Pubblicato il 05/12/2007
C’è un gruppo, non organizzato, trasversale a tutti gli altri, non so quanto numeroso, di persone di ogni condizione sociale sparse per il mondo. E’ il gruppo di quelli che nella loro vita sono andati una volta alla Grotta dei Pirenei e da allora non riescono più a farne a meno. Ne faccio parte anch’io. Se chiedete a qualcuno dei “Lourdisti” (li chiamo così) perché da cinque, dieci o vent’anni decide ogni volta di fare quel pellegrinaggio, non aspettatevi una risposta precisa; probabilmente vi dirà che “sente” di doverci tornare. Forse perché Lourdes è la prova tangibile che ciò che è debolezza e stoltezza di Dio - come dice San Paolo - è più forte e più sapiente della forza e della sapienza degli uomini. Forse perché, tolto tutto il resto (souvenir, negozi, alberghi), Lourdes è la Grotta, quella Grotta davanti alla quale si respira - d’estate e d’inverno - aria di primavera.
Dopo diversi anni di viaggi estivi autorganizzati, questa volta ci sono voluta ritornare per la Festa dell’11 febbraio, con i Padri Domenicani, particolarmente legati alla Madonna e al Rosario, e anche ad alcuni luoghi e vicende della mia vita. Quando si parte, si pensa ad un certo corso del viaggio, ma poi le cose vanno diversamente. Perché in quelle poche centinaia di metri in cui si svolge la vita del pellegrino, dalla Grotta all’esplanade, puoi fare gli incontri più inaspettati: trovare gente che conosci, scoprire storie di speranza e di Provvidenza, ritrovare persone che avevi dimenticato o creduto di non incontrare mai più. A me quest’anno è capitato di riscoprire, grazie ad una compagna di viaggio, Pier Giorgio Frassati. Era un giovane torinese, uno di quelli che hanno tutto, ma “si complicano” la vita con i poveri, la giustizia sociale, la carità e altre cose del genere. Aveva anche sofferto, molto, ma fino alla fine aveva conservato quella gioia di vivere e quel suo sorriso luminoso che gli venivano dalla fede.
Era di lui, di questo giovane solare, che avrei voluto parlare ad un altro giovane, in fila accanto a me la mattina del 12 febbraio, in attesa di entrare nella Grotta. Vedevo il suo dolore, e forse ne avevo anche intuito la causa, ma mi mancavano le parole per dargli coraggio. Temevo di essere inopportuna, o forse mi stavo solo adeguando anch’io allo stile di questa società, in cui il dolore è un fatto tutto personale, da vivere in silenzio, “con dignità”, ognuno per conto proprio, nella propria solitudine. Sicuramente è più comodo - pensavo -, perché se inizi a conoscere, ad interessarti al dolore degli altri, poi è difficile non fare niente, e magari finisci come Pier Giorgio col complicarti la vita. Intanto eravamo quasi arrivati alla Grotta, non c’era più tempo per parlargli. Mi guardavo intorno: non vedevo i malati, come d’estate; a Maria portavamo altri tipi di sofferenze. Entriamo. Sostiamo un attimo davanti alla Sorgente sgorgata sotto le dita di Bernadette, continuiamo insieme fino alla statua della Madonna. Lui si ferma e piange. Poco prima, meditando sulla terza caduta di Gesù nella Via Crucis, il padre domenicano aveva detto che dobbiamo imparare ad accettare la nostra debolezza. Mi sono ricordata di San Paolo: chiedeva al Signore di essere liberato dalla sua sofferenza. La risposta era stata secca, ma rassicurante: «Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta pienamente proprio nella debolezza». Queste parole, molte volte, avevano allontanato da me ogni paura. In quella fresca Grotta, quel sabato, speravo lo stesso per lui.
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