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Fernando Della Posta e la poesia in dialetto di Pontecorvo

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È un autore a noi caro Fernando Della Posta, poeta silenzioso e appartato nella pregevolezza di una scrittura che ha nell'umiltà non arrendevole delle sue custodie la risonanza di mondi intimamente fragili alle spinte divoranti di un tempo come avemmo già a dire " dolentemente piegato, e indifferente alle proprie logiche di rifiuto, di negazione". Roma, dove vive e opera come informatico, al centro delle sue narrazioni in cui figure e cose "sembrano nella pronuncia stessa della parola, della loro esistenza riaffiorare ancora e riaffermarsi, seppure per un breve attimo prima di un inevitabile riaffondo nel buio"( così ancora nella nostra recensione a "Sillabari dal cortile"). Un discorso dunque, in una poesia dal silenzio, a vertere su un sovvertimento di terra nella sua naturalità di frutto in un abitare non più riconosciuto, e d'apprendimento (reciproco certo), degli elementi. È interessante allora a fronte (e forse a fonte?) di questo confrontare il dettato con alcuni testi nel dialetto natale di Pontecorvo in provincia di Frosinone, del Lazio meridionale, "classificato come Campano di inflessione gaetana (cioè di Gaeta) anche se il dialetto Pontecorvese ha notevoli differenze rispetto agli altri della zona"(secondo la sua stessa sottolineatura). Sono brevi testi che abbiamo avuto la buona ventura di leggere, e nel piccolo numero di tre, in cui riposa e si alza una francescana memoria e presenza di uomini e cose riposte in una topografia d'anima e luoghi appena evocati ma esattamente incarnati, mitemente incarnanti a una rimessa disposizione d'origine e d'insieme. Si legga questo:"Comm’ all’acqua ch’abball’/a sciume sc-corr’ e resta,/fagne femmene ommegne/e picceriglie. E cciù vogn’ì/ contr’alla current’ cciù è fòrce!"("Come l’acqua che giù/al fiume scorre e resta,/fanno donne uomini/e bambini. E più vogliono andare/contro la corrente più è forte!"). Accettazione, lotta, destino nel condiviso assemblaggio, antica pazienza nella durezza della terra e del freddo cui la parola si ricalca nel comune sogno del caldo: "Voie gliu sol’‘n c’ha stace frace/e massera la gliuna ‘n c’è sòra./(..)//Gliu sc-cure gliu frigge e la nèggia/gliu foche della stufa/ ce fagne senci’, gli addore/della minèstra cavera" ("Oggi il sole non c’è stato fratello/e stasera la luna non c’è sorella./(..) //Lo scuro il freddo e la nebbia/il fuoco della stufa ci fanno immaginare, l’odore/ della minestra calda"). Il pensiero a tutta quella "povera gènc’" ("povera gente"), a "tucce chelle bònarm’,/chelle che tègna sta fòr’" ("tutte quelle buonanime che devono restare fuori"). Di qui la vera povertà che passa dall'impossibilità di una solitudine non partecipabile, nella distanza da un coro di uomini e cose, di uomini e terre in dialogo di finitezza, e per questo forse già salve, comunque salve nel paradigma di una metafora che allora sì va a legarsi alla più ampia interrogazione del Della Posta nella produzione in lingua. Questo anche il fondo, inconscio o meno, di questa scrittura nel pensiero a uno spazio, quello mortificato, e cacciato di una modernità in ginocchio, nella aspirazione degli esseri. Ma prima di esprimerci con più compiutezza al riguardo ovviamente necessitiamo di più testi, magari in unico volume. Con questo invito, con questo augurio nel ringraziamento ancora lo attendiamo.


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