Estate (Poesie 2008-2020), Ladolfi editore 2020
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Si raccolgono in volume le poesie, i pensieri e le diverse voci che in varia misura, ma tutte insieme, hanno accompagnato il difficile cammino della maturità dell’autore. Difficile, aspro – anche se facile non è per nessuno – poiché vissuto Nel nome del padre, come suggerisce anche la raccolta di versi Il mio bambino, che decreta un’inversione drammatica e amorevole dei ruoli. La figura del padre, si può dire che sia presidio a queste pagine e non occorre guardarle in filigrana per sincerarsene. Ma nella sua scrittura c’è molto altro, ed ecco che gli elementi privati diventano universali ed esemplari, così come lo sono quelli impersonali. È, infatti, in questi componimenti, nella sua seconda stagione – quell’Estate simbolo della maturità come uomo e come artista – che l’autore raggiunge una compiuta singolarità e originalità di poeta, vale a dire una giusta contemperazione di mente e di cuore. Di mente, certo, e anche di cuore, è questa l’impressione del lettore, perché sembra che soltanto qui, nell’effusione lirica della poesia, Menotti Lerro abbia trovato, percorso iniziato fin da giovanissimo, una libera e prima possibilità di espressione.
Prefazione di Giampiero Neri
Milano, 9 marzo 2020
(prima pubblicazione, 2013)
GLI ANNI DI CRISTO
Libera me, Domine,
de morte æterna,
in die illa tremenda,
quando coeli movendi sunt et terra.
Dum veneris iudicare sæculum per ignem
I
DEL FANGO E DEL FUOCO
Desiderium habens dissolvi
et cum Christo esse
Ventidue è il doppio di undici
e io morii il ventidue febbraio del 1980.
Fu nella stagione Peret,
quella che passa senza rimpianti
se non per chi vi muore
una volta all’anno.
Si dice che l’uomo perisca
una sola volta e che poi di morte
si illuda nel tornare alla vita.
Nel mercato di via Papiniano
ogni voce è una radio,
ogni volto una stella di luce riflessa.
Io fluisco in silenzio, mi affido
alla corrente; il marmo degli occhi
incornicia ogni cosa, duole il dente,
schivo la bocca di un serpente.
Le perle più belle del creato!
Olive greche, alici marinate!
Pesce spada regalato!
Giuro sulla testa del neonato!
Il giorno ci è caduto addosso
cucendo vestiti sulla pelle,
tratteggiando ombre sull’asfalto,
lume alto sulle cime.
Abbiamo ricordato zia Giovannina,
i bon bon dalle Americhe,
la borsa marrone con le posate private.
Poi non tornò più. Nessuno ci parlò
del suo viaggio, fine lontana dal principio,
noi non chiedemmo. Basta così poco
per essere dimenticati.
Bambini ingrati.
“Vieni Luan, nascondiamoci
nel grande cartone, qui non si
sente rumore, apriremo finestrelle
sull’oceano da affidare a Giano Bifronte.
Sarai la regina del castello, io re,
la corona e l’ombrello. Spariranno
i mostri della notte, il drago infilzato
dal bastone. Saremo liberi!”.
“Come possiamo essere angeli
mentre il fuoco divora i pensieri del padre?
Siamo cristalli in preda alla luce,
sogniamo d’essere bambini.
Nessun’ombra alle spalle, mani gelate.
Soffia, soffia sulle mani la neve che hai dentro,
restaurerai le cicatrici, sei un fiordaliso”.
Si radeva la barba tra mille sorsetti:
“…quel giorno mi scordai di spigolare…
eran trecento… giovani e forti… morti!
passero solitario dove andrai? donzelletta mia…
Non è la terapia la poesia, ma la pazzia!”.
Padre, gli dèi ingenerano negli uomini
la ragione, supremo fra quanti beni esistono.
Io non potrei né saprei dire che queste
tue parole non sono giuste. Sembravi rinato.
Poi la vetrina alle spalle, il tonfo che ridesta,
eterno incantesimo; siamo ancora nel tunnel
senza uscite, negli anni di Cristo:
non passano, si accumulano!
Non torneremo a correre pendii
e i nostri ieri rivivranno sul carro dell’auriga
stretti per non cadere, verso la contemplazione,
luminosa neve di Natali all’alito delle fiamme
dove i gatti sognavano l’angelo rosso.
Sovrapposizione folle il volto,
dal nero al velo della barba,
impossibile mappa dei vagoni del tempo.
“La carne è uno scudo lesionato!”
farfugli nel terrore del frammento
“La salveremo con il sale,
di quanto negli occhi rimane”.
“Vecchio bambino ingordo,
quale vita vorresti?”.
Potessi rinascere stanotte,
scegliermi un destino, nascerei ancora
in un povero mattino in una bianca
casa senza porte.
Il vento è una mano sulla pelle.
Non temere sorte o morte.
In chiesa ogni uomo si raccoglie,
rintanato spera. L’occhio distorto
dello spirito stolto da poterlo
ingannare con due arcate
in bella mostra, la questua per il prete.
Fiorirò nell’anno del Signore,
pietra pomice sulla riva dell’estate.
Tra-vestito e l’anima, le ossa.
Come l’acqua del Mastellone urla
nelle vene l’amore nel verso che vuole.
Lucciole impazziscono tra i sassi,
la trota smuove lame leggere.
Il saggio ha innalzato gli scudi sulle rocce,
pietra su pietra, io sono stato!
L’azzurro è la poesia dei giorni,
magma che solidifica il cuore.
Il fiume in cui entriamo è lo stesso,
ma sempre altre sono le acque
che scorrono verso di noi.
Al muro le stelle sbiadite
non cadono come d’estate
inseguendo i desideri degli amanti.
Fermo è il tempo nel petto del pupazzo
di neve sulla piazza senza braccia.
Non hanno pupille gli occhi
e dai bottoni della bocca
non si espande più fiato.
I passi degli uomini creano
un’altra dimensione. I ricordi
in preghiera, fiocchi caduti:
moriranno domani allo spuntar del sole.
La mano cuce la notte.
Rallenta fino a fermarsi il quadrante
della piazza, matite spezzate.
La gomma cancella le ferite.
Don Don Don
Seamus Heaney è più vecchio di me,
l’ho capito osservandogli la vena.
Mi ha detto: “Guarda come son fresche
le rose del tuo volto, abbine cura!”.
Poi si è dileguato tra due fogli.
A volte riguardo le mie rose,
penso alla rugiada che disseta nella notte,
il mondo che scompare tra la seta.
Dureranno un mattino le mie rose,
il tempo d’ascoltare il tumulto
delle palpebre accostandosi
al seno imbottito di velluto.
Fu a Stonehenge, un sussulto
di macchine fotografiche prima
dell’amore sulle foglie.
Dureranno una notte i sospiri,
tempo d’accostarsi al tumulto
del tuo battito francese.
Come ci ha cambiato la notte,
le immagini sono già distorte
e la speranza sa di rimpianto
senza tempo. Il viaggio finirà
sulla croce del monte,
ci toccherà aver paura,
chiedere perdono.
“Hai mai chiesto perdono?
Ti inginocchi vicino all’altare del fiume?
Sotto una quercia secolare
dal petto incavato per nasconderti
quando nel bosco piove e la terra
libera fragranze per proteggere
ogni sua creatura?”.
“No, non mi sono mai nascosto
in una quercia. Ho temuto le folgori.
Né mi sono accostato ai fiumi.
Sono rimasto nelle torri più alte,
Babele abbattuta dalle aquile”.
Anything can happen! negli anni del Signore.
Andiamo ora nel deserto.
Basterà un dito per scrivere un verso.
Non ci sono torri lì, dormiremo
sicuri tra la sabbia: dolce coperta
in cui avvolgere i corpi e rattopparne i buchi.
“Ho paura!”. “Di cosa hai paura?”.
“Temo l’angelo cattivo!”.
“Torbidissima ombra, unico tormento.
Lascia che io vada da solo
verso l’oasi promessa!
Io sarei nato per essere uno,
non sentire voci alle spalle
quando spuntano traditrici le luci!
Possa la lebbra attaccarsi alle tue ossa!”
“Sai che non ho ossa! penso alle tue,
che scricchiolano quando cammini
(io striscio sul ventre) quando dormi
su morbidi cuscini lasciandomi sui muri.
Di te non avrà pietà il Padre,
…non ne hai per nessuno!
L’osteoporosi ti bucherà lo scheletro,
mi vedrai con la luce dentro scomparire”.
II
LA TENTAZIONE DEL PANE
(continua...)
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