Le parole che usa Francesca Del Moro in questa sua nuova silloge (Le conseguenze della musica) sono molto larghe, così da potere essere riempite di molti significati, a cominciare dalla musica di cui lei intende manifestare quali siano le conseguenze (altro termine su cui molto c’è pure da dire), visto che, leggendo i testi, si pensa pure alla sonora presenza della poesia e al suo farsi portatrice di altre conseguenze, non sovrapponibili a quelle della prima. Infatti, se l’ascolto della musica, come viene ripetutamente dichiarato, costituisce una sorta di collante che tiene insieme il tempo dell’esistere generando “conseguenze” emotive di addensamento o di rarefazione, caratterizzate ora da un piacere di rispecchiamento, ora da una necessità di fuga dalla realtà; quello della poesia, a cui spesso viene attribuita una corporalità calda e coinvolgente, una bocca sonora che dantescamente “ditta dentro”, determina tanti ripetuti atti di coraggio e di sincerità fino alla brutalità, allo scorticamento di sé.
Allo stesso modo l’amore si dilata e si complica viaggiando fra i due estremi dell’assenza e della presenza, della memoria e del desiderio, insediandosi nella percezione del tempo e come bilancio esistenziale, spesso molto amaro e nullificante; e come motore del presente, che l’avverte, consolandola, del ruolo materno e della presenza di molte relazioni amicali; e, infine, come suggeritore di una vaghezza sentimentale, di un desiderio più contemplato che destinato a un nuovo progetto, in quanto si ha la sensazione che la solitudine amorosa rappresenti per l’autrice una condizione insieme di deprivazione e di privilegio. È vero che Francesca Del Moro lamenta la poca vita che determinerebbe la poca scrittura, però sa perfettamente bene che la poesia nasce da un limite; e, come una delle fanciulle mitiche che versavano l’acqua in un pozzo senza fondo, anche lei versa nel suo vuoto i versi dell’impossibilità di raggiungersi e di raggiungere gli altri. Gli altri, infatti, appaiono in genere, anche quando sono fisicamente vicini, imprendibili, quasi intoccabili, e non solo per timidezza gestuale, ma per quella distanza che si frappone sempre, per quella inutilità delle parole del quotidiano che sappiano dire davvero come stanno le cose, come sentiamo e ci sentiamo. Sembra un paradosso che la poesia così “comunicativa” di Francesca Del Moro possa celare un simile dramma; ma, se si leggono le sue interviste e soprattutto i suoi testi non solo dal punto di vista contenutistico ma anche nel loro aspetto formale, colpisce il fatto che lei insista sul lungo lavoro esercitato sulle parole per giungere a questo risultato di “spontaneità”.
Di fatto il silenzio e/o l’insufficienza delle parole “quotidiane” trapassano come una ferita i versi della Del Moro: quasi tutto è stato perduto per questo, quasi tutte le relazioni sono state e sono limitate dall’incapacità di mettersi in comunione: c’è un testo molto inquietante che ha inizio con “Tu ti sdrai per terra” (pag.52), in cui l’autrice si confronta con un’altra donna che sta a contemplare il cielo stellato a faccia in su, sdraiata per terra, dove pure lei stende il suo corpo, ma guardando in giù, la faccia sporca, il viso schiacciato, le stelle colte solo da uno sguardo obliquo.
Mai parole come quelle di questo testo sono, come dicevo inizialmente, più “larghe”: se le leggiamo alla lettera, appare razionalmente incongrua la posizione scelta dall’autrice per guardare le stelle accanto ad un’amica che ha scelto quella più comoda e naturale per farlo; così che bisogna costringersi ad una lettura diversa, o forse a più di una. Infatti, queste parole potrebbero significare un conflitto tutto interiore tra una spinta a soddisfare le proprie esigenze di astrazione e anche di contemplazione della bellezza più pura e remota, e quella contraria a guardare le cose della terra e viverci dentro intensamente fino a sporcarsene. In questo caso il testo sarebbe una sorta di contemporaneo racconto platonico.
L’altra lettura, credo la più corretta, anche se la precedente mi affascina di più, ma forse solo per ragioni soggettive, è, invece, quella che fa di questo testo una sorta di manifesto poetico, attraverso il quale Francesca Del Moro si colloca nella scia di una recente scrittura poetica femminile (non ‘femminina’, per carità!), in cui s’inseriscono nomi come quelli della Cavallo, della Gualtieri, della Calandrone (ma come capofila porrei Maria Grazia Lenisa, purtroppo non ancora nota come meriterebbe) nella quale il corpo trova per esprimersi un linguaggio di rottura rispetto a quello “cantato” dai poeti uomini, e dalle stesse donne-poete rivolte maggiormente alla propria interiorità. È la rivoluzione che auspicava Rimbaud, il quale in esso poneva la liberazione della donna dal suo status di inferiorità. È Il pensiero dentro il linguaggio, infatti, l’arma che opera i tagli decisivi. Penso, del resto, che, se si accoglie una simile operazione, bisogna convenire con l’autrice che quell’io che parla non si esaurisce in se stesso, ma diventa il pronome di tutte le donne, che dicono, attraverso la poeta, “io sono”.
Detto questo, possiamo anche fare la conoscenza della donna Francesca Del Moro giusto attraverso i suoi versi, scoprire i suoi gusti musicali, comprendere la gioia della sua maternità, condividere la sua solitudine affettiva dopo la separazione, il suo amore per la bella Bologna, sua città d’elezione, i suoi autori preferiti (ai quali spesso si rivolge con freschezza di atteggiamenti, con gratitudine, ammirazione); ma sempre tenendo presente che si tratta di materiali di cui si nutre non solo la sua poesia, ma la scrittura in genere, se desidera veicolare verità e non finzione, sangue vivido e non umori incantevolmente vani.