla di odiatori praticanti, che plaude alla cacciata dello straniero, che in questo istante siede tranquillamente a cenare mentre sugli schermi, perennemente accesi, scorrono le immagini dei morti in mare, degli esuli senza terra d’approdo, dei bambini nei campi profughi uccisi dal freddo e dall’indifferenza mondiale?
• Per noi, oggi, fare Memoria è dichiararci disobbedienti e dissenzienti di fronte a questa deriva che tanto ricorda gli esordi della Catastrofe.
• Per noi è indispensabile stabilire che lo studio consapevole della Storia sia un deterrente contro tale deriva.
• Per noi è fondamentale dichiarare che qualunque discriminazione e intolleranza su base etnica, religiosa, politica, di genere, di orientamento sessuale è già un crimine e che nessuna democrazia può dirsi tale se non le riconosce come tale.
• Per noi è urgente che si concretizzi un fronte d’opposizione che rivendichi i diritti umani e civili già aboliti e in via di abolizione.
• Per noi è indispensabile ricordare che 12 milioni di morti accertati e 15-20 milioni di vittime stimate, dovrebbero far rizzare i capelli sulla testa di chiunque, qualunque siano le sue credenze, ravveda anche solo un pallido riverbero delle idee e dei disvalori che sostennero quel piano sistematico e programmatico di distruzione che ricordiamo come Shoah o Olocausto.
• Per noi è obbligatorio dichiararci al servizio di ogni attività – culturale, sociale e politica nel senso più ampio – che contribuisca a diffondere la coscienza attiva, umanitaria e pacifica del “MAI PIÙ”!
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Partiamo fin da oggi a celebrare il Giorno della Memoria (27 gennaio). Chiediamo a tutti di intervenire su LaRecherche.it con proposte in memoria dell'Olocausto, scrivendo vicino al titolo delle eventuali opere proposte nelle varie sezioni del sito (poesia, narrativa, articolo, saggio, video, evento, eccetera) l'ashtag #GiornoMemoria in modo che tutte le proposte possano essere raccolte nell'apposita pagina dedicata.
mi decido di scrivere queste pagine in previsione di un epilogo fatale e impreveduto. Da due giorni partono a decine uomini e donne per ignota destinazione. Può anche essere la mia ora. In tale eventualità io trovo il dovere di lasciarti come mio unico ricordo queste righe.
Tu sai, Laura mia, se mi è stato doloroso il distaccarmi, sia pure forzatamente da te, tu mi conosci e mi puoi con i miei genitori, voi soli, giustamente giudicare. Se quanto temo dovrà accadere sarò una delle centinaia di migliaia di vittime che con sommaria giustizia in un campo e nell’altro sono state mietute.
Per voi sarà cosa tremenda, per la massa sarà il nulla, un’unità in più in una cifra seguita da molti zeri. Ormai l’umanità si è abituata a vivere nel sangue. Io credo che tutto ciò che tra noi v’è stato, non sia altro che normale e conseguente alla nostra età, e son certo che con me non avrai imparato nulla che possa nuocerti né dal lato morale, né dal lato fisico. Ti raccomando perciò, come mio ultimo desiderio, che tu non voglia o per debolezza o per dolore sbandarti e uscire da quella via che con tanto amore, cura e passione ti ho modestamente insegnato.
Mi pare strano, mentre ti scrivo, che tra poche ore una scarica potrebbe stendermi per sempre, mi sento calmo, direi quasi sereno, solo l’animo mi duole di non aver potuto cogliere degnamente, come avrei voluto, il fiore della tua giovinezza, l’unico e più ambito premio di questa mia esistenza.
Credimi, Laura mia, anche se io non dovessi esserci più, ti seguirò sempre e quando andrai a trovare i tuoi genitori, io sarò là, presso la loro tomba ad aiutarti e consigliarti.
L’esperienza che sto provando, credimi, è terribile. Sapere che da un’ora all’altra tutto può finire, essere salvo e vedermi purtroppo avvinghiato senza scampo dall’immane polipo che cala nel baratro.
E’ come divenir ciechi poco per volta. Ora, con te sono stato in dovere di mandarti un ultimo saluto, ma con i miei me ne manca l’animo, quello che dovrei dire a loro è troppo atroce perchè io possa avere la forza di dar loro un dolore di tale misura. Comprenderanno, è l’unica cosa che spero. Comprenderanno.
Addio, Laura adorata, io vado verso l’ignoto, la gloria o l’oblio, sii forte, onesta, generosa, inflessibile, Laura santa. Il mio ultimo bacio a te che comprende tutti gli affetti miei, la famiglia, la casa, la patria, i figli.
Addio
Pino
La lettera di Pino Robusti alla fidanzata Pino Robusti era uno studente che si considerò prigioniero politico solo dopo il suo internamento nella Risiera di San Sabba. Fu ucciso dai tedeschi a 23 anni, il suo corpo bruciato nel forno della Risiera.
Non c’è un monumento A Babi Yar Il burrone ripido È come una lapide Ho paura Oggi mi sento vecchio come Il popolo ebreo Ora mi sento ebreo Qui vago nell’antico Egitto Eccomi, sono in croce e muoio E porto ancora il segno dei chiodi. Ora sono Dreyfus La canaglia borghese mi denuncia e mi giudica Sono dietro le sbarre Mi circondano, mi perseguitano, mi calunniano, mi schiaffeggiano E le donne eleganti Strillano e mi colpiscono con i loro ombrellini. Sono un ragazzo a Bielostok. Il sangue è ovunque sul pavimento I capobanda nella caverna Diventano sempre più brutali. Puzzano di vodka e di cipolle Con un calcio mi buttano a terra Non posso far nulla E invano imploro i persecutori Sghignazzano “Morte ai Giudei” “Viva la Russia” Un mercante di grano picchia mia madre. O mio popolo russo So che in fondo al cuore Tu sei internazionalista Ma ci sono stati uomini che con le loro mani sporche Hanno abusato del tuo buon nome. So che il mio paese è buono Che infamia sentire gli antisemiti che senza la minima vergogna Si proclamano. Sono Anna Frank Delicata come un germoglio ad Aprile Sono innamorato e Non ho bisogno di parole Ma soltanto che ci guardiamo negli occhi Abbiamo così poco da sentire e da vedere Ci hanno tolto le foglie e il cielo Ma possiamo fare ancora molto Possiamo abbracciarci teneramente Nella stanza buia. “Arriva qualcuno” “Non avere paura Questi sono i suoni della primavera La primavera sta arrivando Vieni Dammi le tue labbra, presto” “Buttano giù la porta” “No è il ghiaccio che si rompe” A Babi Yar il fruscio dell’erba selvaggia Gli alberi sembrano minacciosi Come a voler giudicare Qui tutto in silenzio urla e scoprendomi la testa Sento che i miei capelli ingrigiti sono lentamente E divento un lungo grido silenzioso qui Sopra migliaia e migliaia di sepolti Io sono ogni vecchio Ucciso qui Io sono ogni bambino Ucciso qui Nulla di me potrà mai dimenticarlo Che l’ “Internazionale” tuoni Quando l’ultimo antisemita sulla terra Sarà alla fine sepolto. Non c’è sangue ebreo Nel mio sangue Ma sento l’odio disgustoso Di tutti gli antisemiti come se fossi stato un ebreo Ed ecco perché sono un vero russo.
Babij Jar (russo Бабий Яр, Ucraino Бабин Яр, Babyn Jar)
è un fossato nei pressi della città ucraina di Kiev. Qui, durante la Seconda guerra mondiale fra il 29 e il 30 settembre del 1941, nazisti aiutati dalla polizia collaborazionista ucraina massacrarono 33.771 civili ebrei.
Nei due anni seguenti circa 90.000 ucraini, zingari e comunisti furono massacrati nel fossato.
Signore, ricordati non solo degli uomini di buona volontà ma anche di quelli di cattiva volontà. Non ricordarti di tutte le sofferenze che ci hanno inflitto. Ricordati invece dei frutti che noi abbiamo potuto portare grazie al nostro soffrire: la nostra fraternità, la lealtà, il coraggio, la generosità e la grandezza di cuore che sono fioriti da tutto ciò che abbiamo patito. E quando questi uomini giungeranno al giudizio fa che tutti questi frutti che abbiamo fatto nascere siano il loro perdono.
(Poesia preghiera scritta da uno sconosciuto prigioniero del campo di sterminio di Revensbruch e lasciata accanto al corpo di un bambino morto).