Sono davvero pochi i libri che abbiamo modo di leggere e che hanno un sapore diverso. Fervore di Emanuele Tonon è uno di questi.
È un romanzo dal gusto particolare e più lo leggi e più lo assapori e più ne vorresti gustare il racconto. Senza indigestione alcuna, senza sbadigli, senza fermate. Un libro particolare, rubricato come romanzo, ma di difficile classificazione riguardo al genere.
Potrebbe essere certamente definito romanzo e romanzo autobiografico. Ma leggendolo ci si accorge di una particolarità.
Oggi siamo abituati a leggere molti libri di poesia che vengono definiti tali, nella misura in cui il libro è formato da frasi, che a un certo punto vanno a capo, senza nessun ordine, senza regole, liberamente, direi, meglio, libertinamente e in modo anarchico. Lì dove della poesia in verità non troviamo granché, senza quel fuoco e quel fervore che dovrebbero alimentare il canto in primis nell’effluvio del respiro e nel gioco pneumatico di inspirium e espirium. E nell’inspirium sta inscritta la fisiologica capacità dell’uomo di emettere una frase con undici sillabe. L’endecasillabo, che è un po’ la roccaforte della poesia.
Ebbene, leggendo Fervore ci si rende conto di questa poematicità intrinseca, di questa pneumaticità propria di un canto, che pur non avendo frasi che vanno a capo si con-forma di endecasillabi, per lo più.
Ma non mancano settenari ottonari novenari e talora, se il caso lo richiede, il lungo alessandrino. Basterebbe questa formalità, che sta per sostanzialità, per dire che il romanzo di Tonon è un poema dove abita la poesia più pura.
Ma ci sono molti altri fattori che depongono per la poesia. Il linguaggio è uno di questi. Un linguaggio realistico, certamente, ma di quel realismo che prende le distanze sia da un empirismo spinto sia da uno spiritualismo altrettanto forzato. Realismo mediato da una concezione antropologica che mette in prima linea la corporeità, intesa come una delle caratteristiche imprescindibili della creaturalità dell’uomo.
Non per niente Tonon ci racconta la sua esperienza di novizio francescano. Esperienza voluta, scelta col convincimento dell’appartenenza e dello slancio mistico. Esperienza attuata con serietà e acribia, di cui l’autore-attore in prima persona ci narra le fila più evidenti come le più recondite incavate nel mistero del corpo della psiche e dello spirito.
La stessa serietà con la quale dopo l’anno di prova nell’attesa di prendere i voti avviene la scelta definitiva alimentata dal dubbio.
Poema sull’ontologia della scelta potremmo definire questo bel romanzo fuori da ogni riga della tradizione narrativa. Come pure potremmo definirlo un cantico delle creature della modernità, vista la bellezza che si affaccia sovente da questa scrittura così polita e cangiante che incarna natura, cielo, terra, animali, luci, colori, canti e soprattutto quel canto di balena immaginaria che naviga nel cielo stellato.
Sicuramente il poema-romanzo è, come dicevo, un inno alla corporeità. Alla persona umana, alla sua unicità, alla sua fragilità fisica e morale. Alle certezze come ai dubbi.
Ma sicuramente un libro di poesia pura per celebrare il mistero del creato e dell’uomo, sulla falsariga della spiritualità di Francesco, il santo “giullare” che continua a in-fervorarci.