Da Primavera (Poesie 1997-2007).
Menotti Lerro ha nel cuore un pianto, un pianto acuto e sottile che lo accompagna, che gli fa compagnia e che di punto in bianco si tramuta in riso. La poetica di Lerro consiste in questo, riso e pianto, e in mezzo c’è l’orrore sordo, senza parole, che si interroga come si interroga il silenzio, al quale ci si rivolge come alla morte. Primavera raccoglie testi che vanno dal 1997 al 2007, da Ceppi incerti alle ultime poesie che dovrebbero costituire l’apice di questa antologia, la Maturità che la conclude. Ma anche se il passaggio da una raccolta all’altra costituisce un progresso, soprattutto sul piano del linguaggio, rimane il dolore la tonalità di fondo di queste poesie, il dolore e l’orrore che percorrono tutto il libro. “Poesia, Amore: significanti/di corpi che non sanno di esser morti”. Questo è uno degli ultimi versi, Tra-vestito e l’anima, ma potrebbe rivelarsi emblematico di tutta quanta la raccolta, prendere l’essere-per-la-morte come primo e insuperabile punto di vista, la morte che è l’originario status del nostro essere nel mondo, che dà al mondo il suo significato più chiaro e autentico. “Siamo carcasse negli angoli delle strade trucidate”, dice un altro verso, e qui accanto alla morte si consuma qualcosa di sordido, “sangue aggrumato che scorre sulle zampe”, dove forse l’umano è ridotto al bestiale, dove l’umano e il bestiale si confondono.
Prefazione di Roberto Carifi
*Ceppi incerti
Nella stanza in ombra per tre quarti
mi trovo ancora vicino ai ceppi incerti.
Solo con mani fredde e nere
attizzo il fuoco paziente alle solite preghiere.
Arde il ricordo della grigia infanzia
tra fumo amaro dolci ricordi di speranza.
Omignano, 1997
*Veglia millenaria
È gelida la notte dell’ultima veglia millenaria
e, anche quest’anno, s’arrotano mulinelli
cartacei e polverosi.
Non muta la voce dei soliti compagni di piazza;
l’orto, anche questa notte, è sempre bianco
e le zolle sono ancora aride e dure
alle braccia affaticate di mio padre.
Anche stanotte per quel ciglione vaga
il vecchio cane compagno che non cura
le illusioni mie del tempo e torna
al portone stanco portando buio freddo
in mezzo ai denti.
M’avvolgo nel tremore di un lampione
ad un insetto tomba, mentre un’alba
lieve sfida la notte lasciandosi alle spalle
altri mille profondissimi inverni.
Omignano, 1-01-2000
*Notte
M’invadono ombre d’innumerevoli inganni.
*Nella notte
Mi risveglio all’ombra
del lume grigio di mia madre.
È notte alta, fila ancora
quella sua tela stanca
*
Sono tornato a casa per piangere mia nonna.
Le ho accarezzato i capelli bianchi, baciato la fronte.
Solo oggi capisco quanto sia fredda la morte.
Pare che dorma: è bella!
Sulle labbra un sorriso e mi sembra ieri
che mi dava quattro lire per farmi mangiare.
*
L’ultima valigia aperta
di tremula incertezza.
È nel buio del suo sonno
mio padre, accanto a me,
e già lo sento piangere
ciò che nell’aria
di settembre avverte.
Oh, quante volte indietro
getterò i miei occhi,
che ti vedono ancora solo,
vicino ai quei tizzoni
ad aspettarmi.
Il rosso, il nero, il filo per i denti…
e il vuoto è quasi colmo all’apparenza.
Stride la finestra del terrazzo
e scende tra i miei piedi il vecchio gatto.
Il cuore quasi mi si ferma
tutto a un tratto. Batte, batte, batte
il vento sulla porta: “È l’anima
di chi non ritorna! Ha la voce rotta...”.
Ma è l’ora, è pronta:
l’ultima poesia mia
con questa penna.
A te
solo
lascio
l’inchiostro per il gioco,
la carta per il fuoco.
*
Quando crollerà
sarà una massa grigia
che viene giù a pezzi,
sarà il punto di luce
che acceca.
Abbraccerò in piazza
il cavallo, l’amico Wagner,
e di me non resterà
che essenza.
*
Il perché che non trovammo
1
Ascolta, che cos’è quel rumore?
Sì sì, eccolo! Un gatto randagio
che fermo rosicchia il suo topo,
le carni sfilacciate...
2
Stasera il bosco penetra le case
che aspettano, aspettano ancora, ancora.
Da qui si vede tutto.
3
Il grido di Maria ci sorprese
mentre spartivamo le focacce;
e poi il silenzio assoluto, spettrale.
Il gioco era finito.
Lo capimmo allora e tu piangesti
e ti stringesti a me invocando
la nonna morta, chiedendomi
il perché che non trovammo,
che non trovo.
4
Nella classe c’erano solo occhi
di gesso appesi alla lavagna,
puniti dalla mano ferma del maestro
che ritrovammo bianco e gonfio
sul suo letto in un giorno di pioggia
che mai più sarebbe passato.
5
A casa perdevamo i colori
e si creavano i suoni del terrore.
Si mangiava di corsa, mano angosciata,
sudata al freddo delle mura umide, storte,
che mai più sarebbero passate.
6
Il gioco era un’invenzione: sognare
lo scudetto in una radio, chiudere
i soldatini nelle trincee del cuore,
affilare qualche molletta del bucato
per farne un’automobile giocattolo
che ci portasse via, ma che poi mai
sarebbe passata.
7
Il pianto della rassegnazione non ha eco,
non lo puoi toccare, vedere, sentire,
ma solo immaginare in attimi
che non t’aspetti mentre tua madre
taglia le patate e pulisce il coltello
sul grembiule.
8
E poi Natale... Natale!
Natale per chi sogna è di domenica,
le strade si inebriano di incensi,
ogni mano porta in dono l’altra mano,
sulla soglia della chiesa c’è la brace… sa di neve.
9 Chi mai sogna aspetta l’inclito giorno
con timore e sorride per nascondere
alla gente le sopracciglia aggrovigliate
dal rancore. Gli anni non passano,
si accumulano! E i denti dei vecchi
e dei bimbi cadono e li ritrovi al suolo
come diamanti.
10
La dentiera che mi baciava è rimasta qui
dopo che te ne sei andata.
A volte la guardo e ti vedo ripulirla
con lo spago, con uno stecco di campo
e poi soffiarla, paziente, con amore.
Un giorno, forse, la darò alle mie mascelle.
11
Sulla soffitta potevi trovare la paglia e le ossa
del cranio delle pecore che il macellaio
incarcerava. Le spolveravo con la maglia
e l’occhio immaginato era sublime.
Allora era quella la felicità.
12
La zia Adalgisa portava le camicie
una volta all’anno a suo fratello,
sempre di due taglie in meno:
quelle del marito. E a noi dava
diecimila lire da spartire,
così da pagarsi il pranzo
e le offese senza prezzo.
13
Nel bar del gobbo entravo
in un video game e nessuno
me ne tirava fuori, neanche la notte,
il sonno o gli schiaffi dei più grandi
che giocavano... giocavano.
14
Al tavolo c’erano tre sagome sfatte
che insultavano le madri
di averli messi al mondo.
Sei pazzo ragazzo come la tua stirpe!
Per questo... paga... un altro fondo del bicchiere.
15
Impazzire fu la morte del cane
che mi leccava il cuore e un pezzo
della sua carne messo sulla legna
per farla bruciare; impazzire fu perdere
la casa per i debiti, la scuola, l’amico più caro,
scappare da mio padre,
dal sadismo della gente.
16
Sulla sedia a dondolo inventavo
le nuvole d’aprile aspettando la pioggia
e le ombre della sera che tardavano,
che non m’ascoltavano.
17
Di notte, nella stanza, mi appendevo
al crocefisso; lo vedevo cieco:
un povero cristo morto
sotto una corona di spine.
18
Una dopo l’altra le immagini del giorno
bruciavano nell’angolo della testa morta,
lì, lì, sul guanciale, e al mattino, resuscitato,
buttavo via le ceneri in un sacchetto nero.
19
Il giorno in cui morii fu l’unico diverso;
poi sempre uguali, aspettando che qualcosa
arrivasse o andasse via dal marasma
del tempo e dell’anima.
20
Starsene fermi, trasportati dalle onde:
magari ti porteranno a riva o a fondo, chissà.
21
Sulle pareti bianche il sangue
è in bella mostra. Zanzare grosse
e grasse muovono le zampe al vento
della finestra da dove arriva il sole,
il sole che fiuta ogni cosa morta
e la cerca bussando fin dove
non vede per divorarne le carni, le carni!
Domani divorerà anche queste.
22
In ufficio ho gli occhi stropicciati
sulla scrivania, la barba flagellata,
gli stessi jeans e confondo le mie ascelle
coi deodoranti al borotalco.
23
Come va oggi? (Ti chiede sorridendo
una sagoma offuscata dalla miopia).
Bene, bene, sempre meglio!
(Le biascico un sorriso.
Pian piano ci si abitua al buio…).
24
Qui se non ce la fai a sorridere
sei nella gabbia che apre
la sua porta al gatto.
25
Tornando a casa, via Padova
è un fiume di occhi neri: sui marciapiedi,
negli autobus marci.
Un filo d’acqua buona
per pulirsi, specchiarsi, bere.
26
Domani mi nascondo
sotto la bancherella
dell’indiano con la piccola Yasmine…
immobile, in silenzio... gioca...
le racconto fiabe.
Milano, 2005
*
Dentro la notte inquieta
sprofonda chi veglia,
ardente silenzio inespresso.
Negli occhi vitrei
l’ultimo ricordo d’infanzia:
ombre che scendevano dai monti
portando buio freddo in mezzo ai denti,
calpestando i funghi della pineta,
lasciando morte tra i sentieri
di castagni e oleandri,
sostando in brevi attimi di speranza
lungo il ruscello per pulire le fauci pronte…
le bestie indifese che fiutavano morte
al suolo polveroso.
Allora si trovava rifugio nel cielo plumbeo.
*
Non ho più niente,
le luci sono spente
in O’Connell street;
Molly Malone mi ha
venduto castagne e fragole,
le ho divorate inventando
i suoi seni.
Il Celtic shop dove lavoro
è ormai chiuso,
Kavin starà contorcendosi
con la pipa accanto.
Dublino è senza cielo
come Omignano e Milano,
Oxford e Londra,
Madrid, Barcellona e Bilbao,
come Praga e Budapest,
Francoforte e Monaco…
Non c’è casa.
Dublino, 2006
I figli dei pazzi nascono tra bianche mura senza porte,
giocano e si nutrono con sillabe storte.
I figli dei pazzi odiano la gente,
sono stupidi, cattivi, svogliati, annoiati, malati.
I figli dei pazzi non hanno amore
e se corrono sui prati è per distruggere i fiori.
I figli dei pazzi non dormono di notte,
vagano ubriachi con le scarpe rotte.
I figli dei pazzi mentono, tradiscono!
Se ti sorridono e stringono è perché ti uccidono.
I figli dei pazzi non hanno colore
sono pallidi e sudici, di cattivo odore.
I figli dei pazzi sono solo pazzi
e se muoiono nel sonno non saranno pianti.
*
L’infinito è dentro ai nostri occhi;
non fuori, nelle cose del mondo,
ma nella loro ombra.
La notte, la morte, il battito di ciglia,
ci rimettono al cosmo, fuori dal tempo
*
Invecchiamo negli occhi della gente
o quando, nell’aprire un armadio,
lo specchio ci sorprende.
Invecchiamo immersi a mezzo busto
nei nostri fiumi, quando scorrono
le immagini tra mille pieghe;
invecchiamo nei riflessi perversi
delle posate e dei bicchieri.
*
La falegnameria profumava
d’alberi e incensi.
Mio padre passava la Vinavil bianca
negli incastri, infilava i chiodi d’acciaio
con due colpi: breve-intenso.
Io lo imitavo, martellino,
tra le mani miniature degli attrezzi...
sognavo il Cavallo di Troia.
Poi di sera mi nascondevo
tra la segatura: «Non c’è posto
più sicuro al mondo» diceva,
allargandomi le braccia.
Oggi che non ho rifugio
se non negli occhi, sereni allora,
di mio padre (quiete prima della bufera),
pezzo dopo pezzo
riordino la nostra falegnameria.
*
Che ne è stato di quel chierichetto,
dei giochi coi gatti al sole?
Dove sono ora le preghiere
confidate ai marmi, le ostie sciolte
con le penitenze?
Tutto è nebbia che avvolge le ossa.
*
Nulla ci appartiene se non i sogni,
le immagini confuse della notte,
le voci che più non distinguiamo.
*
Dove sparisce adesso il sole?
Quali carni infetterà con la sua falsa luce?
Quale carcassa divorerà, senza pietà,
prima di infilare ancora
le sue spade nella notte?
*
È durata troppo poco l’infanzia.
Una corsa sul prato, un contare alla rovescia.
In mezzo è caduta la notte
e non abbiamo visto che occhi infuriati.
Non ci resta che aggrapparci ai sogni, all’ignoto.
*
Se dovessi descrivere un solo volto,
uno, uno soltanto, dei tanti volti
incontrati lungo il mio cammino,
non saprei farlo.
Gli occhi, ad esempio gli occhi:
verdi, azzurri, gialli, rossi, neri, castani, viola...
diventano nei miei ricordi buchi neri;
terribili, terribili, ossessionanti buchi neri.
La pelle? Ah, la pelle... un’autostrada
o magari un deserto.
Sono assalito da un fatale sbriciolarsi
delle linee e di ogni corpo non resta
in questa testa che un’ombra,
ombra oscura, senza volto né voce.
*
Sul letto il corpo si fa carne,
si scioglie al sole caldo d’agosto.
Temo il soffitto, che possa schiacciarmi.
La pelle è un lenzuolo stropicciato e sporco.
Tra poco guarderò le palpebre dentro,
cadrò da un incubo in un altro incubo.
Non mi appartengo, sono una statua
intessuta di nervi e tendini.
L’anima è solo una parte del corpo.
*
Poesia, Amore: significanti di corpi
che non sanno di esser morti.
Nessun verso è perfetto,
non ci sono giudici
che battono il martello.
*
Presto saremo come i morti
che scalando i cieli riguardano
la mappa fluorescente lasciata sulla terra:
i passi, i loro passi…
Scopriremo allora il disegno
della nostra vita?
Fiore, frutto, uccello, gioiello… o magari
niente… linee confuse… folle schizzo
irripetibile.
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