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Biografia di Vincenzo Petronelli

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UN AMORE DI ROSA

Giugne ierre ‘na náve de cundrabbandiére
ca da sope ‘e pelùne arruave abbàsce ‘o puorte
e assévene ‘i menènenne a aspettà i frastiére,
assave a zinghere ca addevenave ‘a sórte.

Luglie profumave de cièlse e de lemone
e de promésse ‘nu fagugne d’a condrore;
stévene ciénde rose sope ‘o balcone
e da nbiétte te zumbave ngànne ‘u core.

A agóste scettiéste nu sólte abbàsce ‘o puozze
che ‘na léttre lôrde, ràchele de sànghe
e rendrunave rête ‘e iàrvere ‘a carròzze,
ma ‘u bbêne nôn vêne crè e pscrè nemmànghe.

30/1/2002

Traduzione

Giugno era una nave di contrabbandieri
che dalle pozzanghere arrivava dritta al porto
uscivano le ragazze ad aspettare i forestieri
e usciva la zingara che leggeva la sorte.

Luglio profumava di gelsi e di limone
e di promesse nel favonio della controra;
c’erano cento rose sul balcone
e il cuore dal petto ti saltava in gola.

Ad Agosto gettasti un soldo nel pozzo
con una lettera, rantolo di sangue
e riecheggiava dietro l’albero la carrozza,
ma l’amore tuo non arriverà domani e neanche dopodomani.


IL VOLO

Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.

Così ogni notte
liberato il mio inquieto colombo,
raccolgo
come contrabbandiere di frontiera
il povero bagaglio dei miei ricordi
ed attraverso i sentieri tracciati.
Sono ampi spazi
disseminati nel bianco fragore di case
col volto dei millenni,
e suoni
riecheggianti nelle stanze
dalle strade mute,
voci di bambini
sospinti dal vento
per le valli.
Sono mani dure
ed occhi rugosi di contadini
asserragliati nelle loro memorie
squarciate dagli inverni,
e donne che cuciono
la trama sottile di un tempo impari,
inebriate di sole
che esonda dai muri d’ombra
le loro ali di cera.
Sono stazioni scomparse
tra anfratti di treni a vapore,
che rinfrangono accenti di giorni passati
mescolati
agli odori del mezzogiorno
ed alle grida dei venditori.
Sono sfumature di bianco e nero
e contorni di terra e sangue
che la storia
non cancellerà.

Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.

25/5/2003


NOVECENTO
(da un’intervista ad Edit Brück)
Ricordo
le corse sfrenate
all’uscita da scuola
con i capelli raccolti nei foulards,
i passi
appesantiti dalla neve,
i volti scheggiati
dal vento dell’Alföld.

Ricordo
l’orizzonte imperscrutabile
nella sera della Puszta
distinto
dalle danze della csàrda,
e l’attesa
del ritorno di mio padre dalla città
scandito dall’odore pregnante
del gulyàs leves.

Ricordo,
il cielo plumbeo del mio villaggio
all’improvviso abbrunarsi
sotto un lugubre
mantello corvino,
infinita notte polare;
poi la faccia
e le mani
sporche di fango,
e un’agonia di ingiurie,
di risa di scherno
e di sputi.

Ricordo,
macabro vento di violini,
il volto di mio padre
dissolversi
fuggevole
oltre il filo spinato.

Ricordo
corpi nudi
piagati
sezionati come cavalli in fiera,
ed il respiro angoscioso
ad estremo insulto.

Ricordo
l’odore dell’odio rappreso
sulle vesti
sulle cicatrici,
e un’anestesia di mani pietose
cingere
le corazze ormai svuotate
dei nostri accenti.

Ricordo
inane luce d’occidente
l’impeto di abbracciare il mondo
per inveirci,
nodo soffocato in gola.

Ricordo
Libertà, dea esangue
con le sue infinite stanze,
nuove
itineranti celle.

Ricordo, infine
un’indissolubile caligine
sulla stessa terra di mille
e più natali
ormai straniera.

Dopo sessant’anni
salpando di porto in porto
a ricucire le vele,
mi chiedo ancora
quale sia il senso
di questa storia.

17/4/2001
 

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