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’Edeniche’ - raccolta poetica di Flavio Ermini

Argomento: Poesia

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 06/07/2019 07:59:03

“Edeniche” - Configurazioni del principio – Raccolta poetica di Flavio Ermini - Moretti & Vitali Edit. 2019

"Prolegomeni alla ricerca del ‘mito’ perduto", Introduzione critica di Giorgio Mancinelli.

Nella concezione poetica di Flavio Ermini, autore di ‘Edeniche’, difficilmente si arriverebbe a una ‘dismissione del mito’ così come è giunto a noi contemporanei, per quanto gli effetti della sua ‘caduta’ si dimostrino oggi irreversibili, privata com’è della tesi che l’ha sostenuta fin dall’origine. Tesi che, dapprima Kant poi Jung e Kerényi hanno posto in evidenza, in quanto rappresentazione dell’inconscio collettivo primordiale, come “creazione mitica del pensiero umano”, d’appartenenza specifica alla sfera della psiche. Una ‘dismissione’ dubbia che pure c’è stata, e di cui oggi si tende a sminuire l’importanza, malgrado volenti e/o nolenti, non riusciamo ancora a fare a meno della ‘prestanza creatrice del mito’ che, come già Hegel a sua volta ha dimostrato, si palesa come essenza di “pura disciplina fenomenologica dello spirito”:

«non ha fondamento né gravità l’antro dei cieli / discosto com’è dal fuoco al pari del mondo abitato / che dalle acque creaturali viene circoscritto / per quanto non si tratti che di assecondare la caduta / consentendo così alle residue forze relittuali / di protendersi una volta ancora verso il principio / […] desituandoci dalle nostre abitudini cognitive / per esporci all’assoluto contrasto che si afferma / nel secondo principio di ascensione al cielo / […] nel varcare con reticenza il limite che ci separa / dalla superficie celeste dell’ultima terra / con la segreta illusione di rivelarne la natura».

Non mi è dato conoscere quanto consapevolmente ogni singolo autore citato, e lo stesso Flavio Ermini, “nel fondare il mondo sulla ragione”, abbiano visto negli effetti della ‘caduta edenica’, la perdita delle forme archetipe della psiche, attraverso le quali lo spirito umano pure s’innalza verso il sapere assoluto. Di fatto, con la compiuta ‘dismissione’ della pregressa mitologia senza uno scopo definito, seppure sostituita per ciò che riguarda l’attualità da nuovi ‘déi ed eroi’ di recente conio e piuttosto avulsi da virtù etiche ed estetiche “quale testimonianza dell’oscurità che si cela / nell’impreciso vuoto del presente”, si è creato un ‘nulla prepositivo’ nella conoscenza collettiva di non facile riempimento psicologico, che sta portando a uno sconvolgimento profondo di tipo esperienziale, pari quasi al trauma ‘immemore’ del Diluvio che in illo tempore sconvolse la terra:

«a causa dell’ostinato levarsi delle tenebre / se non proprio dell’annientamento cui porta l’apparire / sempre di nuovo si ripete l’ascensione al cielo / in omaggio al divenire che in terra si distende / sullo sfondo originario cui l’umano si sottrae / mettendo a soqquadro anche il sacro recinto / […] dove opera ogni notte un rivolgimento natale / l’incerta creatura da poco tempo generata / per la cui sacralità viene un mortale a garantire / in virtù della pietra e di un impossibile assentire».

Grandiosa l’immagine del ‘sacro recinto’ edenico, e della causa che ha portato alla dismissione dell’umana creatura da esso, in cui: «‘la terrena sostanza del giardino’ porta all’incompiutezza il graduale sottrarsi alle stagioni / che improntano senza posa il nostro incerto cammino / attraverso i gradini del tempo fino all’atemporalità / che diventa ostile alla terrena sostanza del giardino / rendendo inadeguato il consacrarsi al cielo della luce / così come il situarsi ai lati di una penosa dissoluzione / che (di fatto) mortifica l’essere umano per la vita che gli resta».

Nondimeno, nelle diverse sezioni autonome che distinguono questa silloge poetica al pari di un ‘unico lungo poema’, ritroviamo più o meno definiti tutti quei valori che il poetare si concede di trasformare in verso descrittivo, in cui si ravvisa una trama che non stento a definire ‘tragica’, se non ipotizzando una sorta di riabilitazione ‘al momento non formulabile’, che arresti il tempo della ‘caduta edenica’, in una sospensione a noi necessaria per ovviare quella ‘dismissione mitologica’ che pure fin qui ci ha accompagnati, «..se non ipotizzando l’aiuto delle ali», di nuove ali che ci permettano di tornare a volare:

«non l’interezza è all’origine del nostro apparire / ma un grido che ai viventi l’indiviso sottrae / quando è su loro impresso il marchio dell’obbedienza / anche se altro non fanno che sfuggire all’esilio / votati come sono all’illusoria condivisione della verità […] in collisione con l’orizzonte che lontano si configura / e con dolore fa pensare a molti uomini in catene […] nella relazione che i differenti mantiene separati / per un tempo che potrebbe anche essere indefinito / … il cui ‘paradiso perduto’ / rappresenta l’ultima luce per i mortali / spinti come sono verso la prima essenzialità / che nell’antiterra riconosce … / l’insopprimibile incedere di forze discordanti».

Per quanto il sottotitolo avverta trattarsi di ‘configurazioni del principio’, «nel carattere albale di vaghe sembianze», si ravvisa, almeno nelle intenzioni, un plausibile riferimento alla perdita delle ali da parte degli angeli caduti che ritroviamo sparpagliate un po’ dovunque. In ogni luogo dove, in contrasto con gli spostamenti tumultuosi che la ‘caduta’ dei corpi, al pari di meteore impazzite, di per sé conduce, si è ceduto a quella ‘pietas’ umana e divina insieme, atta a conservarne le spoglie e la memoria. È in questo senso che in “Edeniche” ogni locuzione va letta e ponderata a fronte di una forma poetizzante della trasformazione ‘divina’ dell’umano sentire:

‘la forma perfetta dei cieli’ (*)

nel carattere albale di vaghe sembianze
proprie dello spirito che bagna la terra
dove soffre ogni pena l’umano che appare
è nota da tempo la compostezza dei morti
pur se occultata sulla linea di faglia
del moto affannoso di chi ancora vive
ignaro della forma perfetta dei cieli

Ma noi non possiamo dismettere l’idea di una possibile intesa tra gli umani, propensi come siamo all’affrancamento della pena giustamente/ingiustamente inflitta, semplicemente perché non ci è concesso dalla violenza delle necessità cui siamo sottoposti, onde per cui ‘il cantiere dell’uomo’ “nell’atto di sottrarsi all’apparenza”, rimane attivo “per bandire il vuoto dal giardino”:

‘il cantiere dell’uomo’ (*)

ha voci ovunque il cantiere dell’uomo
nel richiamare alla mente la casa natale
che spinge l’esule a uno stato di sconforto
in quanto elemento destinato alla fine
mentre più inerte si va facendo il preumano
per l’estendersi del male tra le forze discordanti
la cui violenza impedisce al giusto di tornare
privo di ali com’è alla volta del regno

Il presupposto di un ‘giardino indiviso’ appositamente creato da Flavio Ermini per questa silloge, riflette di una sorta di sovrapposizione architettonica tipica della costruzione spaziale della torre di Babele, di cui narra la Bibbia nel libro della Genesi, in cui l’uomo, nel tentativo di recuperare l’Eden perduto: “..volendo costituirsi quale superamento dell’illusoria preminenza sul mondo che lo circonda”, smarrisce definitivamente la propria dimensione (umana), per entrare «..nell’imperfetta sua aderenza al pietroso crinale / per un altissimo grado di estraneità alle tenebre»:

‘la parte indivisa del giardino’ (*)

nel crepuscolo cui guardiamo con molta apprensione
perdono vigore i corpi cadendo su rovi inospitali
e su se stessi si piegano e con l’uomo ancora cadono
perché la luce è così fioca da spegnersi d’un tratto
legata com’è alla parte indivisa del giardino

Scrive Kerényi (*): «Non si tratta qui di ‘spiegare’ il mito con un aspetto più o meno patologico della vita psichica di un individuo, ma di constatare come un tema mitologico altro non sia che l’espressione concreta di una struttura intemporale dell’inconscio umano». In altri termini, a differenza dell’intendimento della scuola psicoanalitica classica, «..la psicologia non è impegnata a ‘ridurre’ il mito a espressione di uno stato psicopatologico riccorente nell’uomo antico e moderno, ma tenta di mostrare come nella natura puramente formale dell’inconscio, si possano reperire le matrici universali dei temi mitologici che per la vastità e l’intensità del loro ricorrere debbono a ragione essere chiamati universali».

«L’autentica mitologia – scrive ancora Kerényi – ci è diventata talmente estranea che noi, prima di gustarla, vogliamo fermarci a riflettere [...]. Noi abbiamo perduto l’accesso immediato alle grandi realtà del mondo spirituale – ed a queste appartiene tutto ciò che vi è di autenticamente mitologico –, l’abbiamo perduto anche a causa del nostro spirito scientifico fin troppo pronto ad aiutarci e fin troppo ricco in mezzi ausiliari. Esso ci aveva spiegato la bevanda nel calice, in modo che noi, meglio dei bravi bevitori antichi, sapevamo già che cosa c’era dentro».

‘il giardino conteso’ (*)

su questa terra palmo a palmo depredata
implacabilmente il tempo ci aggredisce
in un devastante potere di annientamento
tumulandoci sotto strati spessi di macerie
che l’epoca sottrae alle aule del cielo
nel far sì che l’umano essere sia sostituito
da un susseguirsi ininterrotto di simulazioni
[…]
da ‘la tomba guerriera’ (*)
come accade alle rose sulla tomba guerriera
nel fare spazio a figure d’indefinibili forme
al cospetto di un chiaro verdetto di condanna

«Per Jung (*), l’immagine archetipica (il mito) non è l’archetipo, ma il prodotto del suo incessante operare. Spetta allo psicologo individuare la struttura formale che genera le infinite immagini che sorgono dall’inconscio, tentando di separare “ciò che compete all’operare della forma e ciò che compete al materiale investito da tale forza strutturatrice (percezioni, ricordi, contenuti mnestici sepolti e persino concrezioni complessuali)”. […] D’altra parte, il fatto che i motivi mitologici fino ad oggi venivano trattati abitualmente in campi di studio diversi e separati, come la filologia, l’etnologia, la storia culturale e la storia comparata delle religioni, non ha favorito molto il riconoscimento della loro universalità».

Scrive D. Verard(*):

«A guidare i due studiosi Jung e Kerényi è la medesima convinzione: secondo la quale lo spirito scientifico moderno ha privato l’uomo delle sue reali capacità di comprendere pienamente la realtà. D’altronde, come Jung ha modo di precisare in numerosi luoghi della sua opera scientifica, è la separazione tra esperienza interiore ed osservazione scientifica, frutto della nascita dello spirito scientifico moderno, ad aver prodotto quella dicotomia tra mondo interiore e mondo esteriore che, per lo psicologo, equivale alla “perdita dell’anima”».

«Noi preferiamo le vie tortuose per arrivare alla verità» – scrive Nietzsche (*) – una frase che Flavio Ermini sembra aver fatto propria, se non fosse per quel sottotitolo più che mai ponderato, che avverte il lettore: trattasi di ‘configurazioni’, cioè, morfologie di forme archetipe intrinseche nella natura, nonchè da rappresentazioni di figure umane, entrambe recuperate dalla memoria collettiva. Una tortuosità visualizzata in immagini ‘di non facile lettura’, (e non poteva essere altrimenti), e che s’avvale di una simbologia dotta tutta da scoprire, che “..non rinuncia al desiderio di tornare / agli stadi periferici dell’esperienza / […] all’insipienza della vita terrena / quando la spada del divino s’impone / con il flusso vorticoso del tempo / all’inerte cammino che porta alla fine”.

“Un altissimo grado di estraneità alle tenebre”, scrive ancora Flavio Ermini in un passo elucubrativo, in cui “prelude al pianissimo di un lamento il dolore”, così intenso da rasentare il silenzio “che non ama farsi udire così come in terra / non s’odono i morti incedere sul selciato / tanto che la verità può rendersi manifesta / solo in quanto simulacro del primissimo inizio”.

Ma non c’è dato sapere dove tutto ha avuto inizio: “vano fin dal principio è l’uso delle ali / nelle cavità malamente scavate dai fratelli / e impone di assentire alla crudeltà della vita / nell’incessante perpetuarsi di un destino di morte / giorno per giorno testimoniato dall’uomo in catene / che affida agli immemori la custodia della terra”…

Impetuoso l’oceano sconfinato che circonda la rupe all’estremità del mondo, dove Prometeo in catene s’abbandona al moto silenzioso delle stelle, per un viaggio interiore dei primordi che richiama la memoria volontaria degli spiriti ancestrali a dar luogo alla condizione esistenziale umana sulla terra: “significazione temporale che ci separa da una minaccia o una promessa nella rara elargizione di follia cosciente” (*) che riscontriamo in noi nell’incedere alla vita, nella lotta costante del progresso e della libertà che ci è cara, quale archetipo/metafora del pensiero umano … “che danza nel silenzio e nel mistero”.

‘le terre delle pietre d’onda’ (*)
dà senso e forma al nostro esserci questo errare
sulle terre via via emerse tra le pietre d’onda
alla ricerca di un rifugio contro le illusioni
cui l’umana avventura induce nell’oscillazione
tra presenza e assenza in una sorta di estinzione
che appare incessante davanti alla dimora
della quale riconosciamo il vero fondamento
unicamente negli strati periferici del vuoto.


L’autore:

Flavio Ermini, poeta, narratore e saggista, dirige la rivista di poesia e critica letteraria “Anterem” dal 1976, dopo aver ricoperto importanti ruoli editoriali presso Mondadori, è oggi consulente di varie case editrici. Collaborazioni e partecipazioni a seminari e convegni in molte istituzioni accademiche italiane e straniere ne fanno una eccellenza nel settore dell’editoria, al quale si deve l’annuale “Premio Lorenzo Montano” e numerose collane nell’ambito della ‘poesia’ e la ‘saggistica’, tra le quali “Narrazioni della conoscenza” per i titoli della Moretti&Vitali.

Collabora, inoltre, all’attività culturale degli “Amici della Scala” di Milano.

Tra le sue pubblicazioni: ‘Poema n. 10. Tra pensiero e poesia’, (poesia 2001; edito in Francia nel 2007 da Champ Social), ‘Il compito terreno dei mortali’ (poesia, 2010; edito in Francia nel 2012 da Lucie Éditions), ‘Il matrimonio del cielo con la terra’ (saggio e poesia, 2010), ‘Il secondo bene’ (saggio, 2012), ‘Essere il nemico’ (pamphlet, 2013), ‘Rilke e la natura dell’oscurità’ (saggio, 2015), ‘Il giardino conteso’ (*) (saggio di poesia, 2016), ‘Della fine’ (*) (prosa poetica, 2016).


(*) titoli recensiti da Giorgio Mancinelli sul sito www.larecherche.it

Sitografia:
ANTEREM – Rivista di Ricerca Letteraria: www.anteremedizioni.it
Premio Lorenzo Montano: premio.montano@antermedizioni.it

Note:
Tutti i corsivi inclusi e le citazioni poetiche sono di Flavio Ermini, tratte da “Edeniche – Configurazioni del principio” – Moretti & Vitali Editori 2019.

Per gli altri autori di riferimento:
(*) Kàroly Kérenyi, “Nel Labirinto”, Bollati-Boringhieri 1983
(*) Carl Gustav Jung, Kàroly Kérenyi, “Prolegomeni Allo Studio Scientifico Della Mitologia” - Bollati-Boringhieri 1999.
(*) Verard D. in “L’albero filosofico. C.G. Jung e il simbolismo alchemico rinascimentale”, Psychofenia, 21, 2009. (cit. “Prolegomeni Allo Studio Scientifico Della Mitologia”).
(*) Friedrich Nietzsche – “Ecce Homo”, Adelphi 1991.
(*) Vittorino Andreoli ,”Il potere del silenzio”, Ediz. Corriere della Sera 2019.

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