Pubblicato il 29/01/2018 17:21:44
FLAVIO ERMINI … o la ricerca infinita della Poesia d’Autore.
“l’alto dei cieli” non ha fondamento né gravità l’alto dei cieli discosto com’è dal fuoco al pari del mondo abitato che dalle acque creaturali viene circoscritto per quanto non si tratti che di assecondarne la caduta consentendo così alle forze relittuali di protendersi una volta ancora verso il principio per misurare delle forme il grado di accoglienza nell’inclinazione dei sensi entro i poli del finito in cui si situa il divino per annunciare il dolore (Flavio Ermini)
Immagini per a-solo di poesia. Con l’affermazione “La poesia non è un genere letterario”, tema del Simposio aperto nell’Ottobre 2017 alla Biblioteca Nazionale Braidense, Flavio Ermini, poeta, narratore e saggista, nonché direttore della rivista di ricerca letteraria Anterem fondata nel 1976 con Silvano Martini, di fatto conferisce alla ‘poesia’ una prospettiva dinamica esclusiva che la distingue dalle altre forme narrativo-letterarie, in ragione di una di empatia sostanziale che l’accomuna al canto e alla musica, per lo più afferenti alla sfera del patrimonio immateriale. La ‘poesia’, non necessariamente scritta, offre quindi la possibilità di catturare molti aspetti della vita delle immagini che ancora oggi sfuggono alla descrizione letteraria, per quanto la si concentri in due ambiti distinti che si profilano nella nostra incompiutezza e nella nostra mancanza d’essere, ancorché non rispondenti alla domanda sulla nostra esistenza: “L’essere umano è il suo avvenire ma anche la domanda sul suo avvenire, cioè non solo esiste, ma vuole sapere il perché della sua esistenza.” (Fabio Squeo)
Da un lato, quindi, la rappresentazione onomatopeica della ricerca linguistica oltre che acustico-sonora che è all’origine della parola, e “che consente di riguadagnare la continuità originaria tra parola e mondo”; dall’altro, l’avanzare costante di una ricerca che adotta dalle varie scuole stilistiche, i differenti approcci teorici e metodologici, riguardanti ‘il pensiero visivo’ e la ‘percezione dell’immagine’, qui intesa nell’accezione di ‘percezione delle forme dell’arte’. La ‘poesia’ dunque come forma d’arte a se stante di un “pensare che può strettamente coniugarsi con il poetare, alla luce di un rapporto sempre nuovo tra parola e senso”, e per quanto la ‘ricerca di senso’ oggi possa sembrare in contrasto con l’attualità intimistico-minimalista inerente più all’indicibile che al non-detto. O, diversamente, con il linguaggio massimalista-globalizzato in cui la ‘poesia’ ripone la riflessione sul ‘senso’ che, seppure in differenti modalità di ricezione e comunicazione, ciò non diminuisce la portata antropologico-culturale del messaggio poetico che racchiude in sé.
La natura della poesia, infatti, si avvale di suoni ‘suggestivi d’immagini’ che si traducono in lineamenti audio-visivi conformi alle diverse espressioni dell’arte tout-court; e successivamente in forme connaturate al canto e alla danza (vedi il canto degli uccelli, la danza di corteggiamento di molte specie animali, ecc.). Ciò che nel tempo ha permesso di penetrare l’universo sonoro dell’habitat in cui viviamo, riscattandolo da culture e tradizioni diverse, entrate a far parte del ‘patrimonio immateriale’ dell’umanità. Ma ‘vedere la poesia’ nelle immagini della rappresentazione visiva, ed ascoltarne la musicalità intrinseca (nelle forme come nei colori), fa capo al concetto fondamentale della ‘performance‘, (Victor Turner) inerente all’estetica e al liminale:
“La performatività può essere utilizzata come chiave interpretativa di alcuni caratteri delle nuove tecnologie e in particolar modo può essere una nozione utile per connotare di una veste teorica la ‘costruzione di senso’ attraverso l’agire favorita dagli strumenti mediatici digitali”, oggi a nostra disposizione. “Per comprendere appieno il concetto di ‘performatività’ è però necessario leggerlo come pratica necessaria a una ridefinizione critica del reale e potenziale non-luogo di margine e di passaggio da situazioni sociali e culturali definite a nuove aggregazioni sperimentali. La riflessione teorica sul concetto di ‘performance’ permette infatti di penetrare le fenomenologie liminoidi (zone potenzialmente feconde di riscrittura dei codici culturali) e da qui anche la trasformazione sociale stessa” (Wikipedia). Poesia per immagini. Con l’aver dato ‘forma scritta’ al ‘dire’, attraverso il percorso accidentato dei segni grafici e, successivamente, alla sua trasposizione simbolica in quanto metafora figurativa, la ‘poesia’ assurge alla sua forma preminente di ‘creatrice d’immagini’, raggiungendo il suo apice nell’aver dato ‘voce’ all’immagine che la rappresenta. Per cui attribuire alla ‘poesia’ una certa corrispondenza e/o la relazione con l’immagine (grafica, pittura, scultura, fotografia ecc.), è inevitabile. L’alleanza introspettiva, di segreta comunicazione fra le parti, è, per così dire, incommensurabile. Al punto tale che un’immagine è poetica anche senza la suggestione del verso scritto che l’accompagna. Allo stesso modo che si può vedere un componimento poetico, se non addirittura ascoltarlo, senza la necessità di utilizzo di una immagine o di una forma specifica d’arte. In questo la ‘poesia’ è paritetica alla musica, al canto e alla danza, perché: “fonte di formazione e deformazione di un nuovo atto significante” (Giorgio Bonacini). Atto comprensibile di un prevedibile prosieguo di andare ‘oltre’ la forma, aprire un varco subliminale al testo scritto o figurativo, alla esegesi della parola contenuta e/o scivolata negli interstizi bianchi che intercorrono tra le righe, in cui il ‘dire’ risulta destrutturato dalla forma del ‘voler dire o non voler dire’ (nel senso di edificazione); e dal logos in quanto pensiero e verbo (edificante) del poetare. “Il dire del poeta ci parla di un ‘altrove’ dov’è in opera una prospettiva rovesciata rispetto al mondo sensibile” – scrive Flavio Ermini (in “L’altrove poetico” Editoriale n. 95 - Anterem), in cui l’immaginario è il vero interfaccia del poeta che se “non nomina le cose esperibili”, pur si avvale di binomi di ‘senso’ come: fisico-psichico, interiore-esteriore, indefinito e comunque intenso e/o estremo. Allora l’ ‘altrove’ è il Nulla e il Tutto è l’oceano e il deserto, la germinazione e la seccura, la speranza e l’abbandono, il moto e la quiete, l’essenza e l’assenza, l’immobilità e il trapasso, la stasi e la morte, plausibilmente contenuti nel dialogo poetico.
Immagini e forme queste, preminenti di concetto e contenuto, tuttavia impossibili da identificare e/o configurare se non nell’ambito di un ‘altrove’ in costante trasformazione, nelle differenti modalità di una cultura recepita nelle sue diverse identificazioni verbali-acustiche e sonoro-musicali, nonché coloristiche e luminose che danno luogo alla trasparenza dell’aere, in cui il ‘senso smarrito della poesia’ si ritrova e ci orienta verso il mistero del nostro essere. ‘Immagini coloristiche’ e ‘forme poetiche’ dunque, come memoria storica dell’esistenza antropico-naturale compresa tra realtà massima e finzione estrema, all’interno di una location-abitativa e una docu-fiction in cui la presenza e/o l’assenza umana si realizza nello ‘sconfinamento di senso’, allo stesso modo che nell’espresso sentimentalismo e nell’amore fugace, nella commedia liminale (farsa), come nella drammaticità luttuosa (tragedia), al livello della soglia della coscienza e della percezione. Le dimore della poesia. “Qui si viene non per celebrare una dimora, un giardino, ma perché ci si è persi” – cita Flavio Ermini (in “Non c’è fine al principio” Editoriale n. 94 - Anterem). La frase è del filosofo Lacoue-Labarthe alla quale inavvertitamente sembra rispondere proponendo alla lettura un’altra frase: “Se volete incontrarmi, cercatemi dove non mi trovo. Non so indicarvi altro luogo.”, del poeta Giorgio Caproni (in “L’altrove poetico” n. 95 - Anterem). Un non-luogo dunque che pure è “il luogo che ospita la domanda sull’essere, testimoniando la profondità della physis quale si era rivelata agli albori del pensiero”. Se si considerano qui le due frasi contigue, non senza una forzatura intellettuale, si potrebbe qui raffigurare un ‘ossimoro’ dove dimora-persi / altro luogo (dove non mi trovo), spingono verso quell’ ‘altrove’ dove “non c’è fine né principio”, che è poi il luogo della ‘poesia’, in cui: “… la natura può ancora parlarci come all’origine parlava ... dove le antiche parole tornano alle nostre labbra come strappate al silenzio; vere quanto è vero lo sgomento dinanzi all’inconoscibile.” (Flavio Ermini) Ancora più significativo è il principio immateriale poetico espresso nella ‘physis’ nel quale fin dall’antichità si cercò di cogliere il ‘senso’ della realtà in cui l’uomo è immerso nel suo divenire: “La poesia impone di accettare l’essere nel mondo in cui si dà, e implica un interrogarsi sul venirci incontro della molteplicità, un interrogarci sul come la parola può salvaguardare l’essere dall’apparenza. La parola è poetica – e quindi vera – allorché fa sì che l’essere sia. È in questo ‘lasciar essere’ che la parola svela il senso (della poesia) ed è dunque presso di essa quando ne preserva la differenza”. Differenza in quanto termine di opposizione e contrapposizione che interviene a spiegare le realtà particolari intrinseche della funzione poetica sottoposta al divenire, che dev’essere immutabile, previo l’inconfutabilità del pensiero che l’ha espressa, nel modo e nei termini del poeta, perché verità dell’essere.
Il ‘gioco filosofico’ (perché di questo si tratta) si avvale qui dell’interposizione di punti di riferimento alquanto labili, in cui la ‘poesia’ è sinonimo di mobile (solubile), contro la ‘parola’ per sua natura immobile (insolubile), malgrado l’alterità dei contrari che ne negano la relativa effettuazione. Si ha dunque che se possiamo considerare la ‘parola’ come ‘liquida’ per effetto della ‘Retrotopia’ (Zigmunt Bauman) in atto; ancor più la ‘poesia’ si fa evanescente, si volatizza nell’aere, spingendosi nella germinazione del nuovo che, al pari della fotosintesi clorofilliana s’avvale della metamorfosi della forma data, onde per cui dissoi-logoi “le parti mutano ma tutto resta immutevole” (Anassimandro), in quanto le differenze ‘affermazione e negazione’ mantengono uno stesso valore.
Flavio Ermini, in qualità di scrittore e poeta si inserisce nel ‘gioco’ sfruttando proprio questa formula inconfutabile con le sue pertinenti scelte Editoriali, interponendosi, per così dire, nelle linee direttrici della raccolta dei testi che compongono ogni singolo numero della Rivista Letteraria Anterem. Alcuni esempi di ‘altrove’ poetico:
“Non m’interessa pensare al mondo al di qua del mondo” (Nietzsche) “Si potrebbe dire che abbiamo due destini: uno mobile e senza importanza, che si compie; e un altro, immobile e importante, che non si conosce mai.” (Musil) “Lontano dal cammino degli uomini.” (Parmenide) “Ma i viventi commettono tutti l’errore di troppo forte distinguere. Fiorire e inaridire sono a noi ugualmente noti.” (Rilke) Alcuni dialoghi inerenti all’ ‘altrove’ poetico:
“Poesia e pensiero in dialogo” - di Adriano Marchetti, in Anterem n. 95 - Dicembre 2017 (estratto). Poesia e pensiero sono distinti come i due poli in cui si coniuga il linguaggio, in ciò che vi è di più profondo, di più elementare e più iniziale, per vibrare infinitamente in tutta la sua estensione. […] Appartiene alla tradizione occidentale una poesia che parla nella convinta presunzione di essere poetica. Diventa arte, il suo rapporto con la filosofia è apparso difficile, forse ossessivo. Nell’arroccamento sul proprio territorio autonomo e nella irresponsabilità verso qualunque altra disciplina che ha attraversato, si riflettono i grandi stereotipi: si dice per esempio che la poesia è irrazionale, emozione, sentimento, immaginazione, rivelazione. Mentre il pensiero sarebbe rappresentazione, razionalità, logica. Il filosofo, difende in forme diverse la sua idea. Il poeta maschera in forme diverse quell’idea. L’ambiguità che nel filosofo è una colpa, nel poeta è un pregio. […] I decostruzionisti giungono persino a ipotizzare che poesia e filosofia siano la stessa cosa e che si diversificano solo nella scrittura che utilizzano. […] La filosofia inizia come una domanda di senso e non ripudia la rivelazione verbale del canto. E la poesia sa di trasmettere un certo sapere. C’è, per così dire, una sovranità terroristica della poesia rispetto a una sorveglianza sapiente dei filosofi. Il tessuto del linguaggio filosofico si sottopone a una sorta di metafora continua, costringendo gli stessi concetti che utilizza a trasformarsi. In più ambiti i filosofi riconoscono nei versi forme dell’esperienza che già hanno avuto una sorta di canonizzazione filosofica; si fanno aiutare dai poeti in ciò che dicono a cornice della loro opera. Tuttavia non si tratta né di poesia filosofca né di filosofia poetica. Per comprendere tale indissolubilità e insieme singolarità occorre risemantizzare i due termini del rapporto. La poesia che pensa spporta la contraddizione, porta dentro di sé il pensiero e resta come in attesa sulla soglia, lasciando che le domande siano sospese al centro della coscienza profonda e dolorosa dell’ambiguità. Da una parte il rigoglio dell’essere e dall’altro la sofferenza – facce di una stessa medaglia – fanno sì che il poeta assuma su di sé, […] “tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia” (Arthur Rimbaud). […] La filosofia non smette d’interrogare la poesia e si trattiene su quella soglia dove la poesia continuando a pro-vocarla e a sfidarla, le restituisce le parole con un tono nuovo. La poesia smaschera la filosofia se questa presume di essere l’ultima parola del mondo. L’ultimissima parola non è mai stata detta; risuonerà al di là del mondo, altrove. […] Dal canto suo il pensiero impedisce al canto di essere poesia di se stessa. Né identità né confusione, né esclusivamente ombra né piena luce, né reciproca impenetrabilità. Il loro dialogo è possibile a condizione che il pensiero non sia ridotto a esoressione logica autosufficiente e che la poesia non sia compresa come un riflettersi estetico di se stessa. La nostra epoca, enigmatica nella sua oscillazione tra illimitata potenza e radicale alienazione, ci offre la prova dell’assenza di fondamento. […] Il tempo favoloso della scoperta del mondo – l’infanzia del mondo – è solo un relitto alla deriva, e risibile è il progresso nella sua presunzione di perfezione ‘naturale’. […] Il linguaggio raggiunge il poeta che lo eredita per la sua estrema sfida nell’epoca di compimento ed esaurimento della metafisica. […] Anche la filosofia, o (ri)pensa se stessa su modalità conoscitive che a lungo andare la inducono a riconoscere il proprio vuoto, o deve uscire da sé, dal circolo virtuoso dell’autotrasparenza, rinunciando al dominio logico che si dà ragione da sé. La separazione tra poesia e pensiero è in realtà una relazione unitiva dei due modi ritmici che portano il linguaggio al linguaggio. La poesia dà da pensare al pensiero e si accolla il dovere di pensare, ma non si pensa. Da parte sua, il pensiero, benché con modalità differenti, scruta la poesia, impedendole di essere poesia della poesia, cioè autolegitimazione di fronte al pensiero. Quest’ultimo, per quanto assolutamente radicale, non è in funzione di una conoscenza fondatrice, ragionevole e rassicurante, così come la poesia non è letteratura assoluta né tanto meno mistica ante litteram. […] La loro conversazione accade nell’intersezione della loro comune origine. L’origine non può essere pensata né come nulla né come qualcosa; la poesia scaturisce tra quel nulla e quel qulcosa, tra l’indefinito della negazione e la potenza dell’affermazione. Tra il nulla del nichilismo che nega il reale e l’illusione della rappresentazione che imita la natura c’è questo luogo vuoto , in cui ciò che è può apparire e raccogliersi nel suo dire silenzioso: un prima dell’inizio, un movimento inaugurale – vibrazione scaturente di ciò che perviene continuamente a sé. Non c’è origine, ma accordo immediato con una perpetua nascita a cui s’intonano i modi e le interrogazioni della scrittura, attraverso l’arte della variazione, della brevità esplosiva dell’istante al vocativo ostinato, verso qualcosa che si rivela riservandosi. […] La parte radiosa, l’alêtheia della physis, si lascia intravedere solo sfuggendo alla vista. Il suo dischiudersi universale appare nel suo ritiro in seno all’oscurità, dove la parola si rifiuta di dimostrare e decifrare, facendo solamente segno alla sua scaturigine. (Del resto), … se fosse la piena chiarezza, sarebbe compiuto e immutabile; se fosse totale oscurità, il suo accesso sarebbe impossibile. L’esperienza della rivelazione è nella rivelazione stessa, nel circolo del rivelarsi sottraendosi. Il poeta corre il massimo rischio, arrischia la propria identità di poeta:
“Io è un altro”, annuncia Rimbaud. “… di insensato gioco di scrivere”, dice Mallarmé. “… di cadere in servitù di parole”, parla Ungaretti. “… (rischia) attraverso l’intuizione della ‘decreazione’, l’unico atto autentico di donazione la sua identità”, affiora negli appunti di Simone Weill. “Il lavoro della poesia” – di Giampiero Moretti, in Anterem n. 95 - Dicembre 2017 (estratto). […] “La grandezza artistica (del fare poetico) può mai essere storicamente efficace, può inserirsi nel processo del divenire?”; (la domanda è così posta nel saggio “Problematica della poesia” da Gottfried Benn), e si pone nella prospettiva evoluzionista interpretata in senso biologico-meccanico, e non invece in senso ‘spirituale’. Spirituale vuol dire per Benn: che il cambiamento, lo sviluppo, nel grande e nel piccolo, avviene in senso goethiano, in maniera tale cioè che sia una variazione sul fondamento e non una variazione-accrescimento del fondamento. In campo poetico, la differenza sta nel fatto che nel primo caso l’individualità lirica resta ‘soggetta’ a una sostanza che, mutandosi, muta il soggetto poetico, mentre, nel secondo caso, l’individualità lirica assoggetta a sé il fondamento che, il fatto, scompare nell’Io che lo ‘esprime’. Il fondamento insomma, ‘resta’. […] In effetti, Benn sottolinea la preminenza della libertà poetica dell’Io lirico sulla meccanicità della sostanza interpretata in senso positivistico. […] Tra le considerazioni più degna di nota, e massimamente in linea con il pensiero di Nietzsche, troviamo quella secondo cui «l’Io è un tardo stato d’animo della natura, e addirittura uno stato d’animo fuggevole», ricondotta perciò al contesto fortemente nietzschiano all’interno del quale e dal quale nasce la prospettiva poetica di Benn, quella affermazione significa che l’Io ha un ‘suo’ tempo, dal quale emerge, e che esso è del pari fatto di tempo, e ciò senza alternative, senza ulteriori possibilità che non siano veri e propri inganni, abbagli (non insomma finzioni poetiche ‘volute’). […] Tra queste due strettoie, l’Io poetico esprime la sostanza, che non è però mai un mero niente e che quindi non può mai semplicemente appartenere all’Io che la esprime. […] E tuttavia: quell’espressione è dell’Io, gli appartiene come una ‘cosa’, una pertinenza (?) […] La poesia (e la sua espressione dell’Io) non viene tanto legata e collegata alla vita ‘spirituale’ del singolo, quanto piuttosto al suo ‘corpo’, come zona autenticamente antica, arcaica, in cui in qualche misura riposa l’emozione come dimensione e fatto primario: non frutto di mero stimolo esteriore, dunque, quanto piuttosto di una temporalità interiore, profonda e intensa che nessun cervello può oltrepassare o trascurare. […] Quella temporalità arcaica è ‘già spirituale’, ed è al contempo un fatto, irraggiungibile tuttavia dalla scienza intesa in maniera diversa da Goethe. Entra qui in scena, secondo la nostra lettura di Benn, la sua ‘proposta’ della poesia come un ‘fare’ che abbia, al contempo, caratteri individuali e universali, aspetti sia di irripetibilità (e quindi in un certo qual modo se non proprio irrazionali quantomeno a-razionali), sia di stile, comunicativamente avvicinabili, quest’ultimo, all’ambito del sapere. […] Poesia (quindi) come linguaggio e però come conoscenza, una mescolanza all’interno della quale non indisciplina e sregolatezza, bensì disciplina e regola sono al centro del processo poetico. […] In questa prospettiva, è possibile concludere che il ‘fare poetico’ è un fare ben più somatico che cerebrale e che esso presenta caratteri di universalità non di rado iscritti ‘nel corpo stesso del poeta’ non solo. Affrontando la questione del sorgere e del significato della genialità Benn evidenzia efficacemente come, nella sua prospettiva, l’elemento individuale (‘degenerativo’) della genialità si trasformi in qualcosa di universalmente riconosciuto, accertato e celebrato soltanto nella misura in cui l’universalità popolare (oggi diremmo: il pubblico) ne decreta il successo che viene fondato, radicato – diremmo noi – sul ‘corpo’ del poeta, vale a dire radicato in quelle profondità arcaiche le quali, sole, garantiscono una universalità non effimera all’opera d’arte ‘espressa’ dal genio. […] Le poesie vengono fatte, scrive Benn, e intende : le ‘poesie’ non sono il resoconto, il ‘racconto’ di stati d’animo individuali e passeggeri. Il ‘fare’ poetico è dunque ora al centro della riflessione; il difficile ciò che rende ‘rara’ la poesia, consiste nel fatto che essa non ha tema-argomento ma deve trasformare ciò che l’esistenza ‘sente’ in poesia. Se l’esistenza sente se stessa è ‘solo’ se stessa, la poesia sarà forse anche per certi aspetti ‘ben riuscita, ma non vera in senso ultimo. […] Forse, ma non è poco, se consideriamo che quella ricerca consapevole di un’apparenza (che non può mai, naturalmente, essere mera maniera) poggia a sua volta non tanto o soltanto sulla volontà artistica ‘del’ poeta quanto invece sulla potenzialità poetica dell’essere. È quest’ultima, se così stanno le cose, che ‘libera’ la poesia come risultato puro e semplice dalle strettoie del mestiere. Naturalmente, indicare cosa, in una poesia, non va nella direzione suddetta, è molto spesso ben più semplice del contrario. Si leggano con attenzione, a tal proposito, le pagine che Benn dedica a sottolineare i quattro elementi che (a suo dire) tanto frequentemente compaiono nelle poesie quanto altrettanto frequentemente, segnalano un cortocircuito nella poesia. In conclusione però il punto è uno solo e uno soltanto, nella poetica moderna, la poesia del nostro tempo è quella in cui la nostra esistenza si ritrova appieno, o almeno può ritrovarsi l’Io che, parlando di se stesso parla d’altro, e questo altro non è una sua proiezione, ma è davvero Altro. E se non è, tale parlare,una modificazione, davvero diventa difficile ipotizzarne una più radicale.
Poesia dunque come variazione, cambiamento, sconfinamento, digressione, erranza.
Queste le tematiche ampiamente trattate dalla Rivista Letteraria da illustri studiosi traduttori e commentatori di saggi filosofici e poetici dei migliori e riconosciuti scrittori di ogni epoca, con particolare riguardo agli autori a noi contemporanei. Nelle sue pagine troviamo, inoltre a Flavio Ermini, Giorgio Bonacini, Vincenzo Vitiello, Carlo Sini, Alejandra Pizarnik, Laura Caccia, Enrico Castelli Gattinara, Alfonso Cariolato, Ranieri Teti, Massimo Donà, Henri Michaux, Davide Campi, Mara Cini, Marco Furia, e numerosi altri collaboratori. Ma non è tutto, sono regolarmente accolte inoltre le ‘voci’ dei grandi poeti, come Friedrich Hölderlin, Paul Celan, Emily Dickinson, Giuseppe Ungaretti, Giacomo Leopardi, Marina Cvetaeva, Claude Esteban, Camillo Pennati, Rainer Maria Rilke, Yang Lian, solo per citarne alcuni. Anche se è facile immaginare che nei 42 anni dalla fondazione della Rivista siano apparsi, verosimilmente, tutti o quasi sulle sue pagine.
Un pregio questo che attribuisce ad Anterem il primato di una lunga impegnativa produzione letteraria, della quale, Flavio Ermini, da sempre, mantiene alto il vessillo dell’impegno filantropico socio-culturale nel nostro paese. “Non c’è fine al principio” va quindi considerata come ‘massima’ che da sempre distingue e sostiene Flavio Ermini, e va letta come impegno progressivo e conseguente nel duro lavoro di direttore e redattore della Rivista, giunta quest’anno al suo 95 numero con il quale si è voluto in questo articolo, dare una risposta confacente a “La poesia non è un genere letterario”, come abbiamo avuto modo di accertare. Relativamente a un modo dirompente e in qualche modo provocatorio di tornare ad argomentare un dialogo schiuso in illo tempore, ma pur sempre attuale, sul ‘fare’ poesia e sul ‘lavoro’ del poeta, con l’affrontare tematiche vecchie e nuove inerenti e/o differenti all’argomento poetico.
Lo attestano le numerose adesioni alle diverse ‘sezioni’ del Premio, ed ancor più le varie pubblicazioni indotte ad esso, come avviene ad esempio con ‘Limina’ Collezione di scritture, e con ‘Opera Prima’ che accoglie fra le sue pagine le ‘voci’ di autori inediti e in parte sconosciuti nella scuderia del Premio intitolato a Lorenzo Montano giunto alla sua XXXII edizione, che la Rivista Anterem indice ogni anno nella ricerca infinita della Poesia d’Autore. Autori che si aprono con spirito innovativo a questa parte legittima di infinito, dando maggiore forza al riconoscimento della ‘poesia’ come forma d’arte a se stante, capace di affermare l’universalità del suo messaggio, sconosciuto in quanto imperscrutabile, suggestivo quanto più ispirato. Afferente al pensiero e alla parola, così come al canto e alla musica, in quanto ‘voce poetica’ definitivamente liberata dai lacci misteriosi delle afasie di un linguaggio ampiamente superato, appartenuto al passato, per quanto glorioso, ma che oggi pur s’avvale della bellezza terrena dei sentimenti e dell’ebbrezza spirituale che inevitabilmente pervade l’universo futuro.
Flavio Ermini (Verona, 1947), poeta e saggista. Dirige dalla fondazione (1976) la rivista di ricerca letteraria “Anterem”. Tra le sue ultime pubblicazioni: ‘Poema n. 10. Tra pensiero e poesia’, (poesia 2001; edito in Francia nel 2007 da Champ Social), ‘Il compito terreno dei mortali’ (poesia, 2010; edito in Francia nel 2012 da Lucie Éditions), ‘Il matrimonio del cielo con la terra’ (saggio e poesia, 2010), ‘Il secondo bene’ (saggio, 2012), ‘Essere il nemico’ (pamphlet, 2013), ‘Rilke e la natura dell’oscurità’ (saggio, 2015), ‘Il giardino conteso’ (saggio e poesia, 2016), ‘Della fine’ (prosa poetica, 2016). Collabora all’attività culturale degli “Amici della Scala” di Milano. Per Moretti&Vitali cura la collana di saggistica “Narrazioni della conoscenza”. Partecipa a seminari e convegni in molte istituzioni accademiche italiane e straniere. Vive a Verona, dove lavora in ambito editoriale. Riferimenti bibliografici oltre quelli citati: Fabio Squeo, “L’altrove della mancanza nelle relazioni di esistenza”, Bibliotheka Edizioni 2017. Victor Turner, “Antropologia della performance”, Il Mulino 1993. Wikipedia, Enciclopedia libera on-line – by Wikimedia Foundation Giorgio Bonacini, Prefazione a “L’inarrivabile mosaico” di Enzo Campi – Anterem Ed. Premio Lorenzo Montano ‘Raccolta inedita’ 2017. Zigmunt Bauman, “Retrotopia”, Laterza Editori 2017. Gottfried Benn, “Lo smalto sul nulla”, Problematica della poesia, Adelphi 1992, in “Il lavoro della poesia” – di Giampiero Moretti, in Anterem n. 95 - Dicembre 2017. Artur Rimbaud, in “Poesia e pensiero in dialogo” di Adriano Marchetti, Anterem n. 95 - Dicembre 2017.
Recensioni di Giorgio Mancinelli sul sito larecherche.it:
Flavio Ermini, "Il Giardino Conteso" - Moretti & Vitali, 2016. Pubblicato il 20/04/2016 04. Flavio Ermini, “Serata/Evento dedicata a Rainer Maria Rilke, a 90 anni dalla morte”. Pubblicato il 29 dicembre 2016. ANTEREM 91 apre il 2016 con uno straordinario numero da collezione. Pubblicato il 03/03/2016. “91 E NON LI DIMOSTRA” ANTEREM RIVISTA DI LETTERATURA E POESIA . Pubblicato il 30/12/2015 “Premio Di Poesia 'Lorenzo Montano' Edizione Del Trentennale”. Pubblicato il 10/02/2016
Sitografia: ANTEREM – Rivista di Ricerca Letteraria: www.anteremedizioni.it Premio Lorenzo Montano: premio.montano@antermedizioni.it
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