A un riverbero di labbra dall’Irno
i tuoi arenili, i borghi allucinati
dalle inestinguibili bocche montuose,
le strepitanti rovine delle civiltà remote.
Scriverò di te, oziante su una pietra
a Finocchito, smarrito in una pace saracena.
Chiudo gli occhi, il sole mi trafigge,
mi protegge, disco fluorescente: Elea,
torre nera, ulula Mefistofele ogni sera,
Palatina croce sull’acropoli, tesori,
anime di un anfiteatro scevro di candele.
Frantume di vetro, Paestum, templi
succosi come i fichi eterni di Prignano.
E se Palinuro giace nel sonno di acque
sconosciute, è nell’Alento che immergo
mani di emigrante per bruciate strade.
Un ricordo – istante infinito – e già nelle
conchiglie del viso Cicerale: semi, olive, bestiame.
Capaccio, ancora, dalle bufale canute
come la pace, come rocce di Trentinara
a picco nella Valle del Sele, poggiolo tiepido
su una costa, su un’azzurra grotta.
Roccia come Monteforte, Magliano,
Capizzo perciata, come Stio
guerriera e normanna su un pendio,
o Torchiara nobile e carbonara.
La poesia a Gioi è un battito per Maia
curato con il sale; a Moio, greco presidio militare.
Se ripenso a Salento si innalzano dottrine
cesellate senza tempo – lì fangose criniere
d’Italia mutano in usignoli
in un carico giorno di funesto pianto.
Omignano disfatto mille volte,
caldo giaciglio, giardino cristallino
germogliato da un incantamento.
Tra i marosi sirena, Acciaroli;
Pioppi, elisir di vigore.
Oh, Agropoli, il cardine tuo
sul promontorio sedusse Apollo
e Castellabate è il suo Giacinto.
Su ogni fiore veglia Vatolla
che all’occhiello ha una cipolla
e il simposio fresco di una rocca.
Cilento – mai letto di Damaste,
di Afrodite e Pan prediletto figlio,
disamore e amore, supplizio –
dove la costa lambisce la montagna:
Cervati, Gelbison, Stella: nel segreto oblio
che ristora, amaro e pago asinello
in un verde sconfinato senza sella.
[Da Canto Randagio del Cilento, Ladolfi, Gennaio 2019]
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